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Giorno: 13 Ottobre 2018

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Scrivere, verbo al femminile

di Irene Lodi

Concita e le altre. Fra le molte protagoniste di Internazionale, uno spazio particolare va dedicato alle scrittrici che hanno incontrato il pubblico nella tre giorni ferrarese. Venerdì pomeriggio gli appuntamenti di letteratura al femminile, introdotti dalla psicanalista Chiara Baratelli, sono stati inaugurati da Concita de Gregorio, che ha presentato in Sala Estense “Chi sono io?”. Il filtro della macchina fotografica è stato parte integrante del lavoro della scrittrice, che ha raccontato proprio insieme a una delle fotografe, Silvia Camporesi, come mai si siano concentrate sull’autoritratto e sull’immagine. “Non sentirsi mai a proprio agio – ha detto De Gregorio – è una condizione che ti mantiene vigile. Ha dei vantaggi: non ti fa mai abituare o distrarre, ti fa mettere a fuoco meglio quello che vedi, ti fa sentire dentro e fuori dalle situazioni”. L’appartenenza e la non appartenenza alle cose, alle persone, dunque, è stato il motore del libro, che è una raccolta di storie e una riflessione sullo sguardo: quello degli altri e il proprio. Perché osservarsi ed essere viste, per le donne è una questione cruciale. Una autoanalisi, quella femminile, che parte spesso dai momenti di fragilità: “Quando siamo felici non ci facciamo caso – ha concluso la scrittrice – quando c’è qualcosa che non va, invece, pesa molto. Quando tutto è al suo posto, un momento che dura poco, non si nota: l’ordine però è un nostro tentativo di controllare ciò che succede, quando la regola è il disordine”. Caos e cosmos si contrappongono e si fondono, in un gioco di riflessi che consente di scrutarsi dentro.

Gli spunti narrativi sono continuati nella presentazione de “Le assaggiatrici”, vincitore del premio Campiello, di Rosella Postorino. “Gli esseri umani hanno questa ostinata tensione per la sopravvivenza – ha affermato l’autrice – è la loro più grande risorsa, ma è allo stesso tempo anche una condanna, e il male nasce da questo: per sopravvivere siamo disposti a qualunque compromesso, siamo disposti a giustificare qualunque azione per la volontà di sopravvivere”. Il suo è un libro di relazioni e di persone “normali”, e la sua è una penna che intriga grazie alla schiettezza:”Volevo raccontare una persona qualsiasi, una che non ha scelto di diventare nazista, non aveva neanche l’età per votare quando Hitler è salito al potere. Rosa si trova in quella situazione, non ne è causa”. Dalla vita di Rosa Sauer parte una riflessione politica: “Chiunque cresca in un sistema oppressivo, che sia un sistema totalitario, un clan mafioso, una famiglia tirannica, è vittima di quel regime, anche se ne diventa complice”, ha detto Postorino, “Questi regimi non solo hanno la colpa di coercire, ma anche di togliere l’innocenza a chi ne è parte, rendendolo sempre più parte del sistema”. Le assaggiatrici è anche un libro intrinsecamente legato al cibo, che diventa metafora del ciclo vitale, un ciclo continuo, che non si ferma davanti a niente: “La vitalità del mondo che continua nonostante tutto può contagiarci, ma ci fa sentire tutta la nostra piccolezza, tutta la nostra miseria – ha concluso – Le persone continuano anche durante l’orrore della guerra, anche nel dolore, a stringere amicizie, ad avere voglia di ridere, a fare l’amore, a essere umani”.

Un altro libro che torna a parlare di amore è quello di Daria Bignardi, Storia della mia ansia, presentato sabato pomeriggio in Sala Estense. “L’amore è una cosa semplice e banale – ha esordito l’autrice ferrarese – ma non così decodificata. Viene relegato, soprattutto in letteratura contemporanea, in spazi marginali, è difficile che si stia su temi semplici, come quello della pienezza e della totalità dell’incontro. Il tema mi interessava: è impossibile l’incontro autentico e assoluto, ma nonostante questo continuiamo a innamorarci e a parlare d’amore”. Sono poche le persone in grado di accettarne la relatività, secondo Bignardi, mentre per tutto il resto riusciamo a scendere a patti con i compromessi nella nostra lettura del mondo. Anche il tema della corporeità e della concretezza si ritrova in questo romanzo: “In tutto ciò che scrivo ci sono vita, morte, incidenti, malattie, tutto quanto riguarda il corpo – ha concluso la scrittrice – perché questi momenti rappresentano la realtà che irrompe nel quotidiano, il senso implacabile e devastante della realtà, ma a volte anche la pienezza della realtà, una sensazione che a volte perdiamo”.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Chi sono io? L’identità ai tempi dei social network

di Laura Fabbri (allieva del liceo classico Ariosto, Ferrara)
“Non mi vedo come mi vedono gli altri”. Dinanzi al pubblico della sala Estense, la scrittrice Concita De Gregorio, rivela la sua difficoltà nel farsi fotografare: “Avverto un senso di estraneità e disagio che mi fa sentire fuori posto”. Ma questa “non appartenenza” a suo avviso sottintende in realtà una libertà, un’indipendenza. L’occasione per questa confessioni in pubblico è offerta dal Festival di Internazionale. A far da contraltare, la psicanalista Chiara Baratelli – coadiuvata da alcune studentesse del Liceo Roiti – ha gestito un interessante dibattito sull’importanza delle immagini come fonte identitaria, del quale è stata coprotagonista la fotografa Silvia Camporesi, che incalza: “La fotografia è una una terapia, uno strumento di indagine volto a cogliere ed interpretare l’identità personale, vincere il disagio e accettare le imperfezioni; inoltre evidenzia come, in prima persona, sia riuscita a vincere le sue debolezze grazie ai ruoli interpretati nei suoi autoritratti”.
Anche dal pubblico arrivano sollecitazioni: “Che cos’ha il dolore che non ha la gioia?”, domanda una delle studentesse, spiazzando la scrittrice… “Tutte le forme d’arte nascono dal dolore”, risponde direttamente lei, dopo un attimo di riflessione; “quando si è felici non lo si nota, ma quando c’è qualcosa che non è in ordine ci si fa subito caso: “Lo stato di equilibro è il disordine. Quando gli uomini cercano di dare una parvenza di logica alla vita, il dolore si impone più forte”.
Un altro tema affrontato è quello dei social network e come questi abbiano modificato il ruolo della fotografia nella società. L’autrice sottolinea come questi abbiano fatto perdere importanza all’esperienza: “Prima di essere ricordato un momento va vissuto, non si può vivere per vedere cosa si conserverà di questo momento”. Inoltre, sottolinea, spesso i ‘social’ non sono altro che una storpiatura della realtà, una finzione che ha come unico scopo quello di suscitare invidia nell’osservatore, una pura esibizione dove “non è più permesso avere dei difetti”.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Vite in fondo al mare

di Ines Ammirati (allieva del liceo classico Ariosto, Ferrara)

“N.N 2 uomini più o meno 18 anni. Annegati. N.N 9 uomini. Annegati”. L’elenco dei nomi continua senza sosta, come rintocchi riecheggiano nella piazza della Cattedrale negli albori di questa prima giornata di apertura del Festival di Internazionale. “N.N uomo. N.N uomo, più o meno 25 anni. Congelato”…
Ogni anno migliaia di persone intraprendono un viaggio verso l’Europa con l’obiettivo di lasciarsi alle spalle gli orrori di una vita che non li soddisfa, alla ricerca di un posto dove ricominciare, un luogo da poter chiamare di nuovo casa. La maggioranza non sa che non raggiungeranno mai una meta nel loro peregrinare: secondo gli ultimi dati UNCHR, dei 100.000 migranti che partono ogni anno tra i 3000 e i 5000 muoiono o sono dispersi lungo la strada, altri rimangono bloccati per anni in un Paese che non fornisce loro i permessi per terminare il loro viaggio.

A molti questi numeri sembreranno solo una serie di dati statistici senza valore; non vedono che ad ogni cifra corrisponde il volto di un uomo, di una donna o di un bambino senza nome, il cui valore di essere umano unico ed inimitabile è stato dimenticato.
Gipi, pseudonimo di Gian Alfonso Pacinotti, fumettista, illustratore e regista italiano, è la prova vivente che non tutti dimenticano.

Nel corso della lettura ininterrotta dell’elenco, in continuo aggiornamento, compilato dall’ong olandese “United for intercultural action”, il fumettista ha infatti dato voce alle trentamila persone morte dal 1993 a oggi in viaggio verso l’Europa, dimostrando così al folto pubblico riunito di fronte alla Cattedrale, che, anche dall’alto di un piccolo palco in mezzo alla folla, un solo uomo può fare la differenza, ricordando che oltre i numeri ci sono persone con sogni ed aspirazioni comuni a tutti noi, la cui memoria non può, anzi, non merita di essere dimenticata.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
“La globalizzazione è il nuovo colonialismo”

di Maria Guandalini e Federico Izzi (allievi del liceo classico Ariosto, Ferrara)

Suad Amiry scrittrice e architetto palestinese è stata ospite del programma radiofonico di Radio3Mondo, Il giro del mondo in sessanta minuti, condotto dalla giornalista Anna Maria Giordano e andato in onda dal cortile del castello Estense nell’ambito del festival di Internazionale. L’incontro Palestina sconfinata, moderato dall’arabista e traduttrice Elisabetta Bartuli, ha visto coprotagonisti gli scrittori Atef Abu Seyf ed Elias Sanbar, l’autrice Selma Dabbagh e la fotografa Rula Halawani. La Amiry, attivista per i diritti palestinesi, ha introdotto brevemente il conflitto arabo-israeliano, oggetto delle sue riflessioni e dei suoi libri (tra gli altri ricordiamo Sharon e mia suocera. Diari di guerra da Ramallah, Palestina, Feltrinelli 2003). Poi ha preso la parola Marta Dillon, attivista argentina e parte attiva del movimento “Ni una menos”, che ha brevemente illustrato la lotta sua e di molte altre donne sudamericane, per la parità dei diritti e contro la “violencia machista” (violenza maschile), concentrandosi particolarmente sulla campagna per la legalizzazione dell’aborto in Argentina.
Anna Maria Giordano ha poi introdotto Raj Patel, scrittore britannico, di origine figiana e kenyota, il quale ha parlato della propria esperienza alla protesta anti-globalizzazione di Seattle del 1999. “La globalizzazione è il nuovo colonialismo”, ha sostenuto Patel, che si batte per la preservazione delle culture di tutto il mondo. Shamiso Mungwashu, protagonista del quarto intervento, ha sottolineato l’importanza di nuovi metodi di produzione agricola, nel rispetto del pianeta e del lavoro. Nel suo progetto vengono coinvolte molte donne zimbabwesi, che partecipano attivamente alla coltivazione biologica ed ecosostenibile proposta da Shamiso, contro l’uso e l’abuso di sostanze chimiche. L’imprenditrice ha inoltre rimarcato l’importanza del coinvolgimento delle nuove generazioni in un nuovo modo di produrre alimenti. Ha concluso il programma la riflessione della giornalista pachistana Rafia Zakaria, sulla troppo frequente stereotipizzazione attribuita da alcuni giornalisti occidentali ai musulmani e alle persone di diverse etnie. Troppo spesso l’informazione va contro il rispetto dei diritti umani, dice. Tra un ospite e l’altro due studenti del Conservatorio G. Frescobaldi di Ferrara hanno eseguito due brani per vibrafono e batteria.

NON SOLO INTERNAZIONALE
Il Festival è finito, ma il carcere resta: Ferrara oltrepassa il cancello

Quasi 80.000 persone, soprattutto giovani e giovanissimi, hanno invaso Ferrara per seguire i tanti appuntamenti del Festival di Internazionale in un’edizione, la 12esima, dai numeri record. Ma forse è importante dar conto anche di un evento collaterale, molto significativo, e nemmeno tanto piccolo, anch’esso un primato, almeno per la nostra città.
Venerdì 5 ottobre; giornata uggiosa, cinque e mezza del pomeriggio, una piccola folla si raduna davanti ai cancelli del carcere di Ferrara: 80 persone contate, più due o tre giornalisti, ma – mi dice Mauro Presini, organizzatore dell’incontro/evento ‘La città incontra il carcere’ – “Mi continuano a telefonare per chiedere un pass, ma non si poteva sforare quella quota, non c’era posto per tutti; così ho dovuto dire di no ad almeno altri cento ferraresi”.
Già, perché entrare in una Casa Circondariale non è cosa semplicissima. Bisogna qualificarsi con largo anticipo (nome, cognome, eccetera), esibire e lasciare in consegna la carta d’identità alle guardie del primo cancello, lasciare in macchina il cellulare, e poi camminare un bel po’: passare altri cancelli, cortili interni, muri di cemento armato, corridoi, porte blindate. Ora siamo entrati; lungo il percorso di avvicinamento costeggiamo un orto perfettamente manutenuto: è solo una piccola frazione del grande e ormai famoso Galeorto, il geniale progetto ideato e gestito dalla Associazione Viale K.
Ecco, dietro l’ultima doppia porta di acciaio, ci aspettano le due mostre con le opere di alcuni detenuti (pittura e fotografia) e i detenuti stessi che hanno frequentato i laboratori creativi. Insieme a loro, un altro gruppetto di carcerati, la redazione al completo di ‘Astrolabio’, la rivista del carcere di Ferrara, una bella esperienza che va avanti da tredici anni, ancora troppo poco conosciuta in città.

Tutti gli altri – sono circa 400 gli ospiti della Casa Circondariale di Ferrara – sono ovviamente rimasti in cella: impossibilitati a partecipare all’incontro pubblico, assenti quindi, ma non del tutto: dalle finestre del casermone, le loro grida, i richiami, le mezze strofe di canzoni, ci avevano accompagnato mentre percorrevamo i cortili interni del carcere. Erano parecchi anni che non visitavo una galera – forse il sostantivo non è ‘politicamente corretto’ ma rende perfettamente la situazione – e vi assicuro che quelle voci lontane, ingabbiate dietro le sbarre e le grate, ti rimangono dentro. Non riesci neppure a capire cosa gridano – stanno chiamandosi tra loro o vogliono mandare un messaggio a te che sei libero? – ma restituiscono tutta intera la separatezza, il solco, la cesura tra liberi e reclusi. Da una parte il carcere, dall’altra Ferrara e i suoi ‘liberi’ cittadini.
Questa sera però, caso eccezionale e merito di chi ha voluto e organizzato questo evento, la città incontra il carcere. Per più di mezzora giriamo per i due locali dove sono allestite le piccole mostre di quadri e di fotografie in bianco e nero. Parlo con Cristiano Lega, un giovane fotografo napoletano trapiantato a Ferrara che ha condotto il laboratorio di fotografia e con alcuni dei suoi alunni detenuti. Gli faccio i miei complimenti, le foto sono belle, potenti, cariche di emozione. Spiega Cristiano: “E’ proprio sull’emozione che abbiano cercato di lavorare: dimenticare per un momento il carcere, scavare dentro di sé, buttare fuori le emozioni, e fermare queste emozioni in uno scatto o in un autoscatto”. E Paride, uno dei suoi alunni, mi racconta cosa ha significato per lui partecipare a quel laboratorio: “In vita mia non avevo mai preso in mano una macchina fotografica. Non avevo idea, all’inizio non ci credevo proprio. Ci portano in una stanza vuota, tutta bianca, che ci facciamo qui? E invece dopo un po’ mi sono mollato, mi sono lasciato andare, e mi sono anche tolto la maglietta e mostrato i miei tatuaggi. Io la chiamo la mia carta geografica. Alla fine, mentre posavo, o mentre scattavo una foto , era come se in quel momento non fossi più chiuso in carcere. Ci credi? Ero dentro una stanzetta tutta bianca ma mi sentivo libero. Potevo salire sul ring come un pugile, potevo mettermi a ballare…”. Le foto che corredano questo articolo mi pare diano ragione a Paride, ai suoi compagni di corso e al loro insegnante.

Foto di Giulia Presini. Clicca sulle immagini per ingrandirle

Sul muro di fronte alle fotografie, sono appesi i quadri a olio (con regolare cornice) prodotti nel laboratorio di pittura condotto da Raimondo Imbrò del Centro Sociale Quadrifoglio di Pontelagoscuro. Nei quadri, più dei soggetti, mi colpisce lo sguardo: sempre indirizzato dal dentro al fuori, dal chiuso all’aperto, oltre la finestra della cella: prati verdi, passeggiate in un viale alberato, barche sulla spiaggia, marine con faro o senza faro. E una grande mano aperta in primo piano, al polso una catena spezzata. La mano, finalmente, è libera.

L’incontro pubblico si svolge in una grande sala. Sul palco ci sono loro, i protagonisti: una decina di detenuti e componenti la redazione di ‘Astrolabio’ con il maestro Mauro Presini curatore e animatore della rivista, insieme ai partecipanti ai laboratori creativi. Non sono tutti sul palco; mostrarsi e parlare davanti a tante persone non è una cosa facile e alcuni di loro preferiscono stare tra il pubblico e ascoltare. Ma alla fine, vincendo l’imbarazzo e l’emozione, sono in tanti a parlare, a raccontarsi, a rispondere alle domande, a esprimere un’idea o un desiderio. Dopo il saluto del direttore della Casa Circondariale Paolo Malato e dell’Assessore Chiara Sapigni del Comune di Ferrara (da anni il Comune sostiene, economicamente e non solo, Astrolabio e altre attività dentro il carcere), dopo il breve intervento di Vito Martiello (inventore e direttore responsabile della rivista), sono i detenuti a prendersi la scena. I loro sono piccoli racconti di un riscatto, di un percorso di riabilitazione e cambiamento che, pur essendo ancora reclusi, è già iniziato. Grazie a iniziative come ‘Astrolabio’, i laboratori, il teatro, l’orto dentro e fuori le mura del carcere. Grazie all’impegno di tanti volontari ferraresi. Grazie alla disponibilità del direttore della Casa Circondariale e all’attenzione dell’Amministrazione Comunale. Il pubblico ascolta e fa domande. I detenuti (sotto ho voluto ricordare tutti i loro nomi di battesimo) rispondono. Si accende un dialogo concreto, non sui massimi sistemi, ma sulle necessità, le esigenze, i desideri di chi è privato della libertà ma chiede di non buttar via il tempo da passare in carcere.

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Qui, dentro questa sala disadorna della Casa Circondariale si respira un bel clima. Un clima ben diverso da quello che circola oggi in Italia. Mi viene in mente il Ministro dell’Interno che ricorda in tv e via Facebook che lui manterrà la promessa di… costruire altre carceri. O il dibattito in Parlamento dove la maggioranza nega alle madri detenute di stare assieme ai loro figli neonati. Ferrara, per fortuna, va “in direzione ostinata e contraria”. Tra la città e il suo carcere, tra la ‘città aperta’ e la ‘città dietro le sbarre’ c’è un ponte. A questo ponte, anche durante l’incontro, molti hanno dato nomi diversi: solidarietà, rispetto dei diritti umani, impegno verso il dettato della nostra Costituzione, voglia di libertà.

Usciamo fuori ed è già buio. Le luci delle finestre del carcere rimangono accese. Ritiriamo in guardiola i nostri documenti. Noi fuori. Loro dentro.

La redazione di Astrolabio: Mauro (caporedattore), Ben Harrat, Antonino, Marsel, Hassane, Paolo, Bruno, Michele, Francesco, Marco, Cesare, Alex.

Per leggere tutti i numeri di Astrolabio, conoscere e sostenere le esperienze e le iniziative per aprire il carcere alla città clicca QUI

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INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
L’America in fermento tra rivolte e proteste

di Camilla Finotti, Giulia Pirazzini (allieve del liceo classico Ariosto, Ferrara)

Giornalisti americani a confronto sull’attuale fermento sociale negli Stati Uniti, all’arena del cinema al Apollo nell’ambito del festival di Internazionale. La giornalista Sarah Jaffe ha parlato degli scioperi dovuti alla crisi economica del 2008: gli insegnanti del Wisconsin e di altri Stati repubblicani hanno protestato per settimane davanti alle istituzioni per ottenere maggiore tutela sul luogo di lavoro. Nonostante ciò, gli scioperi sono aumentati raggiungendo il picco massimo nel 2017. E’ poi intervenuto di Gary Younge che, avendo vissuto per 12 anni negli Stati Uniti, ha potuto vivere appieno il cambiamento politico; nell’agosto 2015 non si credeva possibile una futura vincita di Donald Trump, come non si pensava ad una uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Young definisce questi due avvenimenti “connessi”, sostenendo poi che l’attuale presidente degli Stati Uniti appare come un personaggio soggetto a molte critiche e segnalando come “ogni Nazione ha il proprio Trump”.
Si è poi parlato di “obamafilia”, ossia la voglia di un cambiamento di potere, come accadde ai tempi del presidente Bush, rispetto al quale Barack Obama apparve come un promesso ‘principe, in sintonia con i desideri e i pensieri della gente.