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Giorno: 1 Gennaio 2019

Ultimi bagliori degli Anni Dieci

Siamo all’ultimo passo degli anni ’10. Anni degni di storia ma non di memoria… Perlomeno, rispetto al secolo scorso, ci siamo risparmiati la tragedia della guerra. Ma in guerra, forse, siamo ugualmente: una guerra strisciante, diffusa, non dichiarata come sostiene Papa Francesco; una guerra intestina, fomentata dalla reviviscenza del terrorismo, la cui matrice – a differenza di ciò che avvenne in Europa mezzo secolo fa – non è interna ma esogena; eppure, anch’essa in un certo senso frutto di un dogmatismo ideologico. Stavolta non sono le falangi estremiste (e talora deviate) delle nuove generazioni che si battono per il ribaltamento dello Stato, ma i fanatici seguaci di un culto, quello islamico, che seminano morte e terrore per le strade delle nostre città… E forse anche loro in parte manipolati. Per contrappunto, truppe statunitensi, sovietiche e milizie di altri Paesi del nord del mondo combattono e seminano morte in Africa e in Oriente.
D’altronde, di odio questi anni 10 si sono alimentati. Sono stati gli anni della grande crisi, scoppiata – ma inizialmente non compresa come tale – già nel 2008; e poi divampata come una folgore, che tutto ha incenerito e rivoluzionato… Anni in cui l’insicurezza, che sovrasta le nostre esistenze, ha riesumato quei ferini istinti di sopravvivenza che credevamo vinti dalla civilizzazione: così, è rinato l’odio dell’uomo verso il proprio simile, sol che abbia a contrasto il colore della pelle, o il modo di pensare, o le abitudini di vita… Sono stati, questi, gli anni del rifiuto, dell’intolleranza e del razzismo, del respingimento, del “ciascuno a casa sua”… E’ sempre la diversità a spaventare (anziché incuriosire).

La comunità si è disgregata, gli ammortizzatori sociali che lo Stato del welfare aveva garantito, sulla spinta delle lotte sociali di mezzo secolo fa, sono svaporati. E oggi in tanti gridano, come pappagalli, le parole d’ordine dei regimi che ci addomesticano: fra questi, il “basta tasse” mostra la sciagurata inconsapevolezza del fatto che sono proprio le tasse che garantiscono i servizi ed è la proporzionalità dell’imposta rapportata al reddito a garantire che la leva del prelievo operi con equità: chi più ha più paga, come è giusto che sia! Altro che aliquote semplificate e flat tax (che generano esattamente il risultato opposto). Le tasse vanno pagate allo Stato secondo questo meccanismo di perequazione da Passator Cortese, in maniera che i ricchi garantiscano un po’ di benessere anche ai meno abbienti… Banale ricordarlo, ma necessario ripeterlo: perché le persone sembrano oggi ignare di ciò.
Anche questo è frutto dell’impazzimento attuale. Assistiamo, inermi, alla disgregazione del soggetto collettivo, al respingimento dal noi all’io, all’affermarsi di un individualismo sovrano che ha disintegrato la capacità di organizzazione e di resistenza della maggior parte delle persone, atomizzate e – nel frattempo – declassate da cittadini a consumatori, quindi a ingranaggi funzionali al sistema produttivo capitalistico basato – appunto – sul consumo. E addio all’idea di individui da rispettare in quanto tali, ciascuno legittimato a svolgere una propria significativa funzione all’interno del contesto sociale, politico e comunitario.
Ci siamo risparmiati l’onta della guerra, sì, ma il disfacimento è avvenuto ugualmente: del legame sociale, della consapevolezza del sé, dei diritti e dei non meno importanti doveri. Siamo ormai ridotti a esseri disgregati e perciò più facilmente controllabili e malleabili…

Il quadro è fosco e drammatico. Grandi luci all’orizzonte non si vedono, come non si vede più neppure il baluginare di un’utopia, di una significativa stella polare verso la quale abbia senso orientare il cammino e per la quale valga la pena affrontare qualche sacrificio.
Non è facile immaginare come si potrà uscire da questa situazione. Speriamo non servano trent’anni, come fu nel secolo scorso, per rinsavire e ricominciare a vivere…

 

Sarà un buon anno se ciascuno di noi si impegnerà per renderlo tale, per tutti e non solo per sé. Auguri a chi, con abnegazione, si cimenterà in questa impresa.

Solo a Capodanno

racconto di Maurizio Olivari
foto di Giordano Tunioli

Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due, uno al botto del buon anno. Andrea sistematicamente si svegliava interrompendo un sogno che era diventato ricorrente ormai da qualche anno, tre o quattro volte e specialmente durante le feste natalizie.
La sua età s’avvicinava ai settant’anni, vissuti da single per scelta ed in particolare per l’attività che lo aveva impegnato fino a pochi anni prima. Era stato un brillante uomo di spettacolo, un intrattenitore e presentatore di manifestazioni ed aveva sempre pensato che per esercitare la professione, bisognava essere liberi da impegni familiari. E così aveva fatto: se ne andava in giro per l’Italia avendo un donna in ogni città, come i marinai in ogni porto. Erano amori fuggenti, disimpegnati.
Con gli anni che passavano si riducevano le scritture artistiche e, non avendo mai ottenuto un successo nazionale, gli impresari si erano ormai dimenticati di lui. Rimaneva appena qualche occasione di spettacolo nella sua città natale, dove aveva deciso di tornare a vivere gli anni di una vecchiaia che incombeva. Solo com’era sempre stato, non tanto materialmente quanto spiritualmente.
E questo senso di solitudine lo assaliva soprattutto nel periodo delle feste di fine anno, quando la gente, in modo più o meno sincero, cerca e trova l’unione coi propri cari, rinsalda gli affetti, si riempie di buoni propositi per l’anno che verrà. Lui no, dopo i soliti contatti coi soliti amici, rimaneva puntualmente solo, senza particolari propositi o desideri per il futuro, tranne forse quello di un po’ di salute.
Ogni fine anno Andrea scavava nella sua memoria alla ricerca di qualcuno che l’avesse amato per davvero. E finiva sempre di ricordare di quando era ragazzino e aspettava la mezzanotte con sua madre in un piccolo bar sotto casa insieme ad altre famiglie, con la musica trasmessa dalla radio e lo scandire dei secondi prima del brindisi generale e dei cori d’auguri gioiosi e spensierati.
Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due, uno, BUON ANNO! E poi lo scoppiettio di tappi di spumante da due soldi che gli adulti si passavano allegramente, ma anche le spume analcoliche destinate ai ragazzini come lui.
Era il 1954. Erano momenti economicamente difficili. La mamma comprava una fetta di panettone che divideva con lui ed erano comunque felici, o forse la mamma fingeva d’esserlo, chissà.
Degli anni successivi non c’era nulla che gli ricordasse la notte di Capodanno. Notte che puntualmente lo vedeva impegnato nel suo lavoro d’intrattenitore nelle sale da ballo o nei ristoranti, dove centinaia di persone si ritrovavano per ascoltare musica, banchettare e festeggiare in allegria.
Lui in mezzo a tanta gente viveva la sua solitudine indossando la maschera del ragazzo allegro, giocoso, disponibile con tutti e in particolare con tutte. Una parte che ripeteva uguale ogni anno in ogni locale, un cliché che al pubblico piaceva, un lavoro collaudato e di successo.
Cenoni quasi sempre modesti in sale di ristoranti addobbati a festa, con più tavoli di quanti ne dovessero contenere e il lavoraccio dei camerieri nel consegnare le portate tra i commensali. I piatti passati di mano in mano tra la selva di braccia e teste che si agitavano in cerca di un po’ di spazio. Le lasagne che arrivavano ai propri affamati destinatari ormai fredde, quasi immangiabili. Ma era Capodanno e tutto andava bene, bastava divertirsi spendendo anche centocinquantamila delle vecchie lire a testa, ballo e orchestra compresi.
E nel conto c’era ovviamente Andrea, che tra una portata e l’altra raccontava le sue storielle, improvvisava scambi di battute scherzose, improbabili interviste agli ospiti, e dedicava poesie d’amore alle signore, alcune delle quali venivano letteralmente sedotte da quel suo affascinante modo di fare.
Alla mezzanotte il solito countdown e più tardi ci si scatenava col trenino musicale che coinvolgeva tutti quelli che occupavano la pista da ballo. Andrea stava in testa a dirigere l’allegro serpentone a passo di danza, lo guidava tra i tavoli a raccogliere nuovi ballerini. In testa cappellini di cartone e in bocca trombette e fischietti, la baldoria era al suo apice.
Non mancava nulla. Dalle gare di ballo, all’elezione della Lady della serata, per finire con l’immancabile lotteria che regalava le prelibatezze gastronomiche del luogo.
Alle quattro del mattino Andrea salutava tutti. Gli ultimi auguri di buon anno e se ne tornava in albergo da solo, come sempre, come ogni anno, in ogni locale con così tanta gente, eppure inesorabilmente da solo.
Da una decina d’anni non veniva più chiamato a fare serate. Un po’ per la sua età e un po’ perché erano cambiati i costumi: il proliferare di discoteche e pub, dove lavoravano scatenati dj con le loro scalette musicali a tutto volume. Nei ristoranti si proponeva menù alla carta con al massimo un sottofondo musicale al pianoforte, lasciando liberi i clienti di andarsene altrove a cercar baldoria prima della mezzanotte, soprattutto nelle piazze con musica e spettacoli pirotecnici.
Del resto, nella città di Andrea la festa in piazza era ormai diventata una tradizione, trasformata in un’attrattiva per un vasto pubblico proveniente da ogni parte, anche dall’estero. L’evento era chiamato “L’incendio del Castello”, uno spettacolo pirotecnico che simulava un vero e proprio incendio del monumento cittadino più illustre. Migliaia di persone circondavano il maestoso edificio e riempivano la piazza adiacente, mentre in un palco si alternavano orchestre e cantanti fino allo scoccare della mezzanotte, quando dalle torri e dal fossato partivano centinaia di fuochi d’artificio, mirabolanti giostre luminose e cascate incandescenti sulle pareti a strapiombo. Il tutto accompagnato da un suggestivo sottofondo musicale.
Da quando era uscito dal giro, le sere di Capodanno le passava in casa. Una casa da single, arredata in modo semplice, con l’unico vezzo di aver riempito tutte le pareti di fotografie che lo ritraevano durante i suoi spettacoli. Eppure quelle foto – aveva confessato – lo facevano sentire meno solo.
Aveva anche pensato di portarsi in casa un animale da compagnia, un gatto o un cane. Un gatto pensò di no, era un animale che non si affezionava troppo al padrone; un cane che avrebbe preferito di taglia medio grande no, perché non adatto a vivere in un mini appartamento, senza un minimo di spazio scoperto.
Quindi solo, decisamente solo. Anche quell’ultimo anno aveva garbatamente rifiutato l’invito di coppie di amici ad andare al cenone insieme a loro, con la musica, il ballo e cento euro a testa da sborsare.
Accidenti no! Aveva partecipato come mattatore almeno quaranta volte a quei cenoni con ballo annesso! Meglio soli, in casa davanti alla tv.
Quel pomeriggio del trentuno dicembre, dopo un giro nel centro storico tutto addobbato a festa dalle luminarie dorate e le vetrine multicolori dei negozi, si fermò tra le casette di legno del mercatino natalizio, quelle con le offerte gastronomiche regionali, e si comprò quello che sarebbe stato il suo cenone di Capodanno.
Nello stand ligure linguine e pesto alla genovese, in quello laziale un paio d’etti di porchetta alla brace, in quello toscano un bel pezzo di pane, dalla Sicilia invece quattro cannoli, per finire in Piemonte con una bottiglia di ottimo barbera doc.
Il piccolo tavolo del suo monolocale era apparecchiato come ogni sera con una tovaglietta americana e lo stretto necessario per la sua cena.
Quella sera, chissà come, Andrea decise di cambiare. In fondo era pur sempre una festa, un anno che se ne andava ed uno che stava per arrivare. Bisognava accoglierlo nel migliore dei modi.
Prese da un cassetto dell’armadio, una tovaglia con ricami di seta che aveva trovato e tenuto per ricordo dopo la morte della madre. Era troppo grande per il suo tavolino e la piegò in quattro parti cercando di lasciare in vista il bellissimo ricamo di seta.
Piatti, posate e bicchieri per acqua, vino e spumante, mai usati, ciò che restava di un servizio da tavola messo in palio in una delle tante lotterie che aveva organizzato in passato. Accese anche una candela che teneva in casa per le emergenze, casomai fosse mancata la luce.
Si accomodò per la cena, accese la tv e mangiò in compagnia del Presidente della Repubblica che pronunciava il consueto discorso di fine anno. Fece zapping col telecomando, passando al setaccio le varie dirette nelle tante piazze italiane gremite di gente fino ad arrivare all’emittente locale che trasmetteva le immagini intorno al Castello, pronto per lo spettacolo del finto incendio. In tv c’erano migliaia di persone, musica e allegria, mentre nella stanza c’era lui, soltanto lui, come sempre.
Mancava mezz’ora a mezzanotte e d’improvviso s’alzò da tavola, s’infilò cappotto, sciarpa e berretto, avviò la macchina e a tutto gas si diresse in centro. Non riuscì a trovare un parcheggio abbastanza vicino al centro e, con l’ansia che saliva, dovette uscire dalle mura finendo per parcheggiare in divieto di sosta. Mancava appena un quarto d’ora alla mezzanotte e si mise quasi a correre per raggiungere in tempo il castello distante dalla macchina circa un paio di chilometri. Mentre s’avvicinava udiva la musica dell’orchestra, le voci dei cantanti e dello speaker che invitava il pubblico a preparare le bottiglie per il brindisi di mezzanotte.
Mancavano ormai solo due minuti quando la sua corsa s’arrestò davanti alla muraglia umana festante che riempiva le strade nei pressi del Castello. C’erano famiglie con bambini, gruppi di giovani amici e molte coppie strette in un abbraccio affettuoso.
Chiedeva permesso per passare tra la folla, ma teneva ancora ben stretta a sé la sua solitudine.
Dagli amplificatori lo speaker cominciò il conto alla rovescia (quante volte l’aveva fatto anche lui…), la gente cominciava a scartare i colli delle bottiglie di spumante, si preparava a stapparli all’unisono, e iniziava a contare col tono della voce che cresceva numero dopo numero. Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro. Anche Andrea si unì al coro generale gridando con tutto il fiato che aveva. Tre, due, uno… BUON ANNO!
Oltre ai botti, esplose tutt’intorno un frenetico scambio di auguri, di baci e abbracci fra le persone che lui guardava con ammirazione ma anche con un misto di invidia e nostalgia. Nella confusione generale non sapeva affatto a chi augurare buon anno e finì per augurarlo a se stesso: auguri Andrea!
Dalle torri del castello iniziarono i fuochi d’artificio, accompagnati da una coinvolgente colonna sonora, il cielo s’illuminò di mille colori, le pareti del castello s’infiammarono con cascate di luci colorate di un rosso incandescente, offrendo l’effetto di un vero incendio. La gente era entusiasta e, armata di fotocamere e cellulari, riprese e immortalò quello spettacolo unico nel suo genere.
Anche Andrea apprezzò moltissimo quello che negli anni precedenti aveva visto solo in tv, ma venne assalito da un velo di tristezza perché per la prima volta avrebbe voluto condividere con qualcuno l’emozione che stava provando.
All’improvviso si sentì toccare un braccio, non ci fece caso, stretto com’era fra tanta gente. Dopo un attimo sentì una mano sulla spalla, si girò e vide una ragazza che gli sorrise e gli disse: “Buon anno!” Questa gli s’affiancò e gli baciò una guancia, poi gli porse un bicchiere di plastica riempito a mezzo di spumante e col suo bicchiere alzato sussurrò: “cin cin…”
Andrea, tanto sorpreso quanto contento di ciò che gli era appena accaduto, la guardò quasi con ammirazione e, poiché la musica era assordante, le si accostò all’orecchio e le disse: “Chi sei, come ti chiami?”
La ragazza rispose: “Sono un’amica, mi chiamo Felicità!”
Andrea lasciò per sempre la sua solitudine, le prese la mano, la strinse dolcemente ed entrambi, alzando lo sguardo verso il castello che bruciava, gridarono con forza: “Benvenuto anno nuovo! Benvenuta felicità!”