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Giorno: 26 Marzo 2019

LA RECENSIONE
La danza ossessiva di Sharon Eyal punta dritta al ‘cuore’ dello spettatore

di Monica Pavani

Prendi una poesia dal titolo Ocd (acronimo per Obsessive Compulsive Disorder), scritta dal campione texano di Poetry Slam Neil Hilborn. La poesia non è stratosferica, è abbastanza banale, ma picchia su un tasto che colpisce la sensibilità anonima e universale della rete e diventa virale. Chi parla nella poesia soffre di disturbo ossessivo compulsivo – appunto –, s’innamora e l’amore sembra salvarlo ma poi, come spesso accade, lo abbandona di nuovo alla sua solitudine. Il linguaggio è povero e l’enfasi della voce non basta a farne una grande poesia. E tuttavia è sufficiente per scatenare migliaia di click (compulsivi) e – soprattutto – per far esplodere l’immaginario di una geniale coreografa originaria di Gerusalemme, Sharon Eyal, che per ben diciotto anni ha militato – non semplicemente collaborato – con la Batsheva Dance Company di Ohad Naharin, ovvero la più dirompente forza propulsiva della danza israeliana.

Arriviamo allo spettacolo ‘OCD Love’ presentato al Comunale domenica dalla L-E-V Dance Company – “cuore” in ebraico –, fondata nel 2013 da Sharon Eyal insieme all’artista visivo Gai Behar e composta da danzatori mozzafiato. Scena buia, un velo di fumo aleggia in sala, si apre il sipario e l’inizio è già ipnosi: una danzatrice è immersa in un sinuoso assolo dove il corpo raggiunge il punto massimo di sensualità, ovvero ogni arto si muove verso il suo limite estremo, accenna all’infinito e si ripiega, come avesse una miriade di ali. Le movenze non rimandano a nulla che gli spettatori possano avere visto prima. Il metodo Gaga, ideato da Naharin trapela senz’altro come accento sull’intensità espressiva velatamente animale che muove il corpo, ma è un riferimento che deriva dal fatto di conoscere uno dei punti di partenza della compagnia e più oltre non si spinge. Sul palco entra una presenza maschile, poi il mistero si popola fino a comporsi di cinque danzatori, ma niente è svelato, la danza è pura ossessione: la forza di un desiderio assoluto che mai raggiunge il punto di saturazione e continuamente trova nuovi accordi, variazioni e impulsi. Ogni interprete avvita forme da un nucleo centrale, come se dal cuore (vedi il nome della compagnia) si diramassero infinite direzioni e ogni movimento le contenesse tutte potenzialmente. La naturalezza è strabiliante, così come strabiliante è la sapienza dei danzatori che sono al contempo meravigliosi solisti e un coro perfettamente all’unisono.

©Marco_Caselli_Nirmal
Foto nel testo e in copertina ©Marco_Caselli_Nirmal

Non si può prescindere dalla musica techno prodotta in loco da un vero e proprio mago del suono, il dj Ori Lichtik, fedele collaboratore di L-E-V, perché è la linfa che unisce le scene. Lichtik riesce a esasperare ritmi afro fino a farli sconfinare in musica disco o – sull’altro versante – in un’eco di musica classica. Ogni miscela è estremamente viva, e organica, esattamente come il pensiero coreografico che sta all’origine dello spettacolo. Naturalmente c’è una traccia che sorregge la sequenza musicale ma anche Lichtik a suo modo danza con le note al seguito dei ballerini.

A pensarci bene c’è un verso della poesia di Hilborn che dopo aver visto ‘OCD Love’ diventa estremamente suggestivo: “Tutto nella mia testa si è calmato. / Tutti i tic, tutte le immagini in continua successione sono semplicemente scomparse”. È l’effetto che fanno capolavori come questo, che sollevano – letteralmente – gli spettatori e li proiettano in un altro mondo dove l’aria e la luce sono molto più rarefatte.

‘OCD Love’ è l’atto finale di una stagione di danza che anche quest’anno ha offerto un panorama su alcune linee di ricerca – a livello mondiale – che scuotono davvero l’immaginario di chi ha la fortuna di sperimentare lo stra-ordinario qui, a Ferrara. Si auspica un riconoscimento sempre maggiore anche da parte del pubblico perché non è affatto scontato – in tempi di odi e paure in parte innescati dai mezzi di comunicazione con chiari intenti manipolativi – avere la possibilità di aprire i canali della sensibilità, dell’emozione, e assaporare la bellezza al suo culmine che svariati artisti sparsi per il mondo sanno ancora catturare e donare a cuore aperto.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Essere di parola

Per capire quanto le parole possano diventare pericolose di questi tempi, invito a leggere l’ultima opera di Giacomo Papi “Il censimento dei radical chic”.
In realtà non sono le parole ad essere pericolose ma le persone che le cacciano e le censurano, le persone che le usano come proiettili per colpire i loro bersagli. Parole che non sono più pronunciate ma sono sparate da twitter bazooka, da post a mitraglia.
Così è facile varcare il confine che separa il lessico dal territorio della babele, usando i dizionari come zavorra per annegare gli intellettuali, fino alla guerra civile, come fine di ogni civiltà.
Perché le civiltà si sono costruite sulle parole che sono la loro narrazione e, se le togli, viene meno la narrazione, e, se non hai una vita da raccontare, significa che non hai una vita da vivere.
Toccare le parole è come iniettare lentamente un virus mortifero di distruzione.
Bisognerebbe leggere contemporaneamente al libro di Papi, che vuole essere una denuncia, insieme amara e ironica, dei nostri tempi, “Le parole che ci salvano” di Eugenio Borgna.
Le parole come scialuppe delle nostre vite, le parole sempre amiche, mai contro, le parole a cui chiedi soccorso e rifugio. Le parole da cui pretendi che ti consentano di ragionare e di capire. Le parole per stare in armonia anziché sentirsi sempre assediati sugli spalti delle nostre esistenze.
La parola è materia pregiata come il nostro plasma e le nostre cellule. Chi ci toglie le parole ci priva della nostra sostanza, e fare un uso da guerra delle parole è come ferire la nostra essenza, il cuore e il cervello di cui ci siamo dotati.
Se si aggrediscono le regole, i significati e le sintassi le parole non servono più per descrivere, raccontare e raccontarsi. La nostra identità di donne e di uomini non ha più il lessico che le consente di esistere e di rappresentarsi. La parola imbracciata per combattere anziché per esprimere. Una protesi dell’essere umano per delegittimare l’altro e abbatterlo, per andare allo scontro anziché all’incontro, per separare anziché unire. Le parole per agitare le emozioni anziché esporre le ragioni. Le parole come gesto anziché come significato. La parola per usarti anziché per parlarti. Le parole per suscitare angosce anziché speranze.
Dovremmo renderci conto di tutto questo, di cosa stiamo vivendo. Verrebbe voglia di sentire il silenzio, che tutti si accorgessero dell’enorme confusione che sta crescendo, del rumore che pericolosamente stiamo nutrendo dentro.
È che tutti siamo impastati delle parole dell’altro. Senza le parole dell’altro non saremmo mai nati, cresciuti, divenuti quello che noi siamo con le parole che abbiamo ascoltato e portato dentro. Dalle parole di nostra madre e di nostro padre, quelle apprese a scuola e quelle degli adulti che ci hanno fatto da testimoni. Quelle delle poesie, dei romanzi e dei libri di scienze, quelle del cinematografo, delle televisioni e delle canzoni. Che straordinari portatori sani di parole siamo, ciascuno di noi! Non lasciamo che le parole ci possano ingannare e tradire. Rovistiamo tra le parole che ci portiamo dentro, quelle che ci sono più care, quelle che fanno da attaccapanni alla nostra vita, le parole memorie, le parole taciute, le parole che hanno continuato a lavorare nel silenzio accumulato dal tempo.
Non lasciamo la licenza di parola a chi la parola la usa per incantare o per sparare. La parola non ammalia, la parola significa, la parola non esplode, implode dentro di noi con le altre parole che ci portiamo. La parola richiede d’essere profonda e non superficiale, di andare a fondo nelle coscienze e di non restare a galla. Una parola non vale l’altra, una parola non è uno vale uno.
Le parole nascono dalla narrazione delle donne e degli uomini che si sono avvicendati nel tempo. C’è il rischio che a consumarsi, ad essere cancellate siano le parole a cui non seguono i fatti. A tradire non sono mai le parole ma le azioni. Non si possono perseguitare le parole perché le azioni non corrispondono alle promesse e alle aspettative. Perché i fatti non supportano la veridicità delle frasi in cui viaggiano desideri, promesse, pentimenti o intenzioni.
Se ci lasciamo abbagliare dalle parole non è colpa delle parole, ma di chi ne fa uso e delle nostre menti. Dovremmo apprendere a difendere le parole dai sequestratori di significati, dagli affabulatori, funamboli delle proposizioni, dagli equilibristi della logica, dai bulldozer dei territori semantici, impedire che se ne faccia strame da dare in pasto al popolo bue.
La narrazione, il racconto non vengono mai prima, seguono sempre, vengono dopo, le parole dovremmo saperle tenere per il poi, il poi del pensiero come delle azioni.
“Essere di parola” dà valore al significato della parola e al significato d’essere noi stessi. Attribuisce ad entrambi un senso e un valore senza ambiguità. La parola è la persona e identifica la sua umanità. Se la parola si fa inganno e offesa, si fa vuoto orpello, nessuno è più di parola, nessuno più è donna o uomo degno di fede, e questa è la china verso la quale il sequestro delle parole ci sta tutti precipitando e ad essere seriamente a repentaglio è la nostra civiltà.

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