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Giorno: 28 Marzo 2020

Perchè il progetto Europa non decolla?

di Grazia Baroni

Uno dei problemi dell’Europa è che non si studia più la storia o meglio che non si considera più la storia come una esperienza su cui riflettere.
I destini dei diversi popoli europei travagliati dalle continue guerre che si sono succedute alla caduta dell’Impero Romano e alla sua disintegrazione sfociarono finalmente in un momento di maggiore stabilità sotto il governo di Carlo Magno.
Grazie al suo progetto unitario si elevò culturalmente il livello sociale nella vita pubblica dei singoli feudi della realtà europea perché si poterono unire e gestire le varie forze e ricchezze esistenti nel territorio, prima disperse dalle continue guerre, facendole convergere in un unico e pensato disegno sociale.
In questo modo le varie forze esistenti nel territorio prima disparate e in continua lotta tra loro si unificarono e così Carlo Magno poté eliminare il motivo delle divergenze e delle contrapposizioni tra i feudatari creando nell’Impero una prospettiva di società, sbocco comune di sviluppo a livello culturale, poi sociale ed economico, ponendo al centro il valore della vita degli esseri umani.
Facendosi incoronare dal Papa, Carlo Magno rese pubblica la qualità umanistica del suo progetto di governo, a cui tutti i feudatari dovettero adattarsi. Così poté dare quegli strumenti alla società perché si sviluppasse a partire dal livello culturale, istituendo scuole, inserendo servizi, riorganizzando una società pacifica e laboriosa, rivolta al proprio benessere.

Dalla morte di Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, l’Impero si divise in tre realtà distinte. Infatti Ludovico anziché adeguarsi al sistema di successione ereditaria della corona, divise l’eredità tra i suoi tre figli come era nella tradizione dei Franchi. Con tale scelta infelice ricreò le condizioni perché si facesse la guerra tra gli eredi, vanificando le conquiste del padre.
Da quel momento in avanti il problema dell’Europa è tornato a essere che i potenti continuano a difendere i loro privilegi, e ognuno in modo diverso.

Noi italiani ignoriamo più di tutti la storia del nostro paese: lo sviluppo sociale ed economico avvenne dopo che i vari Stati che componevano la penisola si unificarono in un unico Paese, nel 1861. E’ innegabile che dando a ciascuna parte un’unica prospettiva, gli sforzi di emancipazione, laddove ci sono stati, chiaramente funzionano di più e meglio perché le forze non si disperdono ma puntano a un unico fine.

In generale, si ha uno sviluppo armonico di una civiltà solo con quei governi che garantiscono la democrazia mettendo al centro la giustizia sociale e la qualità della vita come progetto di governo, perché così si pongono le condizioni della pace.

Invece, i governi che si basano solo sulla ricchezza materiale non creano vero sviluppo ma disuguaglianze e tensioni sociali (si veda l’Impero inglese che non ha portato sviluppo in India e nei territori che ha conquistato, ma solo privilegi per la corona).
Sicuramente il progresso di una società che pone al centro lo sviluppo della persona implica un processo più lento e non immediato, ma questo è duraturo ed efficace e meno doloroso per lo sviluppo dell’umanità.

Quindi, cosa aspettiamo a realizzare l’Europa come unica realtà quando sappiamo – poiché la storia ce lo insegna – che avere un progetto unico, comune, di giustizia sociale e di democrazia, è un passo avanti per tutti ed è la chiave per la realizzazione di qualsiasi progetto di futuro?
Il malessere che c’è oggi tra i giovani non è dovuto alla consapevolezza che la cultura occidentale è malata di supremazia, ma alla consapevolezza che molte scelte che i nostri governi stanno realizzando conducono ad una realtà che va contro la ragione, perché non ci può essere democrazia basata sui privilegi, non ci può essere sviluppo economico basato sul consumo, non ci può essere sviluppo culturale sulla privatizzazione della conoscenza e i territori si possono sviluppare avendo servizi pubblici che, per definizione, non abbiano  come scopo il profitto ma servire gli abitanti dei territori stessi.

Le civiltà, gli Imperi e le Nazioni non vengono sconfitte per cause esterne, ma per debolezza interna. La storia ci fa capire, così, che le civiltà muoiono perché rinnegano la qualità del loro fondamento e della loro origine.
Roma non cadde per l’invasione dei barbari, ma perché sacrificò la sua origine repubblicana e di giustizia sociale alla forma dell’impero. Per questo motivo Roma non fu più una realtà politica attraente e innovativa ma una tra le tante, un terreno di conquista e non più un progetto di vita e sviluppo da condividere.
Anche nella storia recente, i governi degli stati europei hanno dimenticato il motivo per cui avevano avuto l’urgenza di realizzare, negli anni quaranta, uno stato europeo.

Il fatto è che chi detiene oggi il potere e fa resistenza per difendere i propri privilegi non ha capito che o sceglie di evolversi in una dimensione più giusta rispetto ai valori attuali o verrà travolto dalla storia che comunque va avanti; l’umanità si riconosce come tale nella libertà e nel rispetto reciproco che portano al desiderio comune del vivere in pace e non nelle ingiustizie e nella sopraffazione.
E la pace non è una realtà di sospensione di guerre, una parentesi tra due momenti di conflitto, ma un progetto di giustizia sociale, di realizzazione della comunità umana.

PRESTO DI MATTINA:
un sogno, una domanda e un “esercizio spirituale”

Buongiorno. Anche in questo sabato di silenzio che conclude una settimana di silenzi. Silenzi vivi però. Quasi a voler anticipare il Sabato Santo: il grande silenzio che avvolge tutta la terra nel giorno in cui il Signore riposa dopo la lotta vittoriosa contro il dragone.

Ho una cosa da chiedervi, anche se so già che molti già la fanno. Pregare penserete voi. Sì anche pregare, perché è importante, importantissimo farlo in questi giorni.  E ricevo numerosi messaggi di persone che m’invitano a ricordare nella preghiera le persone ammalate, quelle sole, i medici, gli infermieri, gli agenti e tutti coloro che lavorano per noi. Ed io rispondo che lo faccio sempre; e alla sera prima di entrare in parrocchia, vado fin sulla porta e sotto le finestre della comunità La luna, vi giro attorno e mentre dico il Pater tocco le pietre del muro una ad una come fossero persone.

Ho sentito anche al telefono il mio medico, che mi ha raccontato che fa il possibile, assieme ad altri suoi colleghi del gruppo medicina, per essere di aiuto a chi chiede loro assistenza. Ma ha aggiunto che i veri eroi sono i medici ospedalieri direttamente a contatto con i malati di Covid. Salutandolo gli ho detto che pregavo per loro e lui di rimando mi ha detto: “Grazie di cuore. Ne abbiamo assoluto bisogno.”.

Ma vi è un’altra cosa di cui c’è bisogno, e non è meno importante del pregare, vale  a dire mettere in pratica la Parola. Sostiene Michel de Certeau che vi è un credere originario, insito nell’umano, nella forma esistenziale: e questo credere è “praticare l’alterità, l’altro”. Quindi vi chiedo – lo chiederei anche i ragazzi del lunedì – di avviare questo esercizio spirituale, per così dire, perché in realtà l’esercizio che vi chiedo coinvolge anche il corpo: ovvero passa dal cuore, arriva allo spirito e solo alla fine affiora sulle labbra, come una risposta a chi hai di fronte.

Ricorderete che nella ricerca del santo Graal, l’unico che lo trova è Parsifal. E questo perché, in ragione della sua ‘trasparenza d’animo’, egli vede con gli occhi del cuore, sa porre la domanda giusta al guardiano che non lascia passare nessuno: e la password che gli permette l’accesso di fronte al guardino anziano e soffrente è “Che cosa ti affligge, qual è la tua sofferenza?”.

Mi ha telefonato anche il papà di Marco, per aggiornarmi sulla situazione in via Assiderato. E – sorpresa! – mi ha riferito che hanno creato una chat per quelli della via, in modo da aiutarsi l’un l’altro tra vicini; si passano le notizie e uno provvede a fare la spesa per tutti. Ecco gli esercizi, le buone pratiche di solidarietà verso coloro che sapete essere soli in casa, scoraggiati o in difficoltà, perché hanno perso il ritmo di prima, anche i giovani ne risentono. Ecco l’opportunità. Pensate a un amico. Pensate ad un vicino. Attivate l’inventiva del quotidiano; e se le strade non sono agibili, escogitate percorsi alternativi nel rispetto del bene comune che è la vita di tutti.

Vi voglio raccontare un’esperienza di tanti, tanti anni fa. Un’esperienza per me così forte che la scrissi nel mio taccuino nel lontano 2000 e poi non dissi a nessuno. Era il primo dicembre, ed ebbi un sogno suscitato da un incontro reale: un sogno che operò in me come un ‘accrescimento di coscienza e di responsabilità’.

Ve lo racconto così come l’ho appuntato.

L’altra notte – scrivevo – ho sognato di essere in un luogo indefinito, un camerone con tanta gente seduta a tavoli piccoli, che non potevi evitare di urtare mentre vi passavi in mezzo, e voltandomi mi accorsi che ad uno di essi era seduto Papa Wojtyła. Con il dito mi fece segno di fermarmi. Quindi mi mostrò un biglietto natalizio con dei lustrini luccicanti, chiedendomi cosa fosse. “Che strana domanda mi fa?”, pensai. “Perché non comprende che è un biglietto natalizio?”. Tenni tuttavia quel pensiero per me e mi fermai per spiegargli cosa fosse. Passò un attimo lunghissimo, e poi sentii come di dovergli chiedere qualcosa: una domanda che porto sempre dentro di me, anche quando dormo o non affiora alla coscienza. Ma diviene martellante, ogni volta che incontro persone imprigionate e scosse dal dolore, dalla malattia, quando ascolto il telegiornale, quando cammino in ospedale o faccio mentalmente l’elenco degli ammalati e delle persone sofferenti della parrocchia. E così chiesi al Papa con un profondo slancio interiore, quasi a voler esigere a tutti i costi una risposta, sicuro che mi sarebbe stata data, come a volermi alleggerire un poco da quella domanda, che a volte è pesante come un macigno, e chiesi – ripetendolo però più volte – “perché tanta sofferenza nel mondo? perché? perché?”. Mi veniva da piangere. Lui però non rispose. Mi alzò in piedi, prese la mia testa tra le mani e l’avvicinò alla sua in modo che le nostre fronti si toccassero. Restammo così un poco, senza guardarci, con gli occhi chini, fronte a fronte. E infine mi svegliai.

Per tutta la giornata pensai al sogno, chiedendomi cosa potesse averlo fatto nascere. Ma niente; non mi veniva una spiegazione. Anche quella sera andando a trovare la nonna di Maria Grazia, lo facevo spesso, che non parlava più a causa di una malattia che l’aveva lentamente paralizzata – tanto che rischiava ogni momento di soffocare, per via della saliva che si fermava nell’esofago oramai immobile e non andava né su né giù – le raccontai il sogno, e dopo avere riferito anche altre cose, ritornai a casa. Il giorno dopo, mentre ero sovrappensiero, ricordai però un gesto a cui non avevo fatto caso la sera prima, né le volte precedenti. E allora compresi. Quando quella signora stava male, fino a soffocare, la figlia o la nuora la sollevavano dalla poltrona mettendola in piedi: poi l’avvicinavano a loro, e fronte a fronte con la mano l’aiutavano a calmarsi e a riprendere il respiro. Ecco da dove veniva il mio sogno. Allora mi sembrò di risentire la domanda: “quanta sofferenza?” e la risposta non c’era, o meglio non era in parole, ma in un gesto piccolo piccolo, che univa due persone nella solidarietà dell’amore: fronte contro fronte, gli occhi chini finché il respiro non ritornava.

Quando morì Giovanni Paolo II, il 2 aprile 2005, mi ritornò vagamente alla memoria del sogno. A farmelo ricordare fu la grande fotografia posta sul sagrato della cattedrale. La foto che lo ritrae con la fronte appoggiata al crocifisso del suo pastorale. Fronte a fronte con il Signore.