– Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco
– Ne resta una di cui non parli mai
Marco Polo chinò il capo.
– Venezia – disse il Kan
Marco sorrise. – E di che altro credevi che ti parlassi?
L’imperatore non batté ciglio. – Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome.
E Polo – Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia.
Così, nel sesto capitolo de Le città invisibili di Italo Calvino, Marco Polo spiega al melanconico imperatore dei Tartari, il Gran Khan Kubilai, cosa è la ‘sua Venezia‘.
L’imperatore vorrebbe ricondurre il suo visionario viaggiatore al racconto di una rappresentazione oggettiva di Venezia , completamente separata dalla descrizione delle altre città e non confusa con quelle, come fino ad ora aveva ascoltato dalla bocca del suo ospite straniero. Chiede cioè quello che pretende sempre dai suoi ambasciatori quando vuole essere informato su questioni a lui sconosciute: una relazione su Venezia “così com’è, tutta quanta, senza omettere nulla di ciò che ricordi dei lei”.
Questo è il metro che sempre ha utilizzato per misurare le cose del mondo e questo gli ha permesso di arrivare a possedere uno sterminato potere. Invece Marco Polo restituisce non il riflesso di una unica realtà, ma tante immagini della memoria, ricordi della ‘sua Venezia’, ritrovate nelle altre città. Ma “le immagini della memoria, una volta fissate con le parole si cancellano“, arrivando a ricostruire un’altra realtà; narrano di una città ideale, di un sogno, il sogno della propria vita.
E così come Polo ritrova le sue origini anche in altre città, così facciamo anche noi, raccontando ma anche ‘ascoltando’ la nostra storia. E’ quello che capita quando altri rievocano episodi della nostra vita di cui non avevamo memoria, accaduti quando eravamo bambini: man mano che il tempo li allontana, vengono trasformati in nostri ricordi, anche se rammentati da altri. Di una persona cara scomparsa, dopo non molto, abbiamo difficoltà a rimembrare il suono della sua voce e anche i lineamenti esatti del viso comincerebbero a sfuggirci, se non ci fosse una sua fotografia a fissarne la ricordanza; l’espressione ritratta da quella immagine alla fine sarà ciò che rammenteremo di quella persona. E’ il passaggio del Tempo, che tutto trasforma in un sogno composto da un numero indefinito di immagini, suoni e colori provenienti da ogni dove.
E’ in questo modo che si incontra Venezia.
Subito dopo l’arrivo del treno in stazione, mentre si fanno i primi passi verso l’uscita, cercando di rimettere a posto la camicia sgualcita, di chiudere per bene il giubbotto, insomma di sistemarsi un poco dopo il viaggio, proprio mentre si alza frettolosamente lo sguardo per capire la direzione da prendere, ecco apparire in modo del tutto inaspettato, come racconta Fernand Braudel, uno dei maggiori storici del ‘900, un vero e proprio straordinario “spettacolo che si apre immediatamente davanti: l’acqua rabbrividita del Canal Grande, agitata dalle eliche dei motoscafi e che ricorda l’acqua di un fiume, la cupola in rame di san Simeone Piccolo, e le trattorie con le loro piante sempre verdi ben allineate…” (F.Braudel, Venezia, Il Mulino, p.10).
Si presenta così Venezia a chi la vede per la prima volta all’uscita della stazione di Santa Lucia, tutta, e tutta insieme, senza un elemento urbanistico che faccia da introduzione. L’assenza di un ‘prologo’ la fa apparire quale è, una creatura sublime e, per chi non l’avesse mai vista, una eterea visione.
Ma, come ogni visione, così come magicamente è comparsa dal nulla in tutta la sua bellezza, in un attimo può scomparire. Bene lo sa quel turista che, volendo iniziare il suo percorso attraversando il ponte della Costituzione, disegnato dall’architetto Santiago Calatrava, appena sceso l’ultimo gradino, mentre si accinge a proseguire verso il sestiere di Santa Croce, avverte un certo fastidio, notando sulla destra l’ultimo lembo di terraferma da dove partono e arrivano pullman e automobili di ogni genere e, spontaneamente, gira lo sguardo dall’altra parte, per ritrovare ciò che temeva di avere già perduto.
E’ per questa città sospesa nel tempo, visione che trascolora in personalissime partiture di illusioni, che lo scrittore russo Iosif Brodskij scrive Fondamenta degli Incurabili, entrando con le immagini dei suoi ricordi nella città che ha rappresentato ristoro e rifugio per la sua anima negli anni dell’esilio. Iosif Brodskij, originario di San Pietroburgo, dopo essere stato condannato per ‘parassitismo’ a cinque anni di lavori forzati, espulso dal regime sovietico, inizia a viaggiare e a tenere lezioni nelle università americane. Conseguita la cittadinanza statunitense, non smetterà mai di ritornare a Venezia con periodicità quasi annuale.
In Fondamenta degli Incurabili, presentato nel 1989 su richiesta del Consorzio Venezia Nuova, emerge tutto l’amore di Brodskij per la città, che ”a tratti assume connotati femminili ed erotici, a tratti suscita in lui una dimensione divina: l’acqua rispecchia Dio ed è l’immagine del tempo.Venezia è la città che più di ogni altra dialoga con l’acqua e la sfida con quella proprietà che il tempo-acqua, non possiede: la bellezza”. Leggo questa nota nel sito Turismo Letterario che caldeggia la lettura del volume di Brodskij prima di visitare Venezia. [Consulta il blog]
Ma ascoltiamo le parole, stavo per scrivere i versi, con cui Brodskij conclude la sua memoria di Venezia: ” […] acqua è uguale a tempo, e l’acqua offre alla bellezza il suo doppio. Noi, fatti in gran parte d’acqua, serviamo la bellezza allo stesso modo. Toccando l’acqua, questa città migliora l’aspetto del tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell’universo. Perché la città è statica mentre noi siamo in movimento. La lacrima ne è la dimostrazione. Perché noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro mentre la bellezza è l’eterno presente. La lacrima è una regressione, un omaggio del futuro al passato. Ovvero è ciò che rimane sottraendo qualcosa di superiore a qualcosa di inferiore: la bellezza all’uomo. Lo stesso vale per l’amore, perché anche l’amore è superiore, anch’esso è più grande di chi ama” (Iosif Brodskij, Fondamenta degli Incurabili, Milano, Adelphi).
Il momento migliore per cogliere la visione di Venezia è l’alba. Quando la realtà turistica quotidiana non l’ha ancora inghiottita con tutto il suo ciccaleccio, è possibile sentire la città pulsare di vita propria attraverso l’ascolto delle sue pietre. Ed è il momento che ricorda di più la città prima della costruzione della ferrovia e della stazione, prima che l’impero Austro Ungarico promuovesse la costruzione del ponte ferroviario tra il 1842 e il 1846.
Sin dagli inizi dell’Ottocento i turisti inglesi, come il critico e professore d’arte John Ruskin, erano arrivati via mare e sbarcati in Piazzetta. Ed è con John Ruskin che, dopo esserci ripresi dalla meraviglia iniziale dell’incontro con Venezia, mentre ci addentriamo nella città ancora deserta, assaporando fino in fondo l’odore dell’acqua salmastra nell’aria, continuiamo a ripetere quasi inconsapevolmente, l’esclamazione con cui lo scrittore inglese inizia il suo Diario Italiano 1840-1841, descrivendo il suo arrivo in laguna: “Grazie a Dio sono qui!” (John Ruskin, Diario Italiano 1840-1841, Mursia).
Vagando per calli e passando ponti lo sguardo abbraccia contemporaneamente cielo, terra e acqua, gli elementi fondamentali della vita. Non ci sono volumi, ma superfici, dove la luce riflessa dall’acqua si appoggia come un lenzuolo luminoso ricoprendo le facciate dei palazzi e passando per il vuoto dei ricami di marmo che impreziosiscono finestre, capitelli, bancali, cornicioni ne determina il ritmo. Un ritmo continuo. A Venezia infatti “il primum non è l’edificio singolo, ma ciò che lo lega agli altri in una continuità figurativa che è il canale, la calle, infine la città intera (Catalogo mostra Venezia e Bisanzio, Electa). Certo, continuità non tra le forme plastiche, ma tra le superfici, ma anche metafora di una comunità che è sopravvissuta perché gli uni hanno trovato appoggio negli altri, e dove anche ciò che potrebbe separare, il canale, viene congiunto da un ponte, mai collocato a metà del corso d’acqua, ma quasi sempre prima del suo sbocco, per garantire la continuità di passaggi e di sguardi.
Qui l’urbanistica e l’architettura non sono ottenute tracciando con la squadra angoli retti, prospettive perfette, simmetrie razionali: “non vi sono che incroci, rotture, deviazioni…cerchi deviati, verticali barcollanti, pilastri di diversa grossezza, capitelli eterogenei, spallette esitanti…nessuno schema unificatore”. Domina l’irrazionalità, o meglio una differente razionalità. Ed è la stessa logica che ha permesso a comunità le più diverse, per religione e provenienza, quali ebrei, turchi, dalmati, albanesi, greci, tedeschi di poter convivere in modo pacifico sotto lo stesso cielo.
Infine, arrivati a San Marco, il sogno si concretizza e prende forma nella visione della Basilica d’Oro e qui le ultime, poche certezze cedono, come diceva scherzosamente Jean Cocteau, vedendo i piccioni camminare e i leoni volare. Una volti entrati nella Basilica, prima del mezzogiorno, è possibile infine vedere i raggi del sole che, colpendo l’oro dei mosaici, inondano lo spazio sotto le cupole di una luce vivida e calda. Alzando istintivamente gli occhi per scrutarne l’origine, lo sguardo non riesce a sostenere l’intensità ma, abbassandosi umilmente a cospetto di tanta bellezza, riesce a ritrovare la stessa luce dentro di sé.
Cover: foto di Beniamino Marino (cliccare per vedere l’immagine intera)