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Giorno: 12 Luglio 2020

“NICOLA LODI CHIEDA SCUSA AI FERRARESI”
Un documento dopo gli insulti al collega Marco Zavagli

Pubblichiamo e facciamo nostro il Comunicato di un nutrito gruppo di organizzazioni, associazioni e partiti ferraresi. Mentre solidarizziamo con il nostro collega Marco Zavagli e ribadiamo, oggi più che mai, quanto sia importante difendere la libertà di espressione sancita dalla nostra Costituzione, ci colpisce (e ci avvilisce) che Ferrara, la sua opinione pubblica, la sua società civile, siano costrette a rispondere a continui episodi di volgarità. Il maggior interprete di questo ‘nuovo modo di far politica’, trasformare cioè il confronto in insulto o in caciara, è appunto il Vicesindaco Nicola Lodi. Giusto e doveroso, quindi, stigmatizzare i suoi comportamenti e i suoi vocalizzi fuori misura.
Detto questo, serve aggiungere una riflessione più generale. Esiste, lo si tocca con mano, un rischio concreto di ‘cadere nella trappola’, di farsi trascinar giù: sul piano (bassissimo) scelto proprio da Lodi e da chi gli assomiglia. Occorre allora – questo cerchiamo di fare ogni giorno a Ferraraitalia – evitare l’esercizio inutile del botta e risposta, della polemica spicciola, del battibecco inter-personale e fine a se stesso. Un combattimento all’arma bianca che Ferrara e i ferraresi non capiscono, tanto che l’unico deprimente risultato sembra essere un polverone confuso (e a volte violento) sui social media tra guelfi e ghibellini. La nostra città meriterebbe tutt’altro: idee, proposte, progetti nuovi, interventi concreti, critiche circostanziate, e un confronto aperto e trasparente.
Nicola Lodi, ce lo auguriamo, forse imparerà (ha ancora quattro anni davanti per provare a migliorarsi) a parlare e agire da Amministratore Pubblico, a usare le norme minime del rispetto, parcheggiando finalmente l’amata ruspa. Oppure – purtroppo per lui e per Ferrara – continuerà a camminare sulla stessa pessima strada. Quello che è certo e che questo quotidiano non perderà tempo a scrivere tutti i santi giorni di lui. E nemmeno del suo amico Vittorio Sgarbi. Per fortuna, anche qui, nella profonda provincia leghista, c’è molto altro e di più importante di cui dar conto.
Francesco Monini, direttore responsabile di Ferraraitalia

COMUNICATO STAMPA

Vicesindaco di tutti i ferraresi o soltanto di chi la pensa come lui? È amministratore capace chi riesce a comprendere l’altro, non chi prevarica, chi schiaccia con la ruspa ciò che considera diverso da sé.

Per quanto Nicola Lodi non voglia accettare i dubbi che Marco Zavagli esprime sul non aver lasciato tempestivamente il suo alloggio popolare, o sul cattivo esempio di chi percepisce quasi 5mila euro al mese frutto delle tasse di tutti i cittadini rimanendo in una casa ERP, i toni sprezzanti che il vicesindaco ha manifestato sulla sua pagina Facebook nei confronti del giornalista non sono accettabili. E non si tratta di fare la morale all’avversario di turno, ma del minimo rispetto dovuto a chi sostiene una posizione differente. Si tratta di confrontarsi democraticamente senza svilire la dignità altrui.

Estense.com è una piccola azienda con dei dipendenti al pari di quelle che Lodi ha aiutato con svariate premure: è ingiusto che un rappresentante del palazzo comunale si beffi della situazione difficile che sta attraversando la testata, in circostanze di pandemia mondiale, insinuando sia proprio lo stile di Zavagli, un professionista riconosciuto pubblicamente, a penalizzare il futuro dei suoi stessi redattori.

È bene ricordare al Vicesindaco l’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione, e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e frontiera.”.

Non possiamo più accettare le aggressioni gratuite, siano esse sui social o addirittura nelle sedi istituzionali.
Non serve a nulla il ritrito accenno a perseguire vie legali, sarebbe sufficiente e molto più edificante che Lodi si scusasse con i cittadini per l’incessante e indecoroso teatrino.

Firmatari:

La Sinistra per Ferrara
Rifondazione Comunista
PD Ferrara
Azione Civica
Sardine Ferrara
PSI
Azione Ferrara
Emilia Romagna Coraggiosa
Coalizione Civica
Gente a Modo
Addizione Civica
Articolo Uno
Gruppo GAD
Cittadini del mondo
+ Europa
Rete cambia vento
Europa Verde
Il battito della città

DIARIO IN PUBBLICO
Ricordi perduti e ritrovati

Ho appena visto un orrendo film Mamma o papà?, in cui un criceto viene martirizzato dalla immonda madre di tre altrettanto orridi figli. I due genitori in via di separazione (Paola Cortellesi e Antonio Albanese) cercano in ogni modo di non venir scelti dai figli, per scaricare sull’altro la responsabilità della convivenza. La madre non sopporta il criceto, che appartiene al figlio più piccolo, e lo vuole uccidere, ma non ci riesce. L’animaletto si stufa e provoca un incendio, che distrugge la casa, ma riporta uniti i genitori. Dopo questa visione il mio criceto ed io abbiamo deciso di darci invece a ricordi leggeri e vaganti, che hanno messo in agitazione le mie cellule mentali e provocato una serie di incontri/scontri.

Tutto comincia con una pianta e un luogo. Mi trovo ad un  grande convegno sui giardini, che si svolse in Sicilia presso la Fondazione Lucio Piccolo d’Orlando, il cugino di Tomasi di Lampedusa, nella sua meravigliosa casa a Capo d’Orlando. Necessaria se non obbligatoria la visita a un grande vivaio di Milazzo, dove acquistai una pianta di cui, fino a pochi giorni fa, non ricordavo né il nome né il modo con cui arrivò all’Orto Botanico di Ferrara. L’unica traccia certa e stampata nella memoria: l’arrivo all’aeroporto di Bologna della pianta tenuta saldamente in braccio dall’amica Margherita Visentini.

Laboriosi contatti nel frattempo mi permisero di ricostruirne la storia, grazie a chi la consegnai che, a sua volta, la ricoverò all’Orto Botanico di Ferrara: il professor Filippo Piccoli che, con non del tutto celata ironia, mi ragguagliò sul nome e sulla specie: un Frangipane, che schiude i suoi profumatissimi fiori in questa stagione. Nome scientifico Plumeria. Così diligentemente registro da Wikipedia:  “Le Plumerie sono i fiori con cui nelle isole del Pacifico si usa preparare grandi collane da regalare agli ospiti; si tratta di arbusti di dimensioni medie o piccole, strettamente imparentati con gli oleandri, la carissa, gli adenium”.

Esattamente i fiori metaforici, con cui uno scatenato Vittorio Sgarbi su Il giornale incorona noi che abbiamo condiviso le osservazioni del professor Ranieri Varese con uno straordinario inanellamento di metaforici fiori in quanto – e cito – “gli argomenti di Varese sono acidamente condivisi da un piccolo gruppo di frustrati ringhiosi (Alessandra Chiappini, Gianni Venturi, Giuliana Ericani, Francesco Giombini), e da altri tristi e ignoranti chattanti….” .
Wow!!! Fantastico! Mi metto immediatamente a cantare: “La fleur que tu m’avais jetée/Dans ma prison m’était restée/Flétrie et séche, cette fleur/Gardait toujours sa douce odeur.” Mi sembra che nell’occasione il ricorso alla Carmen sia d’obbligo. Purtroppo per l’incontenibile mattatore i fiori che ci getta gli sono egualmente restituiti, poiché in quanto a ignoranza civile e umana giustamente nulla ha da insegnarci.

Allora, m’incalza il criceto, lasciamo le maledizioni sgarbiane e torniamo al Frangipane che ha bisogno di un clima particolarmente adatto in quanto “può essere coltivata all’esterno solo nelle zone con un clima invernale mite e completamente privo di gelate. In tutte le altre regioni, la pianta deve essere coltivata in vaso, in modo da poterla proteggere senza difficoltà e spostarla in un luogo riparato nel periodo invernale.” Così il mio frangipane probabilmente vive ancora nel mondo incantato dell’Orto botanico, oppure una pianta simile ne avrà preso il posto. Tuttavia mi rassicura il professor Gerdol docente di Plant Ecology: “Tutti gli esemplari di Plumeria sp. (cosiddetti frangipani) presenti in Orto e acquisiti in diversi momenti sono vivi. Non c’è però in alcun caso il riferimento alla località di acquisto o al donatore. In ogni modo, seppure in maniera indiretta, possiamo essere ragionevolmente certi che la Plumeria di cui mi chiedeva sia viva e vegeta”. Si recupera dunque l’esistenza del fiore e della sua vita all’Orto botanico ferrarese.

Ma il frangipane riporta alla memoria altri e più complessi ricordi legati a un luogo speciale, Villa Vigoni sul lago di Como, vicino a Menaggio, che è un pezzo di Germania incastonata nello stato italiano. Come ci informa la Fondazione: “Villa Vigoni è un laboratorio di idee, un punto di riferimento del dialogo e della collaborazione tra Italia e Germania nel contesto europeo. Convegni accademici, conferenze internazionali e manifestazioni culturali rendono Villa Vigoni un luogo d’incontro e di confronto, in cui si promuovono progetti e si approfondiscono conoscenze in ambito scientifico, politico, economico e artistico.[…].Il Centro costituisce anche un nodo centrale di una rete che, attraverso molteplici collaborazioni e momenti di incontro tra ricercatori, rende possibile il consolidamento dei rapporti internazionali”.

Ad un ennesimo incontro sui giardini partecipammo ad un Convegno che si tenne a Villa Vigoni, dove il presidente (il “ringhioso” che qui scrive), a differenza degli altri partecipanti, venne ospitato nella Villa che raccoglie immensità di tesori; ma solo all’ultimo venni avvertito che, dopo essere stato accompagnato in stanza, mi sarebbe stata proibita l’uscita, se non al mattino seguente. Troppo tardi per rifiutare gentilmente questo onore, per cui mi ritrovai rinchiuso in quel luogo da favola e fui invaso da pensieri cupi, come se all’improvviso si fosse spalancata la porta e dovessi sottopormi all’esame dell’onorevole V.S., che mi avrebbe gettato sul muso le mie inutili 300 e passa pubblicazioni, frutto del mio passato di “frustato ringhioso” e di comunista mangiator di bambini. Passai la notte trepidando e nella gloriosa e soleggiata giornata seguente nel parco finalmente vidi il grande frangipane, che non aveva bisogno di essere coltivato in vaso o ricoverato in serra ma protendeva i suoi rami fioriti e profumati ad accogliere la bellezza e il sapere.
Senza bisogno di urla e minacce, ma pacificamente, come qui ora a Vipiteno fanno i tigli, alleviando le pene umane con profumi e ombre.

Cover: plumeria frangipane, fioritura

LA LUCE GENTILE DI BERLINGUER
Lo sberleffo leghista e il triste buio della Sinistra

Trentasei anni fa, dal palco di un comizio a Padova, Enrico Berlinguer, un fazzoletto sulla bocca a contenere il vomito, le gambe che non lo reggevano più, portava a termine con grande fatica il suo discorso, tra militanti e cittadini che gli urlavano “basta Enrico!” tentando di preservare dal male quell’uomo fragile, minuto, ancora lontani dall’idea del vuoto che avrebbe lasciato.

Salvini sogna Berlinguer: elaborazione grafica di Carlo Tassi

A distanza di trentasei anni, tale Salvini da Milano approfitta del fatto che la Lega sposterà la sede romana in via delle Botteghe Oscure per dichiarare, con l’usuale sprezzo del ridicolo, che la Lega a suo dire avrebbe ereditato i valori della sinistra di Berlinguer.
Non griderò alla lesa maestà, né mi soffermerò troppo sulla provocazione del losco figuro, che alla maniera trash tanto apprezzata dai suoi fans declama uno slogan allucinato, fraintendendo (apposta) il dato reale: cioè che anche alcuni operai ora votano Lega. Questo è il dato di fatto, la disperazione di persone che abbracciano valori di odio per paura sociale. Ma la comunicazione del figuro non si cura della realtà del dato, parte dal dato di realtà per costruire un racconto fasullo. E’ l’essenza della sua propaganda, del resto. Salvini, ad ogni modo, mi serve solo come gancio per tornare su Berlinguer, sulla sua prematura scomparsa e sul fatto che non ha lasciato eredi. Nè il losco figuro, che smetterò di citare per non dargli l’importanza che non merita, nè altri. E questa vuole essere un’affermazione seria.

Lo sgomento e il senso di perdita di milioni di persone che non lo avevano mai conosciuto, ma che piansero la sua morte come quella di un familiare amato – me compreso, ed ero un ragazzo – potevano essere riservate solo a lui e a Sandro Pertini. La stessa fisiognomica dell’individuo, la sua postura, la sua frugale eloquenza hanno esercitato un fascino collettivo la cui anomalia risiedeva nella singolare sobrietà. Infatti il culto della personalità indirizzato verso i leader di movimenti politici ispirati al marxismo sceglieva figure iconiche, retoriche, condottieri vestiti da guerrigliero, la cui scomparsa trasportava il lider maximo in un cielo empireo e generava un lascito mitologico depurato dalle debolezze umane sul quale, con naivetè, continuare la battaglia (unica eccezione forse Pepe Mujica).
Il carisma di Berlinguer si fondava, viceversa, anche sulla sensazione di fragilità che lo accompagnava, persino coreograficamente, quando saliva sul palco di congressi pletorici o di adunate oceaniche, rendendole docili al suo eloquio pulito, scandito ma privo di enfasi. Un insopportabile luogo comune dei politici, che vorrebbe segnalare un presunto, ridicolo disinteresse personale, recita: “non importano i nomi, importano i contenuti, non contano gli uomini, contano le idee”. Stupidaggini. Gli uomini contano eccome, e non per la banale ragione che se non esistessero gli uomini non esisterebbero le idee, ma perché la credibilità di un individuo incarna, letteralmente, un’idea, ed il seguito che riscuoterà. E quando è mancato l’uomo Berlinguer, all’improvviso, lo scarto tra l’autorevolezza della persona e il fiume delle idee che avrebbe dovuto tramandare ai suoi compagni e alle cosiddette masse è apparso incolmabile.

Berlinguer era un comunista guardato con sospetto sia a Ovest che a Est. A Ovest temevano che riuscisse ad aggirare la conventio ad excludendum che congelava il consenso comunista nel freezer delle roccaforti rosse, fino a farlo approdare al governo centrale. A Est temevano la sua eresia, il fatto che volesse coniugare socialismo e democrazia rappresentativa e si potesse portare dietro un Paese atlantico fino a slabbrare la cortina di ferro, al riparo della quale una elefantiaca nomenklatura coltivava i suoi privilegi (sarebbe stato avvincente averlo vivo durante la stagione della perestroijka di Michail Gorbacev).

Partiamo da Ovest. Quando Berlinguer, nel 1973, teorizzandola con tre articoli su Rinascita, propone una riedizione del dualismo tra Don Camillo e Peppone trasformandolo in una alleanza cattocomunista non lo fa per buttarla in commedia, ma per scongiurare la tragedia. Per evitare che la drammatica strategia della tensione in atto dalla strage di Piazza Fontana (1969) in avanti, attribuita con depistaggi agli anarchici ma frutto di una saldatura mai interrotta tra neofascisti clandestini e settori fascisti degli apparati dello Stato, sfoci in un golpe “alla cilena” con l’instaurazione di un regime autoritario e con la sospensione delle garanzie costituzionali.
Berlinguer, ovviamente, non partorisce l’idea del compromesso storico in preda ad elucubrazioni di stampo complottista.  Alcuni documenti sottratti all’ambasciatore greco in Italia (e finiti poi sulla stampa britannica) disegnavano una strategia degli Stati Uniti che, con la collaborazione del regime dei colonnelli in Grecia, intendeva radicalizzare lo scontro sociale per bloccare l’ascesa per via democratica dei comunisti italiani al governo. Non poteva essere tollerato, nel cuore del Mediterraneo, che un paese chiave del Patto Atlantico venisse governato da un partito che si richiamava alla dottrina comunista. Nonostante, infatti, la parte comunista della Resistenza avesse dato un contributo fondamentale alla scrittura della nuova Carta Costituzionale, di cui le regole di funzionamento dello Stato in termini di democrazia parlamentare costituivano nucleo centrale, gli equilibri internazionali usciti da Jalta e l’esito della (allora non conclusa) controffensiva al nazifascismo non prevedevano che l’Italia potesse avere un partito comunista al governo. La pregiudiziale antifascista di diritto su cui si erigeva la Costituzione Repubblicana copriva una pregiudiziale anticomunista di fatto, in nome della quale si muoveva un potentissimo sottobosco, solo parzialmente scoperchiato dalla magistratura ma rimasto tuttora oscuro nelle propaggini più sinistre, mostrato con mirabile capacità analitica e visionaria da Pier Paolo Pasolini nel famoso articolo “Io so”, pubblicato sul Corriere della Sera del 14 novembre 1974.

Facendo digerire al partito il compromesso storico (e a se stesso l’appoggio a un monocolore DC guidato da Andreotti) Berlinguer non scelse lo Stato deviato e infido che esisteva, ma l’idea di Stato che aveva in mente. Sotto questo profilo e con le debite differenze, fece una scelta assimilabile a quella di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che scelsero lo Stato di un futuro senza di loro, contro lo Stato presente che ne inquinava il lavoro e ne minava la reputazione e, letteralmente, le strade che avrebbero percorso.

Lo scelse, lo Stato, anche rischiando il partito, lasciando scoperta un’ala sinistra che, in alcuni suoi esponenti, divenne disperata e saldò, oggettivamente, una velleitaria idea di rivoluzione armata con le pulsioni autoritarie degli apparati deviati, uccidendo non solo Aldo Moro, ma la prospettiva da lui disegnata con Berlinguer. Di questa incredibile miopia politica i brigatisti sono stati colpevoli, quanto della barbarie umana che li ha portati a bruciarsi la vita in carcere. Così in DC venne restaurato l’ancien regime riportando in vetta gli uomini più torbidi, Berlinguer rimase orfano dell’autorevole sodale che aveva condiviso con lui la prospettiva della confluenza al governo delle due più radicate tradizioni sociali italiane, e si riposizionò quasi forzatamente sull ‘alternativa democratica’: un lavoro di più lunga lena che prevedeva di cacciare lo Scudo Crociato all’opposizione, ma che dovette fare i conti con un Bettino Craxi riottoso all’idea di un nuovo fronte popolare, che avrebbe ridotto il Partito Socialista Italiano alla subalternità verso i comunisti.

Guardiamo a Est. Berlinguer non fu impaziente di dichiarare formalmente l’autonomia del partito italiano da Mosca, in termini economici, organici e ideologici. La preparò per gradi, in modo che quando la dichiarò, nel 1980, la dichiarazione suonò nel partito come una presa d’atto e non come uno strappo del “capo”; esattamente il contrario di quanto fece Achille Occhetto, nel 1989, sull’onda – non certamente banale – della caduta del Muro.

Non fu impaziente, ma fu implacabile nel marcare il progressivo affrancamento dal giogo del socialismo reale. Glielo disse in faccia già nel 1969, a Breznev, e glielo disse a Mosca, alla presenza di tutti i comunisti del mondo: “Respingiamo il concetto che possa esservi un modello di società socialista unico e valido per tutte le situazioni. In verità le stesse leggi generali di sviluppo della società non esistono mai allo stato puro, ma sempre e solo in realtà particolari, storicamente determinate e irripetibili”. Certo, c’era stata l’invasione dell’Ungheria, nel ’56, nemmeno condannata, e quella della Cecoslovacchia nel ’68, bollata semplicisticamente come un “tragico errore”, che si portò dietro la critica radicale di intellettuali di valore come Luigi Pintor, Rossana Rossanda e Lucio Magri, il cui esplicito dissenso, concretizzato nella pubblicazione del giornale eretico  Il Manifesto, portò alla loro radiazione dal partito, tre anni prima che Berlinguer diventasse Segretario Generale.

In ogni caso, per chi pensa che Berlinguer sia stato troppo timido nell’accelerare il processo di autonomia dal blocco socialista: nel 1973, mentre tornava all’aeroporto di Sofia dopo uno spigoloso faccia a faccia con la nomenklatura bulgara, un incidente coinvolse l’auto a bordo della quale viaggiava. Berlinguer se la cavò con delle contusioni e la convinzione, confidata ai familiari e a Macaluso, che sarebbe stato prudente non mettere più piede in Bulgaria. Se per il Patto Atlantico Berlinguer era l’astuto e accorto gramsciano che cercava di entrare nella stanza dei bottoni dalla finestra, visto che la porta era sbarrata, per il Patto di Varsavia Berlinguer era inaffidabile, un deviazionista, un non ortodosso che da Segretario del più grande partito comunista d’Occidente minava le fondamenta del sistema. E’ probabile che avessero ragione entrambi.

Per Berlinguer austerità non era un modo di fare buon viso a cattiva sorte, visto che lo choc petrolifero ci faceva viaggiare a piedi. Era fare i conti con “l’ingresso sulla scena mondiale di popoli e paesi ex coloniali che si vengono liberando dalla soggezione e dal sottosviluppo a cui erano condannati dalla dominazione imperialistica. Si tratta di due terzi dell’umanità, che non tollerano più di vivere in condizioni di fame, di miseria, di emarginazione, di inferiorità rispetto ai popoli e paesi che hanno finora dominato la vita mondiale”. I nuovi problemi posti dai moti di emancipazione di questi popoli devono far abbandonare “l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario”. A questa nuova sobrietà dei consumi, nel nome anche di un parco uso delle risorse naturali (intuizione attualissima), corrisponde un profilo etico che lo porta a stigmatizzare il nascente, onnivoro appetito dei partiti verso le istituzioni, tale da portare l’Italia ad essere dominata da un rapporto di clientela paramafioso tra chi ha bisogno di lavorare e chi tramuta in favore le opportunità, in cambio di un’adesione non ideale, ma organica al partito, che si sostituisce allo Stato non di diritto, come nelle economie della pianificazione, ma di fatto. Il suo partito non sarà affatto estraneo a queste pratiche, facendo strame della “questione morale” sollevata dal suo leader.

Berlinguer pre-vide tutto questo, ma non fece in tempo a diventare coautore di quel futuro. La sua scomparsa fu precoce ed imprevista per la sua famiglia e per un partito che, con tutta evidenza, non era preparato alla sua successione. Nemmeno Berlinguer lo era, impegnato com’era a immaginare gli sviluppi politici e a gestire le urgenze presenti nel pieno della sua, pur estenuata, vitalità. Quella scomparsa prematura apre un vuoto verticale, un vertiginoso burrone che rende tutti, all’improvviso, orfani. Orfani non solo di una personalità dal carisma quasi riluttante, ma di un armamentario ideologico e strategico che nella sua incarnazione aveva una forza persuasiva, e senza di lui appare ad un tratto sottile, privo di una sostanza che Berlinguer solo sapeva conferirgli.
Come se il marxismo senza Berlinguer non avesse più l’unico interprete capace di renderlo adatto ad interpretare la modernità, e rimanesse un’attrezzatura datata, statica, protoindustriale. Come se la “terza via” avesse un senso solo se raccontata da quest’uomo pulito, nei tratti e nei modi, e senza la sua figura ad illuminarla (con una lucetta che oggi sarebbe sicuramente ad alto risparmio energetico), la strada dell’economia del capitale diventasse troppo oscura, insidiosa, possente ed infida, e noi fossimo privi di strumenti che ci permettessero di prevederne le temibili curve.
Come se togliere la parola “comunista” dal nome del partito non significasse fare un salto ambizioso dentro il futuro liberandosi di una zavorra, ma sottrarre il peso e la consistenza originaria di quel pensiero fino a renderne deboli le fondamenta, e impalpabili i fini.
Come se l’elaborazione teorica che intendeva prendere il meglio dell’analisi marxiana e dell’esperienza socialdemocratica, saldarle e superarle entrambe, fosse in realtà il sogno di un uomo, e non un filone degno di approfondimento. Con quale motivazione essere austeri se lo scopo di una società radicalmente altra non è più l’orizzonte cui tendere? Con quale dirittura morale mantenere un disinteresse per i privilegi materiali se non si lavora per il bene collettivo, ma solo individuale o della propria famiglia?
Questa inadeguatezza dei successori nel sostituire ad un fine salvifico, quasi messianico, un orizzonte “costituzionale” di inveramento dei diritti umano, laico, ma ugualmente radicale, ha consegnato i più scafati al disincanto, al cinismo ed al piccolo cabotaggio, i meno attrezzati alla paura e all’odio. E nell’ assecondare e rappresentare queste pulsioni, che per alcuni sono l’essenza della natura umana, la destra è molto più brava.

LO CUNTO DE LI CUNTI
Tace alto il paesaggio del cielo

Rubrica a cura di Fabio Mangolini e Francesco Monini

La stessa parola della lingua portoghese scelta dall’autore per il titolo, quel “desassossego”, esprime un particolare status esistenziale che è impossibile cogliere a pieno e quindi ‘tradurre’ in qualsiasi altra lingua; e complessa, ricchissima, immaginifica, profonda è tutta l’opera che in italiano è conosciuta come Il libro dell’inquietudine. Un’opera postuma, un libro non-finito e infinito. Il capolavoro di Fernando Pessoa non è classificabile in nessun genere letterario. Quasi un diario, ma molto di più di un diario, che forse si può accostare solo ad un altro grande giacimento letterario, scritto circa cento anni prima, Lo Zibaldone di Giacomo Leopardi. Fernando Pessoa sceglie per Il Libro dell’Inquietudine uno dei suoi eteronimi: il narratore principale (ma non esclusivo) delle centinaia di frammenti che compongono il libro è Bernardo Soares, aiutante bibliotecario nella città di Lisbona.
Il brano che qui presentiamo è stato tradotto per l’occasione da Amelia Monini, la lettura è affidata a Massimiliano Piva. Fernando Pessoa non è autore facile da interpretare, a entrambi va quindi un grazie particolare.
(I Curatori)

Fernando Pessoa (Bernardo Soares),Tace alto il paesaggio del cielo, tratto da: Livro do Desassossego, traduzione di Amelia Monini, lettura di Massimiliano Piva

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Incipit in lingua originale:
17/10/1931
Sim, é o poente. Chego à foz da Rua da Alfândega, vagaroso e disperso, e, ao clarear-me o Terreiro do Paço, vejo, nítido, o sem sol do céu ocidental. Esse céu é de um azul esverdeado para cinzento branco, onde, do lado esquerdo, sobre os montes da outra margem, se agacha, amontoada, uma névoa acastanhada de cor-de-rosa morto.

TACE ALTO IL PAESAGGIO DEL CIELO

17/10/1931

Sì, è il tramonto. Giungo alla foce di Rua da Alfândega, lento e disperso, e, allo schiudersi di Terreiro do Paço davanti a me, vedo, nitida, l’assenza di sole nel cielo occidentale. È un cielo di un azzurro verdognolo che vira al grigio bianco, dove, sulla sinistra, sopra ai monti dell’altra riva, si acquatta, ammucchiata, una nebbia brunita da un rosa smorto. C’è una grande pace che io non ho; si disperde freddamente per l’astratta aria autunnale. Soffro di un vago piacere nel supporre che essa esista. Ma, in realtà, non c’è pace o assenza di pace: soltanto cielo, cielo di tutti i colori che languiscono – azzurro bianco, verde ancora azzurrognolo, grigio pallido tra il verde e l’azzurro, vaghi toni remoti di colori di nuvole che non lo sono, giallamente illividite da un rosso scomparso. E tutto questo è una visione che si estingue nello stesso istante in cui la si ha, un intervallo tra il nulla e il nulla, alato, posto in alto, in tonalità di cielo e angoscia, prolisso e indefinito.
Sento e dimentico. Una saudade, che è quella nostalgia che tutti hanno per tutto, mi invade come un oppio di aria fredda. C’è in me un’estasi del vedere, intima e posticcia.
Verso la foce, dove il sole, svanito, svanisce sempre più, la luce si estingue in un bianco livido che si inazzurra di verdognolo freddo. C’è nell’aria il torpore di quel che non si ottiene mai. Tace alto il paesaggio del cielo.
In quest’ora, in cui sento fino a traboccare, avrei voluto la totale malizia del dire, il libero capriccio di uno stile per destino. Ma no, solo il cielo alto è tutto, remoto, va annullandosi, e l’emozione che ho, e che sono tante, unite e confuse, non è altro che il riflesso di questo cielo nullo su un lago dentro di me – un lago rinchiuso da aspri scogli, tacito, sguardo di morto, in cui l’altezza si contempla dimentica.
Tante volte, tante, come ora, mi è pesato sentire che sento – sentire come un’angustia per il solo fatto di sentire, l’inquietudine di trovarmi qui, la nostalgia di un qualcosa d’altro che non si è conosciuto, il tramonto di tutte le emozioni, ingiallirmi sfumato in tristezza grigia nella mia coscienza al di fuori di me.
Ah, chi mi salverà dall’esistere? Non è la morte che voglio, e neppure la vita: è quel qualcosa d’altro che brilla in fondo all’ansietà come un diamante possibile in una fossa nella quale non si può discendere. È tutto il peso e tutta l’angoscia di questo universo reale e impossibile, di questo cielo, vessillo di un esercito ignoto, di questi toni che impallidiscono nell’aria fittizia, da dove la crescente immaginazione della luna emerge in un biancore elettrico, fermo, stagliandosi lontana e insensibile.
È tutta l’assenza di un vero Dio il vacuo cadavere del cielo alto e dell’anima prigioniera. Carcere infinito – e poiché sei infinito, non si può fuggire da te!

Fernando Pessoa (Bernardo Soares),Tace alto il paesaggio del cielo, tratto da: Livro do Desassossego, prima edizione portoghese 1982, prima edizione in italiano: Il Libro  dell’Inquietudine, traduzione di Antonio Tabucchi, Feltrinelli, 1986.

Guarda le altre videoletture del Cunto de li Cunti [Qui] 

Cover: elaborazione grafica di Carlo Tassi

PER CERTI VERSI
Per Alex Langer

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

PER ALEX LANGER

Un quarto di secolo
Sembra ieri
Sembra una vita
Un altro secolo
La tua dipartita
In un cielo di Tiepolo
Il tragico conflitto
Tra ciò che vogliamo
e ciò che riusciamo
A compiere