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Giorno: 18 Luglio 2020

SOVRANISMO: DIO, PATRIA e ZAR
L’antica ricetta per un nuovo Peron alla milanese e un’Evita all’amatriciana

Dio, patria e Zar. Il sovranismo in tre parole. Nulla di nuovo sotto il sole, aggiungi alcuni concetti a caso tipo famiglia tradizionale, valori cristiani, prima noi, ci stanno invadendo, ospitiamoli a casa loro, autarchia, stampiamo moneta, difendiamo la nostra razza, libertà (intesa come la mia e non la tua), ed ecco pronto un perfetto strumento ideologico per definire i padroni a casa nostra. A piccole dosi, aggiungerei un po’ di insofferenza nei confronti dell’antifascismo (superato perché non c’è più il fascismo – cit.), disagio nei confronti della scienza, ricerca continua e imperterrita del complotto, costruzione del nemico e sua conseguente disumanizzazione e il giochino è fatto.

Il concetto di sovranità nazionale e di confine chiuso ci porta indietro negli anni, nei secoli, in cui il sovrano, lo zar instillava nei sudditi l’amor patrio, come siero per immunizzare il popolo dalle velleità di rivolta. Le dittature si mantengono su questi valori, guerra continua e senza limiti contro nemici veri, verosimili o inventati.

La cultura ad esempio. I professoroni, gli intellettuali, i radical chic, primo ed importante nemico da abbattere e delegittimare.
E come si fa?
Facile.
Ora, nei tempi del tutti connessi è semplicissimo, basta gridare più forte da una tastiera, spammare di continuo fake news costruite ad arte, lanciare input alle bande di sudditi che fanno il lavoro sporco, distruggendo il pensiero civile di chi vuole esprimere un parere discordante o peggio irrispettoso del sultano, su un qualsiasi social network.
E il gioco è fatto. Il primo tassello del domino inizia a cadere.

«Quando sento la parola cultura metto mano alla pistola», la frase attribuita a Goebbels di non accertata provenienza è l’emblema del concetto del populismo sovranista. La personalità malata del ministro della propaganda nazista tendeva a costrure gigantesche menzogne a cui alla fine credeva pure lui. Quale miglior metodo per convincere gli altri se non quello di essere convinti delle proprie bugie?

I tre elementi cardine che citavo all’inizio continuano a mantenere lo stesso valore dei secoli passati. Attraggono i sudditi come una calamita, facendoli sentire migliori, più forti, parte di un gruppo dominante. Il famoso ‘noi’ è la più grande delle fandonie. Lo zar, quando parla di noi si riferisce a lui, mentre il popolino quando parla di noi non riesce a capire che anch’esso parla di lui. I privilegi di cui sarebbero dotati gli avversari o meglio i nemici, perché le schiere fedeli al sovrano devono proteggere il loro duce da masnade di cattivi, clandestini, esseri contro natura, comunisti che sbucano in ogni dove, peccatori che intaccano le bianche vesti del sultano, non esistonoE quindi vanno costruiti.

I limiti intellettuali di molti sovranisti di casa nostra non sono nemmeno ritenuti limiti dagli accoliti, anzi. Il linguaggio da bar sport, le movenze, l’abbigliamento fintamente trasandato sono prettamente costruiti a tavolino per assomigliare ai propri elettori. “Vedi lui è come me, come noi, dice pane al pane e vino al vino, non come loro che studiano, studiano e non sanno un cazzo”.

E voi? Ma voi chi?
Non sto cercando di analizzare le differenze, con la mia piccola testa, ma sto cercando di raccontare il perché un trinomio vecchio di millenni continua ad essere appetibile alle genti di questo fetente ventunesimo secolo.
Mi sento dire spesso, ma come fai ad essere ancora Comunista? Berlinguer è morto, il Pci non c’è più, il comunismo è stato sconfitto dalla storia. Mi viene da rispondere: “Ma tu, cazzo! che ti ritieni rappresentato dai valori di Romolo, non è che sei più retrogrado di me?”

Qui non parlo di una destra moderna, in quanto i valori sopra enunciati nulla hanno a che vedere con una destra liberale, moderna e repubblicana. Sempre, ovviamente, lontana da me, ma con cui dibatterei volentieri sui tanti valori avversi. Mi riferisco proprio alla maggioranza della destra italiana. Ora, capire perché il popolo italiano, in una sua parte, non so se maggioritaria o meno abbia bisogno di un conducator, di un Peron alla milanese e di una Evita all’amatriciana è materia per sociologi, quello che è decisamente avvilente è capire perché il resto della popolazione italica non sia in grado di smontare le fandonie sovraniste.

Forse se ne esce solamente da sinistra, da una vera sinistra.
Ma anche questo è un tema da dibattere, un po’ come cercare un unicorno in un gregge di mucche. Occorrerebbe un nuovo umanesimo, una compattazione sui valori dell’antifascismo, una riscoperta dei valori fondanti del progressismo. Ma a dire il vero io non vedo luce in fondo al tunnel. Forse quella fioca fiammella che emerge dall’oscurità, sono solo i fari del treno che ci viene addosso.

PRESTO DI MATTINA
Quel Libro Vivente nascosto dentro di noi

Il cammino arduo e travagliato percorso dal movimento biblico nel XX secolo è stato animato, per lo meno, da un duplice impegno: rendere viva ed efficace la parola di Dio per tutti i cristiani di nuovo convocati come uditori della Parola, e riconsegnare nelle loro mani le sante Scritture affinché divenissero l’anima della vita spirituale, liturgica e pastorale delle comunità ecclesiali. Di qui, unitamente al movimento ecumenico, liturgico e patristico, questi percorsi di studio e di vita finirono per generare e alimentare, come affluenti carsici, quel fiume in piena che si è poi riversato nel Concilio vaticano II. Fu un dono per la Chiesa, cui corrispose il compito di comprendere sé stessa nel cono di luce della storia del proprio tempo, scevra da ogni contrapposizione, per avviare il confronto con la modernità.

In quell’evento la Chiesa ritrovò la sua forza profetica: la realtà della sua stessa vita e la sua missione, che è la capacità di comunicare la Parola fatta carne, di esserne segno e strumento intelligibile sia al cuore che alla mente. Al Concilio la Chiesa ricominciava così a rivolgersi al mondo con stile pastorale, riunendo insieme i contenuti della propria fede, ciò che la faceva vivere: il suo credo con la stessa esperienza del credere. Ma al contempo essa seppe coniugare la fede con la libertà dell’uomo: la libertà di affidarsi all’altro e, quale sua massima espressione, di abbandonarsi tutt’intero e liberamente al Dio che si rivela nella sua parola. È ciò che il Concilio chiama “obbedienza della fede” – dal verbo ob-audire – per riferirsi all’ascolto profondo, pieno di attenzione, quasi orante dell’altro mentre svela la sua intimità più nascosta. Obbedienza, in breve, come “condiscendenza” al modo di una sequela che seduce, attira e stupisce al suo manifestarsi concretizzandosi in una alleanza di vita (Dei verbum, 5).

A tal proposito, il vescovo Luigi Bettazzi ricorda: “Quando entrammo nel Concilio avevamo ancora un certo timore della parola di Dio. Pensavamo che fosse riservata alla gerarchia, e in effetti le cose andavano così. Abbiamo forse dimenticato che la gente imparava il catechismo a memoria, senza coinvolgimento personale? La grande scoperta fu proprio quella del valore della parola di Dio: scopriamo che il cristianesimo, o meglio l’essere cristiani, non equivale semplicemente a sapere la verità, ma è un trovarsi a tu per tu con Dio che ti parla, che la fede è dire di sì a Dio che ti parla, e che, se le cose stanno così, per capire chi è Dio devi avere familiarità con la sua parola e non timore”, (L. Bettazzi, A.M. Valli, Difendere il Concilio, Cinisello Balsamo 2008, 85).

Dei verbum religiose audiens et fidenter proclamans”: così l’incipit del testo conciliare sulla rivelazione di Dio che ha visto i padri conciliari mettersi “in religioso ascolto della parola di Dio per proclamarla con ferma fiducia” (Dei verbum, 1). Del resto, tutto il documento, ponendo di nuovo al centro la rivelazione del Dio di Gesù di Nazaret manifestatosi nella storia, ha in un certo qual modo fatto riscoprire una prossimità e familiarità con Dio che era restata come in secondo piano, ma ancora vivissima nell’esperienza mistica. Fu la risposta più fedele a quel desiderio di dialogo confidenziale e amicale a cui il Dio del Deuteronomio invita: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: “Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?“. Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?” Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica” (30,11-14). Così è stato per Abramo: “Abramo credette a Dio e gli fu accreditato come giustizia, ed egli fu chiamato amico di Dio”. (Gc 2, 23) e per Mosè: “egli è l’uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo con lui” (Nm 12,8). Perché allora non anche per noi?

Non v’è così da sorprendersi se lo spirito del Concilio e la grazia di quell’evento continuano ancora oggi, nonostante le acque che ne sgorgarono abbiano avuto un percorso tortuoso – persino carsico – e a dispetto dei molti argini che gli stessi uomini di chiesa hanno frapposto. Malgrado tutto, il grande fiume è riemerso nuovamente, anche grazie a un papa venuto bensì “dalla fine del mondo”, ma, in realtà, da comunità cristiane come quelle dell’America latina, che hanno saputo non solo leggere e custodire i documenti conciliari, non riponendoli poi negli scaffali come abbiamo fatto noi, ma li hanno traghettati e incarnati nella vita della gente, restituendo al popolo il bene della “Parola”, non solo quella di Dio; la “presa della parola” nelle comunità cristiane e nella società civile avviò così un processo di conscientizzazione e di liberazione dolorosi e martiriali, per chi conosce un poco la storia delle chiese in America Latina, che attualizzava in nuove forme l’Esodo biblico, il passaggio dalla schiavitù dei faraoni, gli antichi dittatori alla terra promessa.

Uno dei frutti di questa esperienza è stata ed è la “lettura popolare” o contestualizzata della Bibbia, il cui punto di partenza è sempre la realtà concreta, perché la parola di Dio è chiamata a illuminare la vita reale con le sue gioie e tristezze. È da qui, infatti, che originano le domande, i dubbi, i problemi di coloro che si avvicinano alla Scrittura per ricevere una luce sul proprio cammino.

Ma l’importanza della Dei verbum va ancora oltre. Non consiste, infatti, solo nell’aver riaffermato la sovranità della Parola di Dio, tanto nella Chiesa quale centro di irradiazione della sua stessa vita, quanto per lo stesso magistero, che, ponendosi al suo servizio e non certo al di sopra di essa, è chiamato “piamente” ad ascoltare, “santamente” custodire, “fedelmente” esporre la sacra Scrittura (Cfr. Dei verbum 10). Altrettanto rilevante è lo sforzo compiuto da questo fondamentale documento conciliare per riaccostare i cristiani al testo biblico: e non già in modo “antologico”, ma integrale, autonomo e diretto, giacché – come affermava san Girolamo – “l’ignoranza delle Scritture, è ignoranza di Cristo”. Per questo la Dei verbum si conclude affermando che il vangelo è stato affidato alla Chiesa per riempire il cuore degli uomini, affinché, non diversamente da quanto l’eucaristia fa con la Chiesa, parimenti la Scrittura cresca con chi la legge, sino a che, con la lettura e lo studio, “la parola di Dio compia la sua corsa e sia glorificata” (2 Ts 3,1) (ivi 26).

Sotto questo profilo, si rivela dunque quanto mai felice il paragone biblico della Parola di Dio con un martello: “La mia parola non è forse come il fuoco e come un martello che spacca la roccia” (Ger 23,29). Il Signore batte con il martello della sua Parola sull’incudine di ferro, che è il cuore dell’umanità da cui si sprigionano innumerevoli scintille: rappresentano gli inesauribili significati della sua Parola per chi la legge; tramite questo incessante moltiplicarsi dei significati, si accresce così, per l’umanità, la conoscenza della rivelazione di Dio al modo, appunto, dell’irradiarsi delle scintille.

Di recente, grazie alla lettura dei mistici carmelitani ho incontrato un pensiero che mi ha reso gioioso nell’intimo. Leggendo una poesia contenuta nel Cantico spirituale di Giovanni della Croce, ho compreso che anche “il Vangelo ha occhi”. Ero rimasto dell’idea che quando si legge un libro sono in gioco solo due occhi, i tuoi; ed invece questo umile e piccolo frate mi ha fatto intuire la reciprocità di sguardi insita nella lettura del vangelo, i suoi occhi ci guardano questionanti dentro ad ogni verso. «Giovanni era ben più di un vulcano: roccioso all’aspetto, ma all’interno infiammato di passione. Quando lo incontrò, Teresa riconobbe in quel piccolo frate un qualcuno che partecipava del suo stesso spirito. “Vostra Reverenza dovrebbe parlare con quest’uomo” – si precipitò a scrivere ad un amico – “Anche se piccolo [chico], capisco che deve essere grande agli occhi di Dio”. E lo invitò ad unirsi alla sua riforma carmelitana» (Iain Mattew, L’impatto con Dio, Città di Castello, 2005, 21 e 53).

Occhi desiati sono quelli del vangelo per chi lo legge. Ne nasce un intreccio di sguardi che si cercano, in un dialogo tra l’anima innamorata e il Cristo che ricorda quando l’amata del Cantico dei Cantici incrocia lo sguardo dell’amato così a lungo cercato “che le sembra stia sempre a guardarla”. È il momento in cui si sente osservata e scopre di essere importante nella vita e nel cuore dell’amato: “Estingui i miei affanni, ché nessuno vale ad annientarli, ti vedan i miei occhi, perché ne sei la luce, per te solo desidero serbarli! O fonte cristallina, se in questi tuoi riflessi inargentati formassi all’improvviso quegli occhi tuoi desiderati, che porto nel mio intimo abbozzati!” (Cantico spirituale A, 10-11).

Un’analoga esperienza ci attende. C’è un vangelo ‒ lo ripeto spesso a messa ‒ che è presente ma nascosto in noi, si sta formando nell’intimo e ci guarda, e desidera pure lui di essere visto con occhi che amano. Per questo, durante questi miei anni di ministero pastorale, ho sempre cercato di scoprilo tra la gente, ascoltando le loro storie e provando a rendere consapevoli le persone di questo tesoro che portano dentro. E il vangelo che essi scoprono in loro lo diventa anche per me: un vangelo scritto con la loro vita, che le loro parole e i loro occhi mi rendono manifesto.

Ha scritto padre Henri de Lubac che “una persona è illuminata” non “quando gli viene un’idea”, ma “quando qualcuno la osserva”. Una persona rinasce e viene alla luce ogni volta che un altro la ama. Gli occhi che amano fanno aprire occhi, orecchi cuore, riportano all’ascolto, alla visione, al sentire di nuovo amore. Lo stesso fanno su di noi gli occhi del vangelo, guardano il cuore e attendono altri occhi che lo aprano per iniziare una danza di parole che si intrecciano e si scambiano, che si lasciano e si abbracciano di nuovo in un dialogo amoroso che ricrea la vita.

Quante volte gli occhi di chi soffre hanno incrociato i nostri occhi. In una di quelle occasioni, la lettura di un detto di Rabbi Mendel sulla Parola di Dio mi suggerì questo testo:

«Era d’inverno e alla scuola di Rabbi Mendel, quel mattino, non tutti gli alunni erano entrati. Nonostante il freddo molto intenso e la neve appena caduta, un discepolo del Rabbi si era diretto nell’orto accanto alla scuola andando a sedersi accanto a un gelsomino così scheletrito e scuro da somigliare a un groviglio di filo spinato. E lasciava che tutta quella gelida tristezza lo inondasse. Il Rabbi gli si sedette accanto, e non appena il discepolo si alzò per rientrare alla scuola, Rabbi Mendel gli domandò: “Che cosa hai imparato dal gelsomino scarnito? Che cosa ti ha detto?” Ed egli rispose: “Il vento scuotendo i suoi rami gelati li ha fatti vibrare è udii come tenue lamento, che sembrava ripetere: È bene aspettare in silenzio la fine dell’inverno”. Mi ricordai allora della parola del profeta Isaia che dice: “Sono rimasto lontano dalla pace, ho dimenticato il benessere. E dico: È scomparsa la mia gloria, la speranza che mi veniva dal Signore? È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore (Lam. 3, 17-26). Allora Rabbi Mendel disse al discepolo: “È scritto: queste parole che oggi ti do ti saranno sul tuo cuore”. Gli chiese allora il discepolo: “Perché, maestro è detto che dovranno stare sul cuore e non è detto dentro al cuore?”. “Perché ‒ rispose il Rabbi ‒ talora il cuore per il gelo della vita resta chiuso e silenzioso. Ma le parole stanno ugualmente su di esso, e in quei momenti in cui si allenta il gelo e si apre un poco esse vi cadono dentro e lo riscaldano».

Parole a capo
Eleonora Rossi: “nella riconciliazione della pioggia” e altre poesie

“Se leggo un libro che mi gela tutta, così che nessun fuoco possa scaldarmi, so che è poesia. Se mi sento fisicamente come se mi scoperchiassero la testa, so che quella è poesia. È l’unico modo che ho di conoscerla. Ce ne sono altri?”
(Emily Dickinson)

nella riconciliazione della pioggia

restiamo qui

nella riconciliazione
della pioggia

quando terra e cielo
si baciano sulle labbra
e sugli occhi.

Con la voglia
di prenderci
quello
che ancora
ci spetta.

 

fiori selvatici

siamo fiori selvatici
ai bordi delle strade

restiamo saldi
aggrappati al vento

guardiamo negli occhi
il ruggito
di un temporale

(da ho svaligiato l’universo, Aletti Editore, 2020)

 

Gli occhi non muoiono

Ieri
ho ritrovato
i tuoi occhi,
papà

erano accanto a me
(luci complici)
nello sguardo
assorto
del mio bambino

scarabocchiava un foglio
e sbirciando mi cercava.

Ed è lì
che ho capito
il nostro viaggio

di luce in luce,
senza fine.

Ora so
che gli occhi
non muoiono

 

Alla finestra

Alla finestra
di casa
ti spiegavo il tramonto.

Assorti
guardavamo
il tuorlo infuocato
scivolare
tra le nubi e nel fiume.

Meravigliosamente piccolo,
ignaro della trappola del tempo,
tu appannavi
il vetro di vocali

eri l’eco
delle mie parole.

E io pensavo
che avrei dovuto
della vita
spiegarti anche gli anfratti

e il buio
in cui scivola il sole.

Eppure
stavo lì
io pure incantata
dal tuo sguardo
puro

E avrei
barattato il vento
per avere di nuovo
negli occhi
il tuo stupore

(da Le sette vite di Penelope, LietoColle, 2012)

Eleonora Rossi
Eleonora Rossi è nata a Ferrara nel 1971. Laureata in Lettere Moderne con una tesi sulla letteratura di viaggio (relatore professor Mario Lavagetto), è insegnante e scrive per passione. Giornalista pubblicista, dal 1997 collabora con Il Resto del Carlino e altre testate giornalistiche. Dal 2016 è direttrice responsabile della rivista l’Ippogrifo (https://scrittoriferraresi.it/).
È autrice delle sillogi Le sette vite di Penelope (LietoColle, 2012), Diario di una peccatrice (ilmiolibro.it, 2018) e ho svaligiato l’universo (Aletti Editore, 2020). Sue composizioni sono presenti in numerose antologie poetiche; ha pubblicato centinaia di saggi critici, articoli, interviste. La sua scrittura è tata apprezzata in concorsi letterari nazionali e internazionali, tra i quali il Tour Music Fest, The European Music Contest. Nel 2017, dopo aver vinto il Premio Cet, si è diplomata al Corso per Autori della scuola di Mogol.

Dal 6 al 18 luglio  Parole a capo, la rubrica di poesia di Ferraraitalia, è uscita quotidianamente. Dalla settimana prossima si torna alla cadenza settimanale: prossimo appuntamento giovedì 23 luglio.
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