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Giorno: 1 Agosto 2020

PRESTO DI MATTINA
Le mani della libertà

Con più “meraviglia” e con “una comprensione dilatata” torneremo a comunicarci con le mani; delicata sarà e quasi orante l’incontro con la vita che tornerà ad affidarsi alle nostre mani. È la profezia poetica in Mariangela Gualtieri all’inizio del lockdown in Nove marzo duemilaeventi: «A quella stretta/ di un palmo col palmo di qualcuno/ a quel semplice atto che ci è interdetto ora – noi torneremo con una comprensione dilatata./ Saremo qui, più attenti credo. Più delicata la nostra mano starà dentro il fare della vita./ Adesso lo sappiamo quanto è triste/ stare lontani un metro» [Qui]

Attraverso il simbolismo delle mani si ha accesso al regno delle “immagini impegnate”, dice G. Bachelard (La poesia della materia, Como 1997, 37), esse infatti sono situate nell’orizzonte in cui ci è dato plasmare la materia e trasformare la vita, si collocano nell’ambito della durezza e della mollezza, della dolcezza e della fortezza, si compiono nell’attitudine della resistenza e della resa, della sfida e della difesa, dell’insistenza e della desistenza, nel rifiuto e nell’accondiscendenza, nel concedersi e nel ritirarsi. Tornare ad avere “le mani della libertà” per dire l’idea di una libertà ‘impegnata’, non ripiegata narcisisticamente su se stessa, una libertà ‘protesa’, non distesa, ma in tensione, libertà ‘argumentosa’, che sa e argomenta essendo operosa, nell’atto di agire, che pone in luce, fa risplendere e rende chiare e luminose le cose agendo in esse.

Quelle legate alle mani sono immagini che riscattano la passività del tatto, rimettono in moto la poesia del toccare e del plasmare, mettono in movimento l’inerzia della materia, rendono dinamica la sua forma, restituendo alla contemplazione della bellezza l’ulteriorità che la fa uscire da se stessa, verso il mistero concepito in essa. Si pensi alla bellezza accogliente e dinamica del gesto della levatrice che fa uscire con le mani la vita, che dà alla luce il mistero, infrangendo il suo silenzio, facendolo gridare e gioire, perché è nato un figlio. Pensiamo anche alla bellezza raccolta e umile della mano che, chiudendo gli occhi ad un morente, dischiude nuovamente il mistero ricomponendone il suo silenzio, velandone la luce, perché la vita dell’uomo è ormai nascosta passando in esso.

L’immaginario poetico delle mani converge e si connette all’immaginario della volontà e ne esprime tutto il movimento, il tragitto diviene atto volitivo e comunicativo della libertà.
Nel dipinto di A. Dürer, Gesù che discute tra i dottori nel tempio parla letteralmente con le mani; esse esprimono la convergenza, l’incontro, l’accoglienza dell’altro e del suo parlare, sono mani che tendono a creare comunione e a ristabilire il legame tra Dio ed il suo popolo, mani intente a ridonare la bellezza e la relazione originaria della creazione, quella precedente la durezza del cuore, per cui Mosè ricevette le tavole di pietra e nascose lo splendore della grazia sotto il velo della Legge.

Le dita di una mano del Maestro sembrano intente ad arpeggiare uno strumento a corde, come a far udire di nuovo l’armonia della vita di Dio e la sua Parola nascosta in una esistenza umana, la sua; sembrano svelarne tutto il senso e la sapienza, o essere intente a sfogliare le pagine del libro della legge nuova, scritta non più sulla pietra, ma sulle tavole del cuore, una legge più profonda, contenuta nella prima, un comandamento nuovo, compimento di quello antico: la sua anima interiore.

A differenza delle mani di Gesù quelle dei dottori invece riflettono l’umore del loro volto, la diffidenza ed il sospetto del cuore umano; uno di loro le tiene appoggiate sul libro chiuso della Legge, accavallate l’una sull’altra come un doppio sigillo, che ne rende inaccessibile la lettura; altri due invece sono raffigurati come intenti ad aprire il libro, ma lo fanno con una sola mano, quella del giudizio, e nascondono quella della misericordia; un altro infine argomenta con le mani al modo di Gesù ma, a differenza di quelle del Maestro, che si toccano attraverso le dita, le sue sono divergenti; il movimento aggressivo dell’indice non cerca quello di Gesù, ma è puntato verso di lui; le sue mani, più grosse e larghe tentano di sovrastare quelle minute del piccolo Maestro, una è suadente e sembra toccarlo, l’altra invece sembra minacciosa, come se mettesse in guardia.

Proprio il volto di quest’ultimo assomiglia ad una caricatura, il profilo del naso e delle labbra è animalesco: una mostruosità dipinta, al modo dei volti di H. Bosch ne Il Cristo caricato della Croce, quasi a dire di un linguaggio delle mani che, riflettendo il volto non umano, parlano un linguaggio disumano, trasmettono l’insipienza di un sapere che non viene da Dio, la stoltezza di una scienza che, priva della carità, gonfia solamente, senza edificare nulla.

Nel disegno delle Mani in preghiera sempre di A. Dürer, esse non sono ‘giunte’, ma flesse, sembrano disegnare la curvatura di un cuore aperto nell’attesa dell’altro: «I shin den shin» è una formula zen il cui significato letterale è ‘da cuore a cuore’, quasi a dire che il donarsi del cuore passa attraverso le mani.

Pierre Teilhard de Chardin, che da scienziato e mistico ha indagato il cuore della materia, così parla delle mani del Cristo cosmico e universale: «Verbo sfavillante, Potenza ardente, o Tu che plasmi il Molteplice per infondergli la tua vita, abbassa su di noi, Te ne supplico, le tue mani potenti, le tue mani premurose, le tue mani onnipresenti, quelle mani che non toccano qua o là (come farebbe una mano umana), ma che immerse nella profondità e nell’universalità presente e passata delle Cose, ci raggiungono, al tempo stesso attraverso tutto ciò che vi è di più vasto e di più intimo in noi ed attorno a noi» (La Messa sul Mondo (1923), HU, 11).

Durante la guerra scrivendo alla cugina Marguerite, egli la invita a fare come faceva lui – nelle trincee del fronte, quando da barelliere andava a prendere i soldati feriti, strisciando tra i reticolati – ad affidarsi ad altre mani al modo dell’uomo della croce che, ormai senza mani perché crocifisse, continua tuttavia ad accogliere attraverso le mani del Padre con le sue mani nella forma di una passività operosa: «In quelle mani che hanno spezzato e reso vivo il pane, che hanno benedetto e accarezzato, che sono state trapassate dai chiodi; in quelle mani, simili alle nostre, di cui non si può mai dire cosa faranno dell’oggetto che tengono, cioè se lo frantumeranno o ne avranno cura; nelle mani i cui capricci sono, ne siamo sicuri, pieni di bontà, e che non arriveranno mai ad altro che a stringerci gelosamente; in quelle mani miti e potenti che giungono al centro dell’anima – che formano e creano – in quelle mani, che sono attraversate da un amore così grande, è dolce abbandonare la propria anima soprattutto nei momenti di dolore e di paura» (in Genesi di un pensiero, 23.11.1916, Milano 1966, 126-127).

Il pastore protestante Ditrich Bonhoeffer, impiccato il 10 aprile del 1945 a Flösseburg dai nazisti, si domandava: «quale significato avrà Cristo nel futuro… Avremo bisogno di una nuova forma di Cristianesimo, in un’epoca in cui ormai il mondo è cambiato… credo che la religione abbia un solo scopo in un mondo moderno: quello di insegnare alla gente a condividere la sofferenza altrui e quella di Dio in un mondo senza Dio. Non basta più una religione che sia solamente formale, ci serve la fede con Gesù Cristo al centro. Il vero Cristianesimo significa condividere il dolore degli altri. Non sta a noi profetizzare il giorno in cui gli uomini chiederanno ancora una volta a Dio di cambiare il mondo e di rinnovarlo, ma quando quel giorno verrà ci sarà un linguaggio nuovo, forse anche poco religioso, ma esprimerà quella redenzione e liberazione contenuta nel messaggio di Gesù. La gente rimarrà colpita, rimarrà colpita dalla sua potenza. Sarà il linguaggio di una nuova verità che proclamerà la pace tra Dio e gli uomini», dal film “Bonhoeffer” di Eric Till (2010).
Sarà un mistico il cristiano del futuro? Un cristiano che fa esperienza della sofferenza ed insieme della meraviglia segreta nascosta nelle persone che gli vivono accanto?

Leggendo un’altra poesia, sempre della Gualtieri, nella sua ultima raccolta Quando non morivo, penso ad una ‘mistica dell’ordinario’, che non è estranea ma sprofonda nell’umano, sprofondandosi in Dio e che poi muove all’azione: sigillo di autenticità; questa mistica che opera è accessibile a tutti a condizione che, guardando ciò che sta attorno, con occhi penetranti, si tengano uniti cuore e mani, quelle della nostra libertà che asciugano lacrime e frangono pane, che spingono un’altalena: «Faccia rossa/ sull’altalena/ faccia piccola che ride/ spalanca un cielo/ e divinità innumerevoli/ guardando giù/ perdonano millenni/ di insolenze nostrane/ per quel volto e quel riso/ per quel mio avere veduto/ nell’ordinario minuto -/la meraviglia» (ivi, Torino 2019, 70).

All’ombra del ciliegio

racconto di Patrizia Benetti

In primavera, nel cortile del monastero di Sant’Antonio in Polesine, il ciliegio giapponese colpisce gli occhi dei visitatori con un’esplosione di fiori rosa.
Una grigia mattina di gennaio suor Cecilia, una minuta donna di mezza età, trovò un cesto davanti al convento. Dentro c’era un tenero fagottino.
“Guardate. È una bimba!”.
Le consorelle si strinsero attorno alla creatura dalle gote arrossate dal freddo.
Suor Teresa, la madre superiora, chiese severa: “Cos’è questo trambusto?”.
“Il Signore ci ha fatto un dono!”, esclamò Cecilia entusiasta.
Anche Teresa s’intenerì.
“La piccola ha fame, suor Celeste”.
“Ci penso io, madre!”, rispose soddisfatta la cuoca.
Le sorelle si strinsero di nuovo attorno alla piccola.
“Guardate come beve il latte”.
“Era affamata, poverina”.
“Dove dormirà stanotte?”.
“Nella stanza di suor Cecilia. È stata lei a trovarla”, disse suor Teresa.
La minuta sorella sfoderò uno splendido sorriso.
L’indomani, la superiora disse: “Chiamate don Simone. Dobbiamo battezzarla”.
“Che nome le daremo?”, chiese la cuoca.
“Non so…”, replicò lei pensierosa.
“Eleonora”, rispose timida Cecilia.
Le sorelle volsero lo sguardo verso di lei. Il rossore le dipinse le guance.
“Eleonora. Sì, suona bene”, commentò Teresa.
“Che ne sarà della bimba?”, chiese la madre superiora al parroco.
“Dovrei portarla all’orfanotrofio”, rispose mesto l’uomo.
“Sarebbe un vero peccato rinchiuderla in quel grigio edificio. Dovrà indossare una divisa, sarà come vivere in una prigione”.
“Noi dobbiamo solo rispettare le regole”, replicò don Simone.
Qui invece sarebbe accudita con amore”, continuò decisa suor Teresa.
Il giovane parroco annuì. Sorrise stringendo l’occhio alle sorelle, inforcò la bicicletta e si recò in parrocchia a dire Messa.
La piccola portò il sole tra quelle fredde mura.
Nel silenzio del convento risuonavano le risate argentine di Eleonora.
Sembrava una bambola di porcellana, con le guance rosa, i grandi occhi celesti e i riccioli biondi.
Suor Cecilia la imboccava, le confezionava deliziosi vestitini color pastello, si attardava a giocare con lei, l’aiutava a fare il bagno, a vestirsi. Inoltre fu la sua prima maestra. Le insegnò a leggere, a scrivere e a far di conto.
Tra loro nacque un rapporto speciale.
Quando un’altra monaca portava Eleonora nella sua stanza, la piccola s’imbronciava e reclamava a viva voce la “sua” Cecilia.
S’impuntava la monella e riusciva ad averla sempre vinta.
Si abituò presto alle abitudini delle monache.
“Suona la campanella. È ora della preghiera. È domenica. C’è la Santa Messa. Dov’è il parroco?”
“Sono qui, Eleonora”, diceva il piccolo uomo vestito di nero.
“Ciao don Simone”, e correva a tirargli la barba.
“Piccola impertinente”, replicava lui fingendosi offeso.
La bambina trascorreva il lungo inverno tra le mura del convento.
Quando arrivava la bella stagione correva nel cortile dove svettava il ciliegio in fiore.
Era un tripudio di delicati petali rosa.
“Sono qui, Cecilia! Vieni a prendermi, se ci riesci”.
“Dove sei? Arrivo!”, rispondeva gioiosa la suora.
“Tira la palla”.
“Andiamo sull’altalena”.
“Si è fatto tardi. È ora di rientrare”.
“Altri cinque minuti, suor Cecilia”.
Il tempo trascorse veloce. La bimba festeggiò il sesto compleanno.
Cecilia le fece indossare un abitino fucsia, un paio di sandaletti nuovi, le raccolse i capelli in una treccia e la fece specchiare.
“Quella sono io? Che bella! Grazie Cecilia”.
“Andiamo di sotto a festeggiare”.
Suor Celeste aveva preparato una grande torta al cioccolato con ben sei candeline rosa. Le suore erano radunate nella saletta buona. Quando Eleonora fece capolino la accolsero con un applauso. C’era anche don Simone. La bimba gonfiò le guance e soffiò spegnendo tutte le candeline. Quindi espresse un desiderio: rimanere sempre lì. Quella era la sua casa. Il destino però aveva in serbo per lei altri progetti.
La madre superiora una mattina riunì le consorelle e, con fare grave, disse loro: “É giunto il momento. Eleonora ci deve lasciare. Ha bisogno di una famiglia, di un’istruzione, di una vita sociale”.
Suor Cecilia non disse nulla ma si sentì morire.
“C’è una coppia di coniugi che fa al caso nostro. Sono brave persone. Non possono avere figli”, continuò suor Teresa.
“Chi avvertirà Eleonora?”, chiese suor Celeste impallidendo.
“La saluteremo tutte insieme. Il distacco sarà doloroso ma inevitabile. Noi abbiamo fatto tutto ciò che era in nostro potere. Ora dobbiamo lasciarla andare”, Commentò decisa la superiora.
Quando venne il momento, fece cenno a Cecilia di preparare la piccola.
La monaca aprì le tende della cameretta.
“Forza pigrona. Sono le otto”, disse cercando di mostrarsi allegra ma non ci riuscì.
“Che cos’hai?”, chiese Eleonora che aveva imparato a leggerle dentro.
“Nulla. Alzati e vatti a lavare. Io intanto ti preparo il vestito da indossare”.
“Un abito nuovo? E una valigia? Dove mi portate?”, chiese impaurita.
“Farai un breve viaggio. Suor Teresa ti dirà tutto nei particolari”.
Eleonora ubbidì imbronciata, quindi scese le scale piano piano. Rifiutò la mano di Cecilia. Si sentiva tradita.
La madre superiora le parlò.
“Avrai una famiglia vera, andrai a scuola, conoscerai tanti bimbi della tua età. Sarai felice”,
“Non voglio andare via”, commentò la piccola scoppiando in lacrime.
“Non si può fare altrimenti”, replicò la suora.
“Voglio rimanere qui”.
“Non hai voglia di vedere cosa c’è là fuori. Ti attende un mondo nuovo, nuove esperienze. La vita è bella. Andrai finalmente a scuola. Conoscerai bimbi della tua età. Studierai, fari sport, avrai tante amicizie”, disse Cecilia.
“Ti sei stancata di me”.
“Non è vero, ma è ora che lasci il nido. Vola usignolo mio, non avere paura”.
“Non mandarmi via, ti prego”.
Fu straziante strappare Eleonora dalle braccia di Cecilia.
“Ti porterò sempre nel cuore”, sussurrò la suora rintuzzando le lacrime.
“Facciamo il tifo per te. Tornerai presto a trovarci”, disse suor Celeste.
Eleonora ebbe la fortuna di essere affidata si coniugi Alessandri, entrambi insegnanti. Dopo aver superato il doloroso distacco da colei che era stata sua madre per tutti quegli anni, la bambina si ambientò. Davide e Mirella furono genitori attenti.
Grazie a loro frequentò la scuola con ottimi risultati. Era curiosa, avida di sapere, di imparare sempre cose nuove.
Studentessa modello, fu iscritta al liceo classico.
Quando si diplomò ottenne il permesso di rivedere suor Cecilia. Quella radiosa mattina di luglio la ragazza prese la bicicletta e pedalò veloce fino al convento.
Il cuore le batteva forte.
Fu accolta con calore dalla madre superiora e salutò una a una le consorelle. Quando apparve suor Cecilia le volò tra le braccia.
“Ciao signorina”, disse la donna. Aveva gli occhi lucidi.
Trascorsero insieme due ore, a raccontarsi velocemente ciò che era accaduto in quei lunghi anni di lontananza.
Quando apparve la cuoca, suor Celeste, Eleonora capì che era finito il tempo. Fece una carezza a Cecilia e corse via.
“Addio figliola”, sussurrò la monaca.
La ragazza dai folti ricci biondi si iscrisse alla facoltà di medicina.
Conobbe Stefano, studiarono insieme con profitto. Presto si accorsero di essere innamorati. Furono costanti nel loro percorso formativo.
Lui divenne chirurgo, lei si specializzò in neuropsichiatria infantile. L’amore era sempre più vivo nei loro cuori. Quando decisero di sposarsi Eleonora volle presentare Stefano alle monache.
Mano nella mano s’inoltrarono nel cuore della città. Era una profumata mattina primaverile.
Le sorelle li accolsero con gioia. Eleonora si guardò intorno ansiosa. La madre superiora abbassò lo sguardo.
La giovane donna sgranò gli occhi stupita. Impallidì poi si riprese.
“Quando? Come?”, chiese con voce tremante.
“Due mesi fa. Il suo fragile cuore ha ceduto all’improvviso. Mi ha detto di consegnarti questa”.
Eleonora rintuzzò le lacrime e strinse forte a sé la lettera.
Era tutto ciò che le rimaneva di Cecilia.
Quindi volse lo sguardo verso il ciliegio in fiore.
Contemplò i delicati fiori rosa, così fragili da spezzarsi fra le dita.