Skip to main content

Giorno: 12 Settembre 2020

PRESTO DI MATTINA
La realtà e l’idea, ovvero l’asino nel pozzo

Scrive Chandra Livia Candiani: «Per anni, mi ha fatto paura la parola ‘realtà‘. Non per la sua insostenibilità, ma per la sua riduttività. La confondevo con razionalità, burocrazia, adulti, logica, scuola. Non c’erano alberi, né animali, non c’erano giochi, né fiumi. Poi, camminando sull’antico sentiero, ho scoperto che si può essere tessitori della realtà e che realtà significa anche ‘sogno’, profondissimo, smisurato, appassionato sogno. Ora la sbircio, ogni tanto mi immergo, galleggio, affondo. Sono cosa della realtà. Briciola di misteriosi legami, ogni nodo di realtà rispecchia tutti gli altri e la rete non ha fine, copre tutto quanto, non come un mantello, né come un cielo. Come un velo, che ri-vela», (Il sogno della realtà, in Il silenzio è cosa viva, Torino 2018, 65).

In breve: «saper stare nella realtà è l’autentico problema dell’uomo» (Xavier Zubiri 1898-1991), e costituisce il punto di partenza per interrogarsi sull’alterità che abita la storia: o meglio sulla presenza dell’altro, con il suo volto, il suo vissuto, nella storia di ciascuno. La realtà ci pone così davanti a una presenza che non è accessibile né indagabile solamente con il pensiero. Non bastano i ragionamenti, i sistemi filosofici o le analisi degli scienziati. Entri in dialogo con la realtà in modo autentico solo se l’interroghi e lasci che ti risponda; solo se ne divieni responsabile con tutto te stesso; solo se decidi di investirci la tua vita, anche a costo di perderla, per poi ritrovarla. Stare nella realtà significa allora, paradossalmente, uscire da sé per andare oltre sé stessi, immergersi in quella relazione che – come diceva Teresa d’Avila – ci chiama fuori, sino a raggiungere una condizione che, oserei dire, è generativa di esperienza mistica e martiriale nella misura in cui è profezia di autenticità di vita e s’identifica con colui a cui ci si dona.

L’amico fraterno Enzo Demarchi ci ha ricordato nel suo Diario che ci sono due modi di dare. Il primo non è diverso dallo ‘stare al balcone’: si assiste, magari partecipando interiormente, ma dall’alto di una distanza. Il secondo, quello che ci fa essere reali, non può prescindere dallo scendere in strada tra la gente, e farsi coinvolgere. «C’è il dare qualcosa, magari tutto; e c’è il dare sé stessi. Quando uno dà qualcosa ha ancora tempo e modo di vedere se stesso, di contemplare il bel gesto. Quando uno dà sé stesso non si vede più, non sa più ragionare di sé e del suo dono: è preso in una Realtà diversa che lo fa comunicazione trasparente. Invece di vedere se stesso, vede umilmente grato questa Realtà, ringrazia del Dono che lo crea donatore».

Nella misura in cui ci si fa carico, si entra in contatto ma pure ci si lascia prendere, ci si lascia portare dalle vicende degli altri. Lasciandosi legare con il destino altrui, si sperimenta così la forza di smascheramento e verificazione del reale, che introduce in un processo esistenziale e storico di riscatto e di liberazione. Ci s’incarna, per così dire, nella relazione. Occorre allora farsi carico, immergersi nella realtà della storia degli altri, quale unico modo per poterla veramente conoscere. Cos’è infatti la realtà? Non è altro che un vincolo, un legame, una ‘re-ligazione’ (X. Zubiri). È qualcosa che ci unisce a ciò che è altro da noi ma di cui facciamo inscindibilmente parte, tanto da essere, al contempo, noi e altro da noi.

Sotto questo profilo, dunque, la realtà eccede il nostro orizzonte. È qualcosa che si riceve prima di poterla elargire; non siamo noi a portarla per primi, ma noi portiamo la realtà che ci porta. E se è vero che l’intelligenza comprende dentro alla realtà, è altrettanto vero che le idee con cui la si esprime non superano la realtà stessa, perché essa, pur essendo legata all’atto del conoscere, è allo stesso tempo distinta in radice dall’atto che la comprende. Possono servire a chiarirlo meglio alcune espressioni ossimoriche – ovvero l’accostamento di due termini di senso opposto capaci di generare un paradosso di senso – come ‘intelligenza senziente’, che dice il vincolo tra una duplice modo di sapere, con l’intelletto e con i sensi. Ma anche l’espressione ‘cuore pensante’ rende plasticamente l’idea, restituendoci il modo più adeguato di situarsi nella realtà senza separarla dal pensiero, declinando insieme le differenti articolazioni del reale come pienezza e limite; unità e conflitto; totalità e parte; sapienza e profezia.

Anche se alquanto articolato, è questo, credo, l’orizzonte in cui comprendere il senso dell’espressione di papa Francesco secondo cui «la realtà è superiore all’idea. Questo implica di evitare diverse forme di occultamento della realtà: i purismi angelicati, i totalitarismi del relativo, i nominalismi dichiarazionisti, i progetti più formali che reali, i fondamentalismi antistorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza saggezza» (Evangelii gaudium 231).

Sullo sfondo di queste parole si coglie allora cosa si debba intendere, nel profondo, per realtà: è lo stesso dolore degli altri; il grido dei poveri e degli oppressi, che ci chiama a fare strada con loro, a stare e dimorare nel reale, così da partecipare alla sua forza sovversiva. Penso ai martiri della religione e della giustizia; a Maria nel Magnificat testimone di Colui che ha ribaltato le sorti, “ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, innalzando gli umili e ricolmato di beni gli affamati, rimandando i ricchi a mani vuote”.

Il teologo Johann Baptist Metz, presagendo il futuro del Cristianesimo in dialogo con il pluralismo religioso e culturale dei popoli, indica nella memoria della passione, e soprattutto nella con-passione, l’aprirsi di un nuovo cammino profetico per i cristiani. Il realismo dei testimoni smaschera nel tempo – il tempo, come sottolinea papa Francesco, è superiore allo spazio – le trame e le menzogne dei pifferai di turno. Egli ricorda come deve essere lo sguardo di coloro che guardano con fede a Gesù: identico a quello del maestro il quale si fece prossimo a tutti, rivestendosi della compassione del Padre in una vita e in una storia di povertà e di persecuzioni: «il primo sguardo di Gesù non fu diretto al peccato degli altri ma al dolore degli altri. Per Gesù il peccato rappresenta […] il rifiuto di partecipare al dolore altrui», (Memoria passionis. Un ricordo provocatorio nella società pluralistica, Brescia 2009, 153). La sua risposta all’altrui dolore fu prenderlo su di sé e farlo proprio, accollandosi il destino dei sofferenti e la loro storia come propri. Di qui la storia di un Dio di uomini, un Dio che risveglia alla realtà e sta in essa attraverso la compassione.

Jon Sobrino, l’unico superstite del massacro dei gesuiti dell’Università cattolica del Salvador UCA nel novembre 1989, ricorda il pensiero del rettore padre Ignacio Ellacuria, il quale interpretava le immense maggioranze povere del continente latinoamericano con la figura biblica del Servo di Yahvé, declinato al plurale come il popolo crocifisso. Un popolo che conosce il patire, senza “apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi”, disprezzato e reietto dagli altri, davanti al quale ci si copre la faccia. È il popolo crocifisso, capace di smascherare l’occultamento e la menzogna dell’anti-Regno, di indicarci la parte in cui si è posto il Crocifisso risorto e di tracciare, per chi crede sinceramente in lui, verso quale rotta va invertita la storia. Non possiamo infatti illuderci di annunciare Gesù dimenticandoci di coloro a cui, per primi, egli ha destinato il suo Regno (Mt 5,3). Senza star in loro compagnia, senza conversatio cum pauperibus – diceva Francesco d’Assisi – senza opzione preferenziale per i poveri restiamo ancora fuori dalla realtà (Cfr., La fede in Gesù Cristo, 347).

Il popolo crocifisso reclama un ribaltamento di sorte: un mutamento – si spera – che rovesci il cinismo dei senza pietà narratoci da una geniale storia Sufi: «Un giorno l’asino di un contadino cadde in un pozzo. Non si era fatto male, ma non poteva più uscirne. L’asino continuò a ragliare sonoramente per ore, mentre il proprietario pensava al da farsi. Infine, il contadino prese una decisione crudele: concluse che l’asino era ormai molto vecchio e che non serviva più a nulla, che il pozzo era ormai secco e che in qualche modo bisognava chiuderlo. Non valeva pertanto la pena di sforzarsi per tirare fuori l’animale dal pozzo. Al contrario, chiamò i suoi vicini perché lo aiutassero a seppellire vivo l’asino. Ognuno di loro prese un badile e cominciò a buttare palate di terra dentro al pozzo. L’asino non tardò a rendersi conto di quello che stavano facendo e pianse disperatamente. Poi, con gran sorpresa di tutti, dopo un certo numero di palate di terra, l’asino rimase zitto. Il contadino allora si decise a guardare verso il fondo del pozzo e rimase sorpreso da quello che vide. A ogni palata di terra che gli cadeva addosso, l’asino se ne liberava, scrollandosela dalla groppa, facendola cadere e salendoci sopra. In questo modo, in poco tempo, l’asino riuscì ad arrivare fino all’imboccatura del pozzo, oltrepassare il bordo e uscirne trottando» (Il silenzio è cosa viva, 57-58).

E mi rilasso

Seduta in spiaggia, ore undici e trenta, sto guardando il mare. E mi rilasso.
Davanti a me passa un ragazzo di colore sciancato, un ondeggiamento costante e immagino dolente. Lo ricordo, è lo stesso ambulante dello scorso anno. Raggiunge i suoi amici riuniti sotto l’ombrellone. Presso la riva è esposta la loro mercanzia, che ben pochi considerano.
Una signora indugia un’occhiata più lunga sulle borsette e subito un venditore le si fionda appresso. Lei fa per andarsene, ma lui la richiama “Signora! Signora!”. Lei nicchia, poi è costretta a fermarsi e inizia un dialogo a parole mozze e gesti. Lui è insistente, lei impiega almeno tre minuti per convincerlo che non ha bisogno di una borsetta, stava solo guardando, giusto perché ha gli occhi. È cortese, paziente, lui meno, si irrita e, quando lei riprende il cammino, le borbotta dietro nella propria lingua.
Il distanziamento tra le persone e gli ombrelloni è rispettato, anche qui in spiaggia libera, e c’è maggiore pulizia in generale. È piacevole. Peccato ci sia voluto il covid per ripristinare certe attenzioni.
È un venerdì poco affollato di luglio, come in un qualsiasi giorno della settimana che non sia sabato o domenica. Non so come sarà durante il week end.
Ci sono anziani, adulti, ragazzi, piccoli, tutti sparsi in un tempo dilatato e lento, scandito mollemente dalle onde del mare, in una giornata perfetta, né troppo calda né troppo ventilata.
Entro in acqua e vi cammino. Intorno, bambini alzano grida, si tuffano, sguazzano, a loro agio nell’elemento liquido. Tutti si divertono, pur mantenendo le distanze, si rasserenano, dialogando con altri, con se stessi. Un ragazzo e una ragazza amoreggiano, discreti: lui fa la voce grossa fingendosi geloso, lei sta al gioco. Sono bellissimi. Distolgo lo sguardo e mi allontano, accompagnata dalle loro voci, dai loro giochi. I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno… loro sono altrove… nell’abbagliante splendore del loro primo amore. Quando l’acqua mi arriva ai fianchi, il fondale diventa un susseguirsi di rialzi e buche infide. Piuttosto che rischiare una storta, mi immergo, nuoto, faccio “il morto”: il mare mi culla, mi accarezza, mi sostiene, slava i pensieri. Il cielo — mentre l’acqua ottunde le orecchie e intona suoni alieni — è un’immensità invitante. Poi risalgo a riva, mi siedo sulla seggiolina e mi rilasso.
Il vento scompiglia appena le frange degli ombrelloni, disperde i silenzi, le parole — anche quelle di due coniugi che si rimbrottano dandosi la schiena, uno perso tra le righe del quotidiano, l’altra con la faccia immusonita al sole. Mi lascio avvolgere da un torpore distensivo, sonnolento.
A breve distanza, un ambulante avanza lentamente, quindi alza la mascherina sul viso e si avvicina a una coppia di villeggianti. — Ciao, — saluta. A quella voce, l’uomo strabuzza gli occhi, balza dal lettino e si precipita in acqua, mentre la moglie corre invasata dalla parte opposta urlando: — Vai via! Altrimenti chiamo la polizia! Vai via! — Il ragazzo è sorpreso, interdetto, risentito, dice che sta rispettando il distanziamento fisico, che indossa la mascherina… Deve andarsene. Si allontana mugugnando, poi mi vede, si approssima, appoggia la mercanzia sulla sabbia e si siede a due metri da me. — Ciao, bella, hai visto? Non si può fare così. Non sono un appestato, — si sfoga in perfetto italiano. — Non ho fatto niente di male. Ho paura anch’io del covid. Se non vuoi comprare, mi dici di no e io vado via —. E continua a brontolare “che razza di gente! Non sono un cane! Un po’ di rispetto” mentre scrolla la testa. Mi stupisce l’ottima padronanza della lingua italiana, chissà da quanto tempo è nel nostro Paese. Gli rispondo che ci sono persone strane, certo spaventate. Lui replica che conosce le regole, che sta lavorando… — Non ho soldi, — puntualizzo, mettendo le mani avanti. — Non importa, — mi dice, con gli occhi arrossati sul viso d’ebano, — basta anche solo scambiare due parole. Ciao, bella! — E se ne va.
Insomma, al mare ci si rilassa, ripeto. Qualcuno già serra gli ombrelloni, lasciandoli sul posto, i lettini addossati, per il dopo pranzo. Altri sgomberano la loro postazione. La spiaggia è sempre più deserta, il frangersi delle onde passa e ripassa sulla battigia, si protende e si ritira, sottraendo, riportando, avvoltolando granelli lucenti, ipnotico.
Nulla di eclatante, tutto tranquillo, lontano dai soliti pensieri. E io mi riservo momenti di serenità che la vita nasconde nelle piccole cose di tutti i giorni, senza attendere che me li porga, perché non lo farà mai, destinati a chi se li conquista con l’urgenza di goderli, perché non si sa quanto possano durare. Allora me li vado a cercare, me li ritaglio, me li trattengo, me li spalmo addosso come un unguento miracoloso, una coperta di Linus, una carezza amorevole. Come un tesoro da cui attingere. Come per farmi un regalo, una miriade di piccoli regali.
E mi rilasso.

(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)