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Giorno: 11 Novembre 2020

PAROLE A CAPO
Noemi De Lisi: “La stanza vuota”

“La poesia non tollera ipotesi, ma solo l’evidenza dei miracoli.”
(Gianfranco Contini)

X

Mia madre aveva il vizio di mordersi le dita quando soffriva
le macchie rosse sulle mani erano il suo rimprovero, la mia colpa.
In inverno la casa era fredda e tremava sotto i diluvi crollandoci addosso
lei indossava i guanti di lana: “Ho le mani di un cadavere” si lamentava.
In quella stagione mai potevo sapere del suo dolore e mi tormentavo.

Così per calmarmi prendeva le vecchie lettere del nonno e me le leggeva
la carta sembrava disfarsi sotto i suoi occhi, la voce era lenta e lontana.
Cominciavano tutte con: “Mia adorata!” parlavano di guerra, di strani pensieri:
“tornerò, non stare in pena. Tu continua a parlarmi anche se non mi vedi”
“tu sei intatta e bianca come un foglio. Su di te rimango come una firma”
“mi sono ferito a una gamba. La cicatrice non si vede ma ora zoppico”.
Una volta le sfilai via le lettere dalle mani inguantate e le feci a pezzi:
“Le so a memoria, non le sopporto più!”.
Lei guardò i brandelli caduti sul pavimento, strizzò la faccia in un sorriso:
“Hai ragione. Avevano stancato anche me”.

La sera poi si addormentò e io accanto al suo letto non mi davo pace
guardavo le mani di lana, sembravano finte non sembravano sue
e sotto le immaginavo sane, bianche perché lei non mi aveva mai mentito.
Quando il suo respiro fu profondo, lentamente cominciai a sfilare un guanto
lo tirai via: per primo apparve il polso poi il resto, la mano nuda, gelida.
E sul dorso, sul palmo, le dita erano livide, rosse come dopo un lungo applauso.
(Dalla sezione “Io e mia madre”)

 

XIV

Mi ricordo di ogni cosa se la scrivo: Ti ho riconosciuta, Anna. Eri tu.
Tu vivi nelle lettere del tuo nome, e il colpo di polso accanto alla frase
è il punto che ho dato, il segno dove tu finisci, dove io dimentico.

Ogni giorno ti salutavo, mi presentavo come la prima volta: “Mi chiamo così”.
E tu mi tiravi i capelli, mi mordevi la faccia, mi chiamavi bestia, piangevi.
“Perdonami”, ti dicevo, e tu scuotevi la testa, sconvolta, esausta, inorridita.
Non sapevo più dirti come avessi dimenticato tutte quelle cose:
le mie parole sulle tue mani, la cicatrice sul mento, il nome di tua madre.
Non potevo dirti: “È vero, ti ho scordata.”

“Devi sempre farmi arrabbiare. Ma è tutto uno scherzo… non è vero?”
“È tutto uno scherzo”, ripetevo sfregando i denti.
E tu mi sorridevi arrossita, sospirando lenta una mano sul petto.

Tornavo a casa, e quando mia madre si addormentava, accendevo il lume.
Cominciavo a premermi l’unghia dell’indice sul braccio, sul petto, sul collo;
facevo dei piccoli graffi ordinati: quando passavo il dito erano bianchi, poi rossi.

Lo facevo quando ero solo, anche se era un dettato e tu la voce.
I segni formavano delle parole, più premevo, più rimanevano: Anna sei tu.
Era il tuo nome per dirmi ogni volta, il tuo nome al posto del mio.
(Dalla sezione “Io e Anna”)

 

XXVI

Accendevamo le sigarette all’unisono in un gioco di fumo
e sputavamo per terra i pezzi di tabacco rimasti in bocca,
lo facevamo con gesti molli, in silenzio, ricordandoci.
C’era un lamento da soffocare in fondo alla calma:
“Ti ricordi quando ci raccontavamo tutte quelle cose?”
“Lo stai facendo di nuovo. Stai muovendo gli occhi in modo strano.”
“Scusa. Non me ne rendo conto. È così brutto da vedere?”
Ci sforzavamo di ricordare da dove venisse quel rumore,
ci spogliavamo a vicenda per cercarne i segni e rimanevamo delusi.
A ricordare, ci sembrava di inventare qualcosa che non era stato,
eppure quel tonfo era vero: scendeva, ci attraversava, ci finiva.
E buttavamo gli occhi a terra, ci chinavamo, ci graffiavamo le dita
per raccoglierlo. Nello slancio di quella ressa ci toccavamo
per sbaglio, per non perdere quello che avevamo lasciato.
Ed era nel tocco improvviso l’urto di tutta la nostra storia:
“Ti ricordi di quando stavi per cadere e ti ho preso?
Per afferrarti, ti ho slogato un braccio,
tu hai gridato e mi sono spaventato.
Ti sei rannicchiato sul marciapiede,
tenevi il braccio storto vicino al petto.
Mi sono chinato per sederti accanto.
Non dicevi niente, siamo rimasti muti,
tanto non avremmo potuto parlare
con tutto quel rumore addosso.”
(Dalla sezione “Noi”)

Poesie tratte da “La stanza vuota” (Ladolfi Editore, 2017)

Noemi De Lisi (Palermo, 1988)
Nel 2017 ha esordito con la raccolta di poesie “La stanza vuota” (Ladolfi Editore) vincitrice del Premio Solstizio Opera Prima, menzione speciale della giuria al Premio Città di Acqui Terme e al Premio Under 35 Terre di Castelli, finalista ai premi Carducci, Cetonaverde, Maconi, e altri. Le sue poesie e prose poetiche sono apparse su Nuovi Argomenti, Blog RAI Poesia di Luigia Sorrentino, Poetarum Silva, Formavera, Atelier, ecc. https://linktr.ee/noemidelisi

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia.
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I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Tanto per cambiar…

A due piazze fra Riccarda e Nickname che si è accorto di avere cercato di cambiare l’altro. Un errore di cui ammette tutto, anche la difficoltà di cambiare se stesso. Ma poi, dal dolore si può uscire?

N: Uno degli errori che ho commesso è stato cercare di cambiare la persona con cui stavo. Le persone sono come sono. Non siamo noi, per quanto importanti, che possiamo cambiarle. Tanto meno farle diventare come noi o come noi vorremmo che fossero. L’impronta non la diamo noi. Noi arriviamo dopo. È più facile cambiare noi stessi che cambiare gli altri, e già cambiare noi stessi è difficilissimo.

R: Ribalta la cosa. Come ti sei sentito quando qualcuno ha provato a volerti diverso? O magari solo chiederti un ritmo più veloce di quello a cui tu solitamente viaggi? Tu hai risposto che le cose le vuoi fare con i tuoi tempi e le tue cadenze perché solo così puoi riuscirci. E non sei cambiato perché qualcuno te lo ha chiesto, ti sei trovato a un certo punto della vita a guardare indietro e ti sei visto lontanissimo. Ma non lo sai nemmeno tu quale sia stato il punto esatto del cambiamento. Non è definibile, è un processo di cui il motore sei tu. Non ho capito una cosa, cosa vorresti cambiare nell’altro? Un atteggiamento, un’abitudine, una risposta che sei stanco di sentire, cosa?

N: Non vorrei cambiare nulla, tranne il fatto di voler cambiare l’altro. Cerco di imparare dagli errori commessi. Quanto a me stesso: se mi guardo indietro mi vedo lontano da dove sono ora. Sono cambiate le mie aspettative, i miei desideri. Prima volevo uscire dal dolore, adesso voglio provare anche il piacere.

R: Credi si possa uscire dal dolore a piè pari come da una buca o da un inciampo? Una giravolta e si è saltati fuori? Se così fosse, il dolore stesso non avrebbe un senso che è quello di rimanerti sempre un po’ addosso, ma non tanto, solo nella forma di un ricordo, di un monito o di un odore sgradevole che ti fa cambiare direzione.

Cosa ne pensate della pretesa di cambiamento che avete subito dagli altri o che vi siete accorti di fare verso qualcuno?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com