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Giorno: 18 Aprile 2021

mario_miegge

C’era una volta Magistero

 

Il libro Ibridi ferraresi continua a sollecitarmi ricordi, spero di interesse non solo personale.
Si sottolinea l’assenza dell’Università nella riflessione sui processi di trasformazione urbana e sociale che investono Ferrara dal dopoguerra agli anni Settanta.
“C’era il Magistero che era molto modesto” dice giustamente Varese. “Quasi tutte le persone che hanno lavorato come docenti al Magistero sono morte”, annota Scandurra. “Le persone che hanno fatto il Magistero sono morte: Miegge, Magri, Carabelli, Walker”, ribadisce la Zanotti. Bene ho fatto dunque a resistere alle proposte – mi hanno molto lusingato – di Miegge, per rendere più stabile la mia collaborazione di semplice ‘cultore della materia‘. Sulla costituzione ed i primi tempi di Magistero qualcosa, tuttavia, posso dire.

Gli enti locali non danno solo un magro contributo economico, pensano e rendono possibile la realizzazione. L’Università di Ferrara ha una lunga storia. È Università della casa d’Este, poi Università pontificia, quindi Università libera, retta da una commissione di nomina comunale. È divenuta statale dall’anno accademico 1942-43 con intitolazione a Italo Balbo: corsi di laurea in Giurisprudenza, Medicina e Chirurgia, Farmacia, Scienze Matematiche e Fisiche, Chimica, Scienze naturali e biennio di Ingegneria. L’interesse degli enti locali per l’Università, anche dopo la statizzazione, non è mai venuto meno. In particolare nel dopoguerra, su impulso del Comune capoluogo e della Provincia si costituisce il Consorzio fra Enti Pubblici Locali della Provincia di Ferrara per il potenziamento dell’Università degli Studi. Negli anni Sessanta è presieduto dal prof. Amleto Bassi e io ne divento segretario, succedendo al dr. Besini, segretario pure della Provincia, da tempo in pensione.

Il Presidente orienta con decisione l’attività del Consorzio a un unico scopo: realizzazione di una Facoltà che sia un contributo ‘umanistico’ nel quadro universitario presente, elemento di formazione e supporto all’attività educativa, stimolo e ricerca sui servizi pubblici in trasformazione. Magistero appare un obiettivo possibile e condiviso. Ricordo un colloquio, per me interessante e incoraggiante, avuto al riguardo con Luigi Amirante, forse allora preside della facoltà di Giurisprudenza, ma certamente il docente che mi ha fatto appassionare al diritto e alla storia. Ricostruendo le circostanze dell’incontro direi fosse il 1966. Anche dopo la laurea mi avviene di frequentarlo. Ci vediamo a Teatro, alle mostre d’arte. Mi incoraggia alla lettura di Nord Sud, a me nota dagli anni del Liceo, e mi suggerisce una rivista, che non conosco, Il Mulino.
Il mio ruolo nel Consorzio è stato di puro segretario-burocrate: verbali e bozze di convenzione. Bassi ha gestito direttamente i rapporti con Giorgio Spini, che ha dato l’impronta al Magistero.
Tra Spini e Miegge, giovane Preside, hanno realizzato un Magistero che, nelle condizioni date – nozze con i fichi secchi – ha fatto miracoli e si è subito posto come uno dei centri di cultura più vivi in città. “La convenzione istitutiva assegnava alla facoltà cinque cattedre: sette assistenti di ruolo e sette incarichi interni, cioè solo in parte retribuiti… abbiamo dovuto far funzionare cinque istituti e due corsi laurea”, ricorda Miegge. Le lauree sono in Materie letterarie e Pedagogia. E qui non posso non ricordare una straordinaria e vivente pedagogista: Egle Becchi. Quando lascia la facoltà rimangono gli assistenti Annalisa Pinter e Carlo Pancera, divenuti pienamente ferraresi. Ferrarese si è fatto pure Mario Miegge, come Sandro Cardinali e Marco Bertozzi, venuti al suo invito. Non ricordo se il Consorzio abbia con quella realizzazione esaurito la sua funzione. Certo io non me ne sono più interessato. Ho conosciuto Miegge appena giunto a Ferrara, ma non a Magistero, nell’impegno politico, che ho scoperto comune.
Magistero ho però cominciato a frequentare, fin dalle fasi iniziali, su richiesta di Alberto L’Abate, fiorentino, da me conosciuto nel piccolo tenace Movimento nonviolento promosso da Aldo Capitini. Incaricato di Sociologia dell’educazione mi chiede di collaborare. Opere generali di sociologia ho letto fin dal Liceo, su sollecitazione di Paolo Farneti, federalista, allievo di Bobbio, uno scienziato della politica. Sto per iniziare l’attività di assessore alla Pubblica Istruzione a Ferrara, dopo un’esperienza a Codigoro, nel basso ferrarese. Anche per questo accetto volentieri. Collaboro per una decina d’anni, sostituendo il professore in un suo anno sabbatico. Sono anni importanti per me e – mi dicono ancora allieve ed allievi di allora – non solo per me. Nuove amicizie – per restare solo ai primi incontri e non far torto ad altre che sono venute poi – come Carlo Carabelli, vecchie amicizie apparse sotto un diverso profilo, come Sandro Roveri, si spengono con la lontananza e la morte.
Sociologia dell’Educazione è il solo insegnamento di carattere sociologico. Perciò nei seminari largo spazio è dato alle metodologie: causale, strutturale, funzionale, processuale. L’Abate prospetta un modello in cui conflitto e cooperazione coesistono: “equilibrio instabile”.
– Ti ci sei troppo identificato – gli dico io, quando soffre di crisi di vertigine. Conduciamo seminari e ricerche multidisciplinari, soprattutto con Mario Miegge, filosofo e preside della facoltà, Egle Becchi, pedagogista straordinaria e Claudio Greppi, geografo e non solo. I temi sono soprattutto quelli dell’esclusione sociale. Ricordo i seminari di carattere metodologico o sull’esclusione nei suoi vari aspetti, sulla devianza, sulla riforma degli Ospedali Psichiatrici, sull’abbandono scolastico… Ricordo pure le ricerche sulla scuola dell’infanzia, materne e nidi, sulla trasformazione urbana, sulla nascita delle periferie…
Poi c’è tutto l’impegno per le 150 ore, all’Università. Un’attività aggiuntiva, volontaria, straordinaria, con l’esempio trascinante di Miegge e il rapporto con i Consigli di fabbrica. Per me è il coronamento delle iniziative diffuse nei quartieri, dedicate al recupero dell’obbligo scolastico e all’ottenimento del diploma di terza media. Qui siamo già nel ’72/’73. I lavoratori entrano nelle scuole e null’università e con i lavoratori parliamo nelle loro sedi. Ricordo una sera, su invito del Consiglio di fabbrica della Montedison, vado a un’assemblea dei lavoratori per illustrare le diverse iniziative in atto. Alla portineria mi dicono che non posso entrare. Dico di avere un appuntamento al quale non posso mancare e mi denuncino pure, come minacciano di fare. Un rappresentante del Consiglio, forse Barioni, arriva e rientro con lui. Non ho memoria dello svolgimento dell’assemblea. Mi resta solo il calore e l’attenzione. Calore e attenzione si sono spenti, non solo a Magistero. O forse, come spesso capita ai vecchi, ho bisogno ce ne sia di più per accorgermene.

Foto nel testo: Università di Ferrara, la facoltà dell’Ex Magistero, sede attuale della biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia (foto di Valerio Pazzi)
In copertina: il professor Mario Miegge, preside di Magistero.

 

Ministero della Transizione o della Finzione Ecologica?
Una rete sociale diffusa scrive un piano alternativo

 

Finalmente  anche l’Italia si è dotata di un Ministero della Transizione Ecologica. Tutta una serie di fatti, però, mi fanno venire il dubbio se non siamo, invece, di fronte ad un Ministero della Finzione ecologica.
Intanto, qualche giorno fa, è arrivata l’approvazione della Valutazione di Impatto Ambientale per 11 nuovi pozzi per l’estrazione di idrocarburi, di cui ben 7 in Emilia-Romagna. Tempo addietro è stato deciso di prevedere una procedura semplificata per l’autorizzazione all’ipotizzato CCS di Ravenna, che dovrebbe diventare il più grande impianto di cattura e stoccaggio della CO2 in Europa, con cui ENI intende utilizzare i propri giacimenti di gas a largo della costa ravennate per immettervi la CO2 proveniente da processi industriali o dai suoi stessi impianti, prolungando così il ricorso alle fonti fossili, mentre, sempre a Ravenna, il Progetto Agnes, basato sulle rinnovabili, potrebbe entrare in funzione nel 2023, ma tale data rischia di andare più in là proprio per i lunghi tempi autorizzativi.
Forse qualcuno potrebbe pensare che sono elementi di dettaglio, tutt’ al più segnali inquietanti, ma circoscritti. Se, però, alziamo lo sguardo a ciò che si sta predisponendo sul Recovery Plan, e, segnatamente, sulla missione Rivoluzione verde e transizione ecologica”, le preoccupazioni aumentano ulteriormente. Su questo punto, il lavoro è ancora in corso, il governo Draghi sta rimettendo le mani all’elaborazione del precedente piano, ma, da quanto è dato conoscere, si sta andando in una direzione negativa, che sa molto di ‘greenwashing’ ed è poco attenta e utile per affrontare seriamente il problema del contrasto al cambiamento climatico e di un passaggio forte verso le energie rinnovabili e a un nuovo modello di produzione e consumo energetico.

Il materiale a disposizione è abbastanza complesso e lì non si esplicita una strategia chiara, al di là delle risorse significative a disposizione (circa 70 miliardi di €, che potrebbero persino lievitare attorno agli 80, su un totale di circa 220  miliardi dell’insieme del Recovery Plan). Ci ha pensato, però, qualche giorno fa, in un’intervista su Repubblica,  il neoministro alla Finzione ecologica Cingolani a chiarire il tutto [Vedi qui], sostenendo che la transizione energetica si appoggerà sull’utilizzo del gas, in ossequio ai piani dell’ENI, e che poi, con il 2050 si potrà pensare alla fusione nucleare.
Ora, una simile ipotesi significa allungare la vita all’utilizzo delle fonti fossili, com’è anche il gas, ritardare il passaggio alle energie rinnovabili e, soprattutto, non porsi il tema decisivo, che è quello di puntare all’ autoproduzione e al consumo distribuito consentito da queste ultime, superando un’opzione di sistema centralizzato e tendenzialmente autoritario, quello che deriva appunto dall’utilizzo delle energie fossili e del nucleare.
Né si può stare più tranquilli, esaminando, sempre all’interno della missione “Rivoluzione verde e transizione ecologica”, quanto previsto a proposito di tutela del territorio e della risorsa idrica. Qui, oltre alle poche risorse indicate (complessivamente  circa 15 miliardi, ma di cui 10 già previsti, per un saldo quindi di circa 5 miliardi, mentre si stima che solo per una serio Piano di contrasto al dissesto idrogeologico ce ne vorrebbero 26 nell’arco di diversi anni), viene riproposta, anzi rafforzata, un’idea di ‘riforma’ degli affidamenti del servizio idrico per favorire la completa privatizzazione dello stesso, in particolare nel Mezzogiorno, dopo che nel Centro Nord già la fanno da padrone le grandi multiutilities quotate in Borsa, IREN, A2A, HERA e ACEA. Sarebbe, proprio a dieci anni dai referendum sull’acqua, la definitiva certificazione dell’annullamento della volontà popolare, dopo che essa è stata già fortemente disattesa in questi anni.

Il quadro non è molto migliore nella nostra Regione
In Emilia Romagna, nel dicembre scorso, si è giunti alla definizione del Patto per il Lavoro e il Clima, sottoscritto, oltre che dalla Regione, da diversi altri soggetti, dalle Associazioni di impresa ai sindacati confederali, da Legambiente ai Comuni capoluogo e altri ancora.
Chi non l’ha sottoscritto è stata la Rete regionale per l’Emergenza Climatica e Ambientale (RECA), nata da circa un anno e che per la prima volta è riuscita a raggruppare in una visione comune 76 tra Associazioni e Comitati regionali e territoriali che intervengono, da vari punti di vista, sui temi del contrasto al cambiamento climatico, della conversione ecologica e della difesa dei Beni Comuni.
RECA ha deciso di non firmare perché quel Patto non rappresenta la svolta necessaria per mettere in campo politiche adeguate per affrontare proprio questi ultimi temi. Infatti, al di là degli obiettivi generali individuati – il passaggio alle energie rinnovabili al 100% in Regione entro il 2035 e l’azzeramento delle emissioni climalteranti entro il 2050 –  che possono essere condivisibili, in realtà nel Patto per il Lavoro e il Clima non sono definiti i tempi e gli interventi che dovrebbero portare alla loro realizzazione, né gli impegni da mettere in atto in questa direzione già in questa legislatura.
Di fatto, si continua a tacere, il che vuol dire continuare ad andare avanti lungo scelte che contraddicono quegli obiettivi, come il forte ricorso a grandi opere stradali e autostradali, il ricorso massiccio ad aree dedicate alla logistica senza affrontare la questione del consumo di suolo che ciò determina, il via libera al Centro di Cattura e Stoccaggio (CCS) di Ravenna.
Quest’ultimo progetto è una scelta sbagliata; il CCS è infatti basato su tecnologie costose e non ben verificate, di fatto alternativo al ricorso rapido alle fonti rinnovabili, un vero e proprio tentativo di mettere sotto la sabbia la CO2 emessa anziché evitare di produrla.
Ancora, non ci sono scelte convincenti e coraggiose su diversi punti: solo per esemplificare, non c’è cenno alla ripubblicizzazione del servizio idrico, proprio quando potenzialmente si apre questa possibilità a Bologna con la scadenza della concessione a Hera alla fine di quest’anno. Manca una politica che punti fortemente alla riduzione dei rifiuti prodotti e al loro riciclaggio, così come al superamento degli inceneritori, mentre non sono indicati forti investimenti sul trasporto pubblico e per la riduzione significativa del parco automobilistico privato.
Insomma, per tutto un’insieme di valutazioni, la Rete regionale per l’Emergenza Climatica e Ambientale ha deciso di scrivere il proprio “Patto per il clima e il lavoro” [per leggere il Patto di RECA clicca Qui], un piano alternativo a quello elaborato dalla Regione e sul quale si intende aprire un confronto vasto con le persone e nella società regionale.
Sono davvero tante le realtà e le intelligenze collettive che lavorano per disegnare una reale transizione e conversione ecologica, per la difesa e la valorizzazione dei Beni Comuni. sia a livello territoriale che nazionale: una prospettiva sempre più necessaria per il mondo che viene e che dobbiamo costruire.

PER CERTI VERSI
Tempo da lupi

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

TEMPO DA LUPI

I lupi
Se ne sono andati
Coi loro occhi
Smeraldi
Ci hanno
Ipnotizzati
Andati
In branco
Dispersi
Nell’infinito bianco
L’odio è rimasto
Verso le pecore
La paura
Pure
È rimasto il tempo
Dei lupi
Alto
Distinto
Greve
È rimasto solo lui
A profumare di neve