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Giorno: 15 Luglio 2021

DIARIO IN PUBBLICO
E alla fine… basta!

 

Mentre la parete di alberi col suo fiato profumato mi avvolge fino dentro la camera, qui a Vipiteno, penso e constato che ormai la mia ricerca per capire l’umore degli italiani medi, le loro richieste, i loro idoli, le loro preferenze, ormai è finita.

Non più a sentire l’umidore dei pensieri di zia Mara, non più a contemplare le unghie laccate delle mani tozze di Al Bano nella sua divisa pseudo chic tra cappello, sciarpetta, e giacchetta vip; non più la seriosità esibite nelle dichiarazioni calcistiche nel frattempo sconfessate dall’urlo bestiale dei tifosi; non più a contemplare l’abbraccio decisamente non odoroso degli idoli d’oggi, convulsamente attenti a reiterare gli scaramantici gesti della loro avventura milionaria.

Si tenta di spacciare il fisico di Maldini con riferimenti erotici non indifferenti. Perfino il capo di Stato si piega al rito e al mito del calcio. Ed io alle 11 di sera, assistendo alla cerimonia di chiusura del premio Strega, mi commuovo ancora sentendo la serenità raggiunta, la qualità altissima del pensiero di Edith Bruck [Qui], la sua immensa umanità espressa in parole; quegli occhi che hanno visto e condiviso l’orrore e hanno saputo trasformarlo in dialogo, in una totale trasformazione in eticità e amore.

Ma qualcosa succede. Incuriosito dalla frettolosa cena di gala, che di solito conclude la settimana nell’hotel Zum Engel, dal frettoloso sparire degli ospiti, risalgo in camera e spingo il pulsante e m’immergo nei momenti conclusivi della partita del secolo. Non l’avessi mai fatto! Mi lascio trascinare dalle prodezze dei campioni e, per la prima volta in vita mia, vengo travolto dall’eccitazione comune.

Guardo intanto con altrettanto ribrezzo le scene mostruose che accompagnano e commentano la vittoria; sghignazzo a più non posso agli osceni strafalcioni, che vengono propinati dai commentatori. Uno per tutti. A piazza del Popolo a Roma l’eccitatissimo cronista urla come sia commovente accompagnare assieme le note “dell’inno dei  Mameli” tutti assieme!

Nella Repubblica di lunedì 12 luglio l’editoriale di Ezio Mauro così commenta: “Ancora una volta scopriamo che lo sport veicola ed esalta il sentimento nazionale come se fosse diventato l’unica espressione ancora capace di generare e legittimare democraticamente lo spirito patriottico”.

Da questo spunto invece di elaborare la recensione attesa e complessa dell’ultimo volume della scrittrice ebraica Natasha Solomons [Qui], I Tunderbaum, mi dedico all’analisi dei festeggiamenti e degli inviti al Quirinale e a Palazzo Chigi dedicati da Mattarella e Draghi alla nazionale vittoriosa e al fascinoso Matteo Berettini. E capisco che ormai senza lo sport è impossibile governare. Mi si stringe il cuore; ma così sembra debba intendersi la funzione dello sport nella totalità dei governi d’ogni tipo.

Mentre di ritorno dal Castello di Ambras ad Innsbruck [Qui], travolto dalle meraviglie guerriere di Ferdinando II, dalla Wunderkammer con le sue mostruosità fascinose, dai personaggi della nostra storia tra cui lo splendido ritratto del duca ferrarese Alfonso II e della sua sposa Barbara d’Austria, dal giardino segreto e dal pavone che urla la sua bellezza passeggiando tra le aiuole, capisco che ‘forse’ lo sport ha sempre dominato come esercizio del potere (e si veda il Gigante di Ambras che, novello Gigio Donnarumma, imponeva le sue mostruose fattezze nelle collisioni tra eserciti).

Peter e Delberta sono contenti del mio stupore e questa giornata speciale si conclude con il più spaventoso temporale a cui abbia mai assistito, mentre lo scenario delle abetaie e pinete che alzano la coda del meraviglioso abito da ballo che indossano e che indolentemente rivela cime e montagne che lasciano senza respiro.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Parole a capo
Francesco D’Angiò: “Il fotografo del campo” e altre poesie

“La poesia non è fatta di queste lettere che pianto come chiodi, ma del bianco che resta sulla carta.”
(Paul Claudel)

Il passamano

Del freddo che io sento
non ti rammaricare,
a quest’ora è dolente anche il sole.
Mi aggrappo ad un vecchio passamano
che conosce tutte le mie ossa,
e vacillo quel che basta a ricordare una carezza.
Erano i giorni agguantati,
dove tu giungevi a sorprendermi di tenerezza
sul sottile confine
tra le promesse ed i fallimenti,
nell’attesa di un continuo congedarsi.
Avrei dovuto leggere di più,
ma vorrei che mi parlassero ancora
di quanta gioia c’è nelle rinascite
che tardano ad arrivare,
ora che ho denti poco curati
e cianfrusaglie in cassetti chiusi.

L’attesa

Sono più spesso in attesa
che mi torni l’infanzia
caduta dal nido,
la vecchia data che scrivo
su per la cicatrice rimarginata.
Ho contato tante madri,
ed una la mia, che ancora
mi perdona.
Nei tanti cieli
che sono come gli anni,
si aprono e chiudono i giorni,
e faccio ritorno dopo aver riposto le mani
poco prima di dormire,
mani che hanno accarezzato i sogni
che ho lasciato partire.
Ma ancora alcuni soggiornano
davanti ad una porta
difettosa di serratura,
e con la coperta sulle spalle ad agosto,
riportano una fantasia non reperibile
all’indirizzo normalità.
Porrei sulla mia testa anche l’attesa del nulla,
la più puntuale di tutte.

Il fotografo del campo

Mi fischia un orecchio
ed il nome non è
sulla scatola dei biscotti,
ma nel dito sottratto
all’indicazione del cielo,
nella foto ufficiale
senza carne,
nel gruppo sanguigno
del dolore.
Il compito svolto
è dimenticare.
Allo scatto, ci fanno la fossa
che non occupa spazio,
andremo diretti dalla colpa
al monumento che ci solleva tutti.
Siamo finiti per caso
nel turno che ci espande
fino alle risposte che vi darete,
chiedete pure senza fare domande.
Prendete pure, i chiodi sono già
negli assi, e non c’è farina
che alteri il vento,
mi metterò in posa
fino a che non svengo,
verrò bene nell’aria
somigliando alla consistenza di Dio,
nella quiete dell’orto,
inutile quanto basta.

Testo N.18

Ci sono cancelli che non voglio aprire
come foglie che voglio far risalire,
come molliche da dare ai piccioni
che non mi fanno sentire triste,
che non esistono nelle mie tasche.
Ogni passata stagione
è vestita con gambe accavallate
e pomeriggi lunghi
mischiati al sole alto delle finestre,
con cantilene senza memoria,
con la frutta fresca nella cesta
ed i sentiti omaggi
alle visioni di pochi,
quando volano fin dove
le risposte restano personali.
Toglieteci ogni strumento
che possa ferirci,
e noi ci faremo trovare
pronti lo stesso,
a farci benedire con la pelle d’argento
che sostituisce la luna.

Francesco D’Angiò, nato a San Vitaliano (Na) nel 1968, sposato e residente a Matera. Nell’ottobre 2020 pubblica per la casa editrice Planet Book il romanzo dal titolo Lo sconosciuto. È in attesa di pubblicazione la sua prima raccolta di poesie a cura della casa editrice “Edizioni tripla EEE”.

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Robert Doisneau, il più bel bacio della storia della fotografia:

Il più bel bacio della storia della fotografia? Impossibile stabilirlo.
Ma è certo che un posto sul podio spetta all’immagine della  giovane coppia, indifferente alla folla dei passanti e al traffico della place de l’Hôtel de Ville di Parigi.
L’autore è Robert Doisneau, il grande maestro della fotografia cui Palazzo Roverella renderà omaggio nell’autunno 2021 attraverso una mostra originale, capace di rivelare al pubblico delle opere la cui vocazione è, appunto, catturare momenti di felicità come questo.

Insieme a Henri Cartier-Bresson, Doisneau è considerato uno dei padri fondatori della fotografia umanista francese e del fotogiornalismo di strada. Con il suo obiettivo cattura la vita quotidiana degli uomini e delle donne che popolano Parigi e la sua banlieue, con tutte le emozioni dei gesti e delle situazioni in cui sono impegnati.
Questa mostra a Palazzo Roverella abbraccia la sua opera senza distinzioni cronologiche né alcun criterio di genere o tema, affiancando fabbriche, banconi di bistrot, portinerie, cerimonie, club di jazz, scuole o scene di strada in generale. Che si tratti di fotografie realizzate su commissione o frutto del suo girovagare liberamente per Parigi, vediamo delinearsi uno stile impregnato di una particolare forma mentis, che traspare anche nei suoi scritti e nelle didascalie delle foto; uno stile che mescola fascino e fantasia, ma anche una libertà d’espressione non lontana dal surrealismo. Se lo stile è l’uomo (come dice Buffon), allo stesso modo la fotografia si identifica con alcuni dei suoi soggetti per esprimere una sorta di inquietudine o malinconia.
Un racconto – quello proposto dal curatore di questa mostra, Gabriel Bauret – condotto attraverso 130 stampe ai sali d’argento in bianco e nero, provenienti dalla collezione dell’Atelier Robert Doisneau a Montrouge. È in questo atelier che il fotografo ha stampato e archiviato le sue immagini per oltre cinquant’anni, ed è lì che si è spento nel 1994, lasciando un’eredità di quasi 450.000 negativi.

Quello di Doisneau è un raccontare leggero, ironico, che strizza l’occhio con simpatia alla gente. Che diventa persino teneramente partecipe quando fotografa innamorati e bambini.
“Quello che cercavo di mostrare era” – ricorda l’artista – “un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere. “

“Mi piacciono – continua – le persone per le loro debolezze e difetti. Mi trovo bene con la gente comune. Parliamo. Iniziamo a parlare del tempo e a poco a poco arriviamo alle cose importanti. Quando le fotografo non è come se fossi lì ad esaminarle con una lente di ingrandimento, come un osservatore freddo e scientifico. È una cosa molto fraterna, ed è bellissimo far luce su quelle persone che non sono mai sotto i riflettori.” “Il fotografo deve essere come carta assorbente, deve lasciarsi penetrare dal momento poetico. La sua tecnica dovrebbe essere come una funzione animale, deve agire automaticamente.”

Doisneau nasce nel 1912 nel sobborgo parigino di Gentilly. La sua formazione come fotografo nasce dall’apprendistato nel laboratorio di un fotografo pubblicitario. Ma la sua attenzione si trasferisce presto ai quartieri popolari di Parigi e della banlieue, immagini che cominciano a comparire sulle riviste attraverso l’agenzia Rapho, di cui è uno dei membri più importanti. Poi la guerra lo spinge a mettersi a disposizione della resistenza per dare nuova identità ai ricercati. Dopo la Liberazione, ecco alcuni reportages per “Vogue” e nel ’49 il libro realizzato in collaborazione col suo sodale, il celebre scrittore Blaise Cendrars, La Banlieue de Paris, la prima sintesi dei molti racconti per immagini che dedicherà a questo mondo. Doisneau ne descrive la quotidianità, componendo un racconto visivo in cui si mescolano una profonda umanità e una nota di umorismo, sempre presente nel suo lavoro.