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Giorno: 17 Luglio 2021

PRESTO DI MATTINA
Matteo, lo scriba discepolo

 

«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo… Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un capofamiglia che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13, 44; 51-52).

Con questa nota in forma di parabola Matteo chiude il terzo discorso di Gesù, quello in parabole appunto. Nel discorso della montagna Gesù compie la rivelazione di Dio e della sua Parola, annunciando il Regno, il suo esserci, la sua prossimità agli uomini e alle donne delle beatitudini. Nel secondo discorso, detto missionario, l’annuncio del Regno dei cieli è condiviso con i discepoli che decideranno di accoglierlo, i quali vengono inviati a due a due. Nel terzo discorso, detto parabolico, Gesù descrive il modo in cui l’azione di Dio si presenta tra la gente: il Regno dei cieli è descritto nel suo principiare in piccolezza, una fragilità fiduciosa, una crescita apparentemente lenta e infruttuosa, ma al tempo stesso inarrestabile e irreversibile, che dà frutti di ospitalità e ristoro, come narra la parabola del granello di senape.

È Matteo, in primis, lo scriba divenuto discepolo del Regno dei cieli ‒ poi anche noi, se lo vorremo. ‘Scriba’ in Egitto e in Mesopotamia indicava un funzionario pubblico che aveva il compito di redigere, copiare documenti, far di conto. In Israele gli era affidata la trascrizione dei rotoli della legge, dei libri storici, sapienziali e profetici; e dopo l’esilio l’interpretazione del libro, tanto che al tempo di Gesù gli scribi erano i maestri della Torah.

Per questo Matteo ben dimostra di conoscere le “cose antiche” e quelle “nuove”, che nel giudaismo erano rispettivamente la Legge mosaica e l’insegnamento dei rabbini. Ma per Matteo – lo scriba divenuto discepolo di Gesù, che trae fuori dal buon tesoro del suo cuore l’antico e il nuovo – queste espressioni assumono anche un nuovo significato, trattandosi di tenere insieme il primo e antico patto tra Dio e il suo popolo con il suo compiersi nella vita, nelle opere e nelle parole di Gesù. L’epifania del Regno che si avvicinava: con il Figlio il Regno dei cieli giunge e si manifesta in pienezza.

Di più. Matteo, discepolo/scrittore di buone notizie, narra come la novità del Regno sia già nascosta nell’antico. Il suo cuore segreto, l’intimità del comandamento, si manifestano attraverso una storia di alleanza nuova, che trasforma l’antica, rivelando un’eccedenza di fedeltà, di smisuratezza d’amore – il comandamento nuovo appunto – di prossimità, di familiarità inaudita, di intima amicizia tra Dio e gli uomini, germinata nella storia del Popolo di elezione e poi sparpagliata tra tutti i popoli.

Novità dischiusasi con la venuta del profeta di Nazareth, volta a dare compimento alle promesse antiche. Lo si testimonia tramite i titoli cristologici, quali ‘Messia’, ‘Figlio di Davide’, ‘Figlio dell’Uomo’, ‘Figlio di Dio’, così familiari alla fede di Israele.

Essi, per Matteo, nascondono un’eccedenza di senso, al modo che del seme che giunge a maturazione nel frutto: l’identità singolare di Gesù e la sua missione, in continuità con il cammino e le promesse dell’antico Israele, il seme; ma anche in “discontinuità di compimento”, come una frattura instauratrice di novità, il chicco pieno nella spiga.

Passaggio che per lo scriba divenuto discepolo del regno richiede una radicale conversione: come un essere generati e un nascere di nuovo, un passare all’altra riva, alle cose nuove, senza perdere quelle antiche: «Vedendo la folla attorno a sé, Gesù ordinò di passare all’altra riva. Allora uno scriba si avvicinò e gli disse: “Maestro, ti seguirò dovunque tu vada”. Gli rispose Gesù: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”». (Mt 8,18-20). Oltre, verso l’altro, protesi al Regno, verso un dove, una novità ancora nascosta che il futuro racchiude.

Lo stesso accade per lo scrivere, credo.
Colui che scrive trae fuori dal suo tesoro cose nuove e cose antiche. In Matteo il verbo usato ek-bállo (ek dice movimento di moto da luogo con l’aggiunta del tema verbale bállo «scagliare») e significa ‘gettare via/sospingere fuori’.

Per Matteo scrivere è espellere, scagliare fuori la multiforme ricchezza della buona notizia fatta di eventi e parole antiche che rivivono in parole nuove, quelle di Gesù: “Non sono venuto per abolire ma per dare compimento”. Una correlazione che Matteo esprime sin da subito tramite la genealogia, preludio di vicende intrecciate a quelle del popolo ebraico, fino al loro compiersi nella vicenda ed itineranza del profeta di Nazareth, che in parabole dà forma al volto nascosto e alla qualità della giustizia e degli affetti del Padre suo e Padre nostro.

Rammentando poi la parabola del seminatore, viene da pensare che scrivere per Matteo si anche ‘cavar fuori da sé’, dal proprio cuore, la fede ed esperienza apostolica per gettarle nel campo come un seme – il buon seme delle parole antiche – affinché crescendo, generino nelle spighe parole nuove. La storia antica vive in una storia e in storie nuove. Lo scriba, divenuto discepolo, riscrive nel presente della sua comunità ciò che era stato seminato e scritto in precedenza, portando nuovi frutti in Gesù.

È una rigenerazione incessante. Anche ciò che lui scrive della storia di Gesù dovrà infatti essere riscritto di nuovo, nella vita di ogni discepolo, perché ognuno è chiamato – ecco la vocazione del discepolo – a riscrivere con la propria vita il vangelo che porta dentro, concepito nel segreto della propria coscienza, e lasciare che venga alla luce.

Citando nel suo vangelo il salmo 78,2, Matteo sembra così voler far uscire anche noi allo scoperto; far nascere lo scriba/discepolo nascosto in noi, che riscrive e fa della sua vita come un corpo che dà forma e voce alle Scritture: «Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo».

«Ed ecco un uomo che aveva una mano paralizzata… Domandarono a Gesù: “È lecito guarire in giorno di sabato?” Rispose loro: “Chi di voi, se possiede una pecora e questa, in giorno di sabato, cade in un fosso, non l’afferra e la tira fuori? Ora, un uomo vale ben più di una pecora!” E disse all’uomo: “Tendi la tua mano”. Egli la tese e quella ritornò sana come l’altra. Allora i farisei uscirono e tennero consiglio contro di lui per farlo morire», (Mt 12, 10-12). Il verbo usato da Matteo nel racconto della guarigione nella sinagoga è quello tipico della risurrezione, “egheiro”, ‘tirare fuori, destare, fare alzare, risuscitare, svegliarsi, lo svegliarsi dai morti’: in Mt 28,6 è scritto: “Non è qui, è Risorto” (egherthe).

Scrivere può divenire un’esperienza di risveglio, di guarigione, di metamorfosi e di transito verso una nuova consapevolezza di sé e degli altri. In quest’icona evangelica abbiamo uno dei tanti volti in cui si riflette e si irradia la Pasqua/ passaggio/ trasfigurazione. Piccole risurrezioni nel quotidiano: dalla malattia alla guarigione, dall’incredulità alla fede, dal disprezzo al riscatto, dalla cecità alla visione, dal peccato alla grazia, dalla morte alla vita.

Scrivere è aprire un varco al senso del vivere, del proprio vivere nel mondo; un passaggio che trasforma le cose antiche in nuove: «le cose vecchie sono passate: ecco, sono diventate nuove», (2Cor 5,17). Dalla mano inaridita si passa alla mano guarita dello scriba, che così può trarre fuori da sé la buona notizia, di cui è stato testimone: “coloro che avevano deciso di rinchiudere Gesù nel passato con la morte hanno alla fine fallito”, «Il Dio della pace, ha ricondotto dai morti il Pastore grande delle pecore» (Eb 13, 20). Colui che non ha abbandonato nemmeno quella pecora caduta nel fosso in giorno di sabato, ha scritto una pagina nuova, come una porta che nessuno può chiudere. Nella disumanità una breccia si è aperta, per far passare l’umanità di Dio nella scrittura umana.

Scrivere è come lasciarsi riaprire e tendere la propria mano rattrappita dalla mano dell’Altro e degli altri con l’ascolto e la lettura delle loro scritture narranti. Ciò presuppone il desiderio di leggere prima i loro vangeli nascosti e scritti nelle loro esistenze, e poi solo in un secondo momento tendere anche la propria mano per trarre fuori, scrivendo, significati antichi e sensi nuovi. Come il narrare anche lo scrivere è generativo. Come la vita così la scrittura non è mai un generarsi da sé, ma è soltanto la possibilità di una risposta, di un rigioco di quello che è la realtà degli altri, degli eventi che hanno inscritto in te: le loro storie, le loro vite: così sempre nuovi fogli bianchi attendono scritture.

Michel de Certeau [Qui] in La scrittura della storia ricorda che la scrittura è come una cerniera. Per un verso si scrive, per fare giustizia al passato che è perduto, ma al tempo stesso per aprire uno spazio ai vivi nel presente. Una frattura instauratrice: scrivendo ci si congeda dalle cose antiche, da ciò che è sottratto definitivamente, segnando così una discontinuità, una rottura con il passato irraggiungibile.

Ma al tempo stesso la scrittura apre all’alterità del presente, ovvero introduce il passato nel presente così da renderlo accessibile alla comprensione. Il passato segna la perdita della parola: essa non può più dirsi, di essa non ne rimane traccia, ma resta qualcosa: ciò che non può più dirsi, tuttavia può essere scritto. “Prendi e leggi” direbbe Agostino. Qualcuno parla quando leggo: è qualcuno che mi parla ‘dal’ e ‘nel’ testo. Come vi è una scrittura, un segno udibile in ogni parola, così pure una parola si rende visibile nella scrittura (Jaques Derrida).

Lettrice nell’infanzia di novelle e racconti Teresa d’Avila [Qui] scrive: «[Mia madre] amava leggere libri di cavalleria e ne facilitava la lettura anche a me … Tuttavia mio padre non lo vedeva di buon occhio e noi, per leggerli, cercavamo di non essere visti da lui». Scrivere per Teresa divenne poi un entrare in empatia con i suoi lettori.

Per questo nel libro de La Vida la sua scrittura fluisce ininterrotta, come da una sorgente, per poi distendersi come un fiume. Non usa la punteggiatura, se non in casi rarissimi. Si limita a una sbarretta / all’inizio di un paragrafo. Il resto è una fonte incessante, un “flusso di coscienza” continuo ‒ direbbero gli esperti di letteratura ‒ che sgorga da sé per giungere all’altro, irrigandolo nelle sue aridità spirituali. Scrittura “dal rilievo espressivo, scolpita con vigore”, la descrive una grafologa; scrittura “cesellata” e “sciolta”, “sinuosa e austera, chiara e nitida, tortuosa e allargata in lettere e parole”, da cui traspare una personalità vigorosa nella volontà e nel pensiero.

Scrive Il castello interiore e il libro della sua vita, non solo per far conoscere qualcosa, ma per rendere partecipi della sua esperienza spirituale. Un invito ad entrare, a dimorare, ad abitare le dimore di questi luoghi abitati da Dio; e questo luogo nella coscienza è l’umanità del Cristo, la sua amicizia.

Un giorno, riordinando in biblioteca a Santa Francesca alcuni testi fuori posto, mi è capitato tra le mani un vecchio Annuario del parroco del 1970. Testi e documenti di vita sacerdotale e di arte pastorale, fondato da don Giuseppe De Luca nel 1955, presbitero, editore e saggista (1898-1962).

Annuario continuato poi da don Giuseppe Badini negli anni del post concilio. Sfogliandolo mi sono fermato incuriosito a leggere un brano dal titolo Il posto di Cristo è veramente tra i poeti. Sono rimasto sorpreso.

Di più: «Ma guarda, mi sono detto, come subito dopo il concilio l’invito ai parroci era quello di leggere e di trovare nella letteratura l’immaginazione, la creatività per traghettare la novità del concilio, per tracciare e rendere fluenti le vie di una nuova pastorale per un rinnovato annuncio evangelico e vitalità liturgica. Ecco le cose nuove e le cose antiche da trarre fuori ancora!». La citazione era tratta da una lettera di Oscar Wilde [Qui] un testo, il De profundis scritto dal carcere in cui era rinchiuso. Egli aveva descritto anche le disumanità riservate ai carcerati: «E questo so ancora che ogni carcere costruito dagli uomini è costruito con mattoni di vergogna, è sbarrato, che Cristo non veda come gli uomini straziano i fratelli» (La ballata del carcere di Reading).

Come spinto dalla memoria che si era illuminata, all’improvviso mi sono portato allo scaffale della cristologia: cercavo un libro; ne ricordavo pure la classificazione Dewey: 232 CAS VOL: Ferdinando Castelli, Volti di Cristo nella letteratura moderna, Cinisello Balsamo 1995. Ho letto così nel terzo volume il capitolo dedicato a Wilde e l’annessa antologia: «Il posto di Cristo è veramente fra i poeti. La sua intera concezione dell’umanità balza nettamente dall’immaginazione e può essere compresa soltanto da essa. C’è sempre alcunché di quasi incredibile per me nell’idea di un giovane contadino di Galilea che immagina di poter portare sulle spalle il peso di tutto il mondo: tutto ciò che era già stato fatto e sofferto, e tutto ciò che doveva ancor esser fatto e sofferto: la sofferenza di coloro il cui nome è legione e la cui dimora è fra le tombe: delle nazionalità oppresse, dei bimbi che lavorano nelle fabbriche, dei ladri, la gente nel carcere, i proscritti, coloro che sono muti sotto l’oppressione e il cui silenzio è udito solo da Dio; e non soltanto egli immagina questo, ma lo effettua, così che in questo momento tutti quelli che vengono a contatto con la sua personalità, anche se non si sono mai inchinati al suo altare né inginocchiati davanti al suo sacerdote, trovano in qualche modo che la bruttura del loro peccato è tolta, e la bellezza del loro dolore è ad essi rivelata».

E più avanti ho continuato a leggere: «Per l’artista l’espressione è l’unico aspetto sotto il quale egli può concepire la vita. Per lui ciò che è muto è morto. Ma per Cristo non fu così. Con un’ampiezza e un prodigio d’immaginazione che quasi ci colma di riverente stupore, egli prese l’intero mondo che non ha favella, il mondo senza voce del dolore, per suo regno, e fece di sé lo strumento di espressione di quel mondo […]. E sentendo, con la natura artistica di colui per il quale la sofferenza e il dolore erano aspetti per mezzo dei quali poteva effettuare la concezione del bello, sentendo che un’idea non ha valore finché non è materializzata e resa immagine, egli fece di sé l’immagine dell’Uomo del Dolore, e come tale ha affascinato e dominato l’arte come a nessun iddio greco è mai riuscito di fare».

Perché scrivere ed immaginare? Si domanda nel suo libro, uscito da pochi mesi, Massimo Colombati: “per amare le parole e le cose e animati da un sentimento di amore per chi le ha scritte”, è la risposta: «L’arte è visione. È immaginazione. Ma avere fantasia non significa immaginarsi qualcosa; significa dare importanza alle cose. Scrivendo diamo importanza massima alle cose (attribuendo massima importanza alle parole). E cosa facciamo quando diamo tutta la nostra concentrazione, attenzione, passione alle cose? Le amiamo.» (Scrivere per dire sì al mondo, Milano 2021).

Così lo scriba/discepolo dal suo tesoro continua ancora a cavar fuori “cose nuove e cose antiche”.

 

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