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Giorno: 31 Luglio 2021

Le storie di Costanza /
Giada di Cominella

 

Io mi chiamo Giada e abito a Cominella, la più piccola delle due frazioni di Pontalba, sopra la pizzeria di Giacinto, in un vicolo silenzioso che diparte dall’unica strada che attraversa da nord a sud il paesino.

Arrivando da nord, a circa metà strada tra l’inizio e la fine del centro abitato, bisogna girare a destra, continuare per qualche caseggiato e poi si arriva a una palazzina rosa a tre piani.  Al pian terreno si trova la pizzeria, al secondo paino la casa di Giacinto e al terzo la mia. Un appartamento di quattro ampie stanze e un balcone grande quanto una quinta stanza con tanto di tetto. Dal mio balcone si vedono i campi della pianura padana e, d’estate, il sole rosso fuoco che tramonta.

Sono una psicologa e mi occupo di minori senza famiglia. Ho i capelli biondi e gli occhi azzurri. Sono un po’ sproporzionata, perché a forza di fare sport i miei muscoli sono particolarmente sviluppati, soprattutto quelli di braccia e spalle. Tengo sempre i capelli legati dietro la nuca con un grosso elastico blu. Porto quasi sempre pantaloni e felpa, scarpe da ginnastica. Qualche rara volta mi vesto come piace agli uomini. Vestiti corti e scarpe tacco dodici. Raramente però, molto raramente.

D’estate, quando posso, vado in giro in bicicletta. Di solito dalle 19.00 alle 20.00, prima di rincasare, fare la doccia e cenare velocemente. Mi piace molto mangiare, anche se non si direbbe, visto che ho quarantacinque anni e sto perfettamente nella taglia 42. Eppure io mangio sempre e non salto nemmeno un pasto. Mi piace così.

Oltre a mangiare, mi piace Guido, il professore di Storia che abita di fronte a Villa Cenaroli e che ha quattro nipoti, gemelli a due a due. Forse anche a lui piaccio io, visto che ci frequentiamo da vent’anni e riusciamo ancora a sopportarci.

A volte Guido dorme a casa mia e di mattina, prima che ognuno inizi il suo lavoro, facciamo colazione insieme. Io prendo il thè nero con due fette biscottate: una con burro e marmellata e una senza nulla, da sgranocchiare così com’è. Lui dice che non mangia niente e poi si beve un thè alla cannella e mangia qualche biscotto.

Di solito quando facciamo colazione lui è già vestito, mentre io ho ancora il pigiama. Abbiamo ritmi di lavoro e di vita molto diversi. Mentre lui, se ha del lavoro particolarmente impegnativo da fare, si alza all’alba (comincia a lavorare alle 6.00 di mattina), io faccio l’esatto contrario. Se ho tanto lavoro vado avanti fino a mezzanotte e poi dormo la mattina seguente fino alle 8.00.

Così ci troviamo a fare colazione alle 8.30 e la nostra giornata è in una fase di risveglio completamente diversa. Lui è già completamente immerso nelle sue ricerche storiche e io sto appena riemergendo dal sonno, non so ancora esattamente cosa sia vero e cosa mi sono semplicemente sognata.

Di solito ci ricordiamo entrambi cosa abbiamo fatto durante la notte, il nostro ricordo si colloca in qualche orario imprecisato, che per me è l’inizio della notte e per lui è già notte fonda. Di quello che facciamo durante la notte parliamo sempre poco e di solito in maniera lapidaria. La mattina siamo già di nuovo tutti e due schivi e non ci piacciono le allusioni piccanti che molte persone riprendono a fare quando c’è luce. Ciò che viene consumato basta a sé stesso, senza bisogno di rinforzi diurni che normalizzano troppo l’amore. In questo siamo uguali, ci piacciono i sogni e cerchiamo di non inquinarli.

Comunque la notte ci appartiene, è un rapporto che prevede un contatto fisico frequente, non siamo due intellettuali che si nutrono di spirito. Facciamo ‘gli intellettuali’ di giorno, quando serve per lavoro. Si fa per dire, visto che l’uso che di solito si fa di questo termine e gli attributi che vengono riconosciuti come esplicativi di questo modo di essere (leggere molto, essere molto colti, avere sempre qualcosa da spiegare agli altri, essere snob, vestire solo alcune marche, essere vegetariani, votare a sinistra) ci lasciano assolutamente indifferenti.

In alcune di queste caratteristiche ci potremmo anche riconoscere, ma sicuramente non in tutte e non in tutti i momenti. Certo è che siamo tutti e due laureati in materie umanistiche e questo ci permette di parlare all’infinto di ciò che abbiamo studiato, di ciò che abbiamo letto, di ciò che vorremmo fare e di quello che pensiamo della vita.

A volte portiamo a spasso Reblanco, il cane bianco di Guido. Passeggiamo sul sentiero dei castagni, quello che da Villa Cenaroli sale verso il cimitero di Pontalba. Un sentiero sterrato, che per un tratto costeggia il parco della Villa e per un tratto l’argine del Lungone. Poi risale verso Nord.  Un percorso ombreggiato, circondato da una folta vegetazione, garantita dalla vicinanza del fiume. Il Lungone scorre lì vicino e accompagna lento e regolare la vita della gente di questa zona.

Spesso sul sentiero incontriamo Costanza, la prima fidanzata di Guido. Quella bella donna, dagli occhi color delle foglie d’autunno, è sposata da molti anni e non sembra interessata a Guido, se non come un amico o forse qualcosa in più, come un fratello. Un legame forte che ormai si è cristallizzato e non credo cambierà.

Però, come diceva sempre mia nonna Argene: – Mai mettere la mano sul fuoco, quando si tratta di belle donne. Nessuno sa quel che può succedere. – Aldilà della nonna Argene, la possibilità di un cambiamento nei rapporti tra Costanza e Guido mi sembra davvero remota. Quello che Guido dice di Costanza è per me confortante. Dice sempre: – Costanza è una donna molto intelligente, molto bella, ma non la si può proprio sopportare a lungo.- Non so per quale motivo non la si possa sopportare a lungo, ma va bene così, benissimo.

Guido è un bell’uomo, ha un gran fisico, gli occhi neri e ama molto il suo lavoro, i suoi nipoti, il suo cane, la sua casa e l’eros. Appena vestito, con la camicia che profuma di pulito e l’ultimo bottone slacciato, mi piace da matti. Veder affiorare un pezzo del suo collo morbido e rosa mi affascina. Me ne starei là molto tempo semplicemente a guardarlo.

Anche questo è un pezzo del nostro rapporto, della nostra storia. Forse Guido direbbe che non è vero, che questo ‘incantamento’ per i colli delle camicie è una delle tante stranezze che appartengono solo al mondo femminile e che ai maschi non interessa. Può essere.
Guido è molto schietto. Dice sempre quello che pensa, senza mezzi termini e a chiunque.

Mi piace anche quando mi racconta del suo lavoro, di quello che sta facendo, delle sue riflessioni sugli eventi storici che sta approfondendo e sulle personalità di personaggi, ormai secolarmente morti, che studia con accanimento. Quest’ultimo argomento è uno dei nostri punti d’incontro, ci racchiude in un’invisibile bolla.

Grazie a questo nostro discorrere continuo, il tempo diventa molle e si adagia su sé stesso, come un soufflè. Ovviamente i nostri rispettivi lavori, io la psicologa e lui lo storico, ci garantiscono sufficienti conoscenze per alimentare la bolla, per sostenerla con riflessioni, parole e sguardi.

A volte ci mettiamo anche a discutere di argomenti apparentemente scontati: come poteva essere l’amante preferita di Giulio Cesare, come prendeva decisioni Nerone, cosa amava delle donne Kennedy. Tendiamo a interrogarci sui tratti della personalità di questi grandi personaggi che hanno condizionato, con alcune loro scelte, il futuro del mondo.

Questo strano argomentare ci assorbe come una spugna, ci permette di continuare a trovare nuovi stimoli per parlare, per continuare a ritenere questi confronti costruttivi. Facciamo anche delle vere discussioni, ogni tanto. Ieri mattina prima di uscire Guido si è girato a guardarmi:
– Quel pigiama verde ti sta bene – mi ha detto.
– Bah, a me sembra come tanti altri – gli ho risposto.
– E invece no, questo mi ispira -.
Non mi dilungo a riflettere su quali siano le cose a cui di solito Guido associa il verbo ‘ispirare’. Si sa.

E così tra pizze, baci e discorsi su eventi e personaggi storici, abbiamo passato vent’anni e ci piacciamo ancora.
– Sei una testa di cavolo, che capisce solo quel che vuole lei – mi dice a volte Guido, sapendo perfettamente che io non ho nulla a che fare coi cavoli.
– Anche tu sei una vera testa di cavolo, anzi sei una capra – gli rispondo e lui sa che con le capre non c’entra niente.

Questi risvegli e le conseguenti colazioni ci permettono di affrontare molte impegnative giornate. Sapere che alla sera ci ritroveremo tra capre e cavoli, rende migliore la nostra vita. Non sarebbe la mia vita senza Guido. Non sarebbe la vita di Guido senza di me.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

Nasce a Ferrara UNAPera: una svolta per il futuro del frutto

 

Un innovativo processo di aggregazione che rappresenta oltre il 70% della produzione italiana

Il percorso di rilancio della pera è partito. Giovedì 29 luglio a Ferrara si è costituita UNAPera, società consortile a responsabilità limitata fra 25 imprese – 13 Organizzazioni di produttori e 12 non Op – che rappresentano oltre il 70% delle pere commercializzate sul mercato italiano nell’ultimo triennio e più del 55% dell’export nazionale di questo frutto. Parte dall’Emilia-Romagna – culla della pericoltura italiana, dove la coltivazione di questa frutto vale il 35% della Plv frutticola e coinvolge 15mila addetti – un progetto che non ha precedenti nella storia della frutticoltura del nostro Paese. Un progetto che punta ad occuparsi dello sviluppo della qualità su tutte le pere dei soci attraverso la definizione di standard comuni e un controllo collettivo che consenta un’immissione sul mercato gestita da UNAPera, mentre la vendita resterà in capo alle singole imprese socie. Una vera e propria rivoluzione organizzativa, che vuole incrementare la qualità dell’offerta pericola, riconquistare i consumatori e tornare a dare redditività ai produttori. In tutto questo la territorialità ha un ruolo centrale, con la produzione della Pera dell’Emilia-Romagna Igp che sarà sviluppata fino a raggiungere, nei prossimi tre anni, il 35% della superficie dell’area di riferimento.

UNAPera si è presentata questa mattina in un workshop trasmesso da CSO Italy, dove il presidente Paolo Bruni ha moderato l’incontro con Adriano Aldrovandi (presidente Aop UNAPera), Mauro Grossi (vicepresidente vicario), Roberto Della Casa (responsabile del progetto), Luigi Mazzoni (consigliere dell’Aop UNAPera), Alessandro Zampagna (coordinatore comitato costituente Aop UNAPera), Giampaolo Nasi (coordinatore comitato commerciale Aop UNAPera) e l’assessore regionale all’agricoltura dell’Emilia-Romagna, Alessio Mammi.

“L’8 luglio 2020 ci ritrovammo al CSO con il presidente Stefano Bonaccini e l’assessore Alessio Mammi per dibattere, assieme al mondo produttivo, dei gravi problemi che attanagliavano il comparto pere: cimice asiatica, maculatura bruna, gelate… Ma anziché parlare delle sole problematiche, abbiamo cercato di progettare un grande percorso di valorizzazione della Pera Igp dell’Emilia-Romagna – ricorda Paolo Bruni – Ed oggi siamo qui a presentare UNAPera, nata grazie al grande impegno di tutti gli attori: senza enfasi e senza retorica, è davvero una notizia che non ha precedenti nella storia del settore ortofrutticolo”.

“Siamo 25 imprese che da anni valorizzano il prodotto pera, ma ora hanno deciso di farlo assieme – commenta il presidente di UNAPera, Adriano Aldrovandi – La costituzione della nuova società è il primo atto per sviluppare l’Aop e dalla prossima settimana partirà l’iter di riconoscimento. E’ un progetto di rilevanza nazionale ma con un forte legame col territorio, è un progetto aperto e infatti contiamo di coinvolgere altre realtà nei prossimi mesi. Vogliamo garantire il futuro della pericoltura dell’Emilia-Romagna e degli areali limitrofi pensando all’intera filiera, dalla produzione alla commercializzazione, a tutto l’indotto. L’obiettivo è quello di alzare la qualità al consumo delle pere, accompagnandolo con un nuovo approccio al mercato capace di qualificare e segmentare l’offerta”.

“Le pere hanno perso il 24% dei consumi tra il 2016 e il 2020 – ricorda Roberto Della Casa, responsabile del progetto UNAPera – Una diminuzione dovuta in buona parte all’incostanza della qualità dei frutti in commercio. Le pere sono difficili da coltivare e negli ultimi anni sono state colpite da diverse avversità, ma quando la qualità non è costante i consumatori si disaffezionano. Il 62% degli italiani, secondo le indagini del Monitor Ortofrutta di Agroter, lamentano infatti una qualità troppo variabile; ma la buona notizia è che il 29% dei nostri connazionali ha nella pera il suo frutto preferito. Per rilanciare il prodotto pera sono necessari accordi di programma sul fronte commerciale e marketing con le imprese della distribuzione moderna e i grossisti di riferimento: senza un programma di sviluppo le pere rischiano di diventare un prodotto marginale. UNAPera è il risultato di un innovativo processo di aggregazione ed è anche un unicum nel settore: è infatti la prima Aop ortofrutticola d’Italia che concentra l’offerta e la immette sul mercato con lo sviluppo di accordi e contratti con gli operatori terminali al dettaglio, lasciando la fatturazione del prodotto in capo ai soci, così come previsto dal Regolamento Omnibus dell’Unione Europea. L’Igp ha un ruolo fondamentale, è uno straordinario elemento di aggregazione tra sistema produttivo e distributivo; le catene cercano distintività e il prodotto a indicazione geografica protetta può essere un’offerta premium nei confronti del consumatore. La pera è un frutto dai grandi benefici nutrizionali e dalle caratteristiche gustative uniche, tanto da poter essere annoverata tra le gourmandise. Con il piano di miglioramento degli standard di qualità commerciale ci sono tutti i presupposti per far crescere il mercato della pera verso nuovi successi”.

Il progetto dell’Aop dedicata alla pera è sostenuto dalla Regione Emilia-Romagna. “Ci troviamo davanti a un’iniziativa storica capace di tenere assieme tutto il sistema della produzione pericola – afferma l’assessore all’agricoltura e agroalimentare Alessio Mammi – Siamo consapevoli delle difficoltà che gravano sul comparto, da quelle di mercato alla marginalità delle imprese, passando per gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici: ma partiamo da questa consapevolezza sapendo che è opportuno reagire e provare nuove strade. La pericoltura è un comparto imprescindibile per l’Emilia-Romagna e faremo di tutto per sostenerlo, ci sono ragioni economiche e sociali, posti di lavoro in ballo, ma anche motivazioni storiche, identitarie e culturali. Il progetto di UNAPera è la miglior risposta alle difficoltà, bisogna affrontare le emergenze e avere una visione strategica: la domanda di frutta e verdura crescerà a livello europeo e noi non possiamo certo permetterci di perdere la produzione di pere. Ecco perché è importante puntare sulla crescita della qualità e sull’aggregazione dell’offerta, con l’obiettivo di fare bene insieme”.

“E’ un progetto che per profondità e dimensioni non ha paragoni nel settore: i tentativi precedenti di aggregazione sono stati lodevoli ma insufficienti, cerchiamo la massima coesione e il massimo coinvolgimento – afferma Mauro Grossi – Non abbiamo la presunzione di aver raggiunto l’obiettivo e di voler fare tutto da soli, sentendoci autosufficienti. Tutt’altro. Il nuovo soggetto è aperto alla filiera, anche delle regioni limitrofe; oltre che alla società civile, vista l’importanza del comparto pericolo per il nostro territorio”.

“La territorialità è un argomento che ci aiuterà a ricavare maggiore valore dalla produzione, perché i consumatori, lo stiamo vedendo soprattutto negli ultimi tempi, tendono a dare maggiore importanza all’origine locale dei prodotti: l’Igp ha quindi un grande potenziale di sviluppo ancora inespresso – osserva Luigi Mazzoni – UNAPera è uno strumento davvero innovativo, l’auspicio è che possa essere un modello interessante anche per altre colture della nostra terra”.

Le imprese che hanno fondato UNAPera sono: A.F.E., Unacoa, Apoconerpo, Apofruit Italia, Bergonzoni, Alegra, Biop, Cico, Mazzoni, Cipof, Consorzio Frutteto, Ceor, Eur.O.P.Fruit, Gobbi Dino, Granfrutta Zani, La Buona Frutta, Minguzzi, Op Costea, Coferasta, Op Kiwi Sole, Spreafico, Opera, Natura Italia, Origine Group, Orogel.

PRESTO DI MATTINA
Il passaggio segreto della scrittura

«C’erano una volta quattro bambini che si chiamavano Peter, Susan, Edmund e Lucy. Vivevano a Londra ma, durante la seconda guerra mondiale, furono costretti ad abbandonare la città per via dei bombardamenti aerei. Furono mandati in casa di un vecchio professore, che abitava nel cuore della campagna». Così inizia la seconda storia delle cronache di Narnia: Il leone, la strega e l’armadio di Clive Staples Lewis [Qui].

Logica e fantasia si intrecciano in una storia avvincente nel romanzo del genere fantasy per ragazzi. Ma l’intento dell’autore, per alcuni interpreti, sembra anche essere stato quello di presentare una allegoria di Cristo e la sua avventurosa venuta tra noi.

Aslan, che in turco significa leone, è figura di Cristo vincitore del gelo della morte. Egli si fa compagno di viaggio di quei ragazzi, che si sono lasciati coinvolgere nel dramma di un mondo, quello di Narnia, in cui sono state cancellate le stagioni, sino a trasformarsi in una terra desolata e glaciale. Sacrificando se stesso per la salvezza di quella terra e di quei ragazzi, Aslan fronteggia un nemico che sembrava invincibile, “Jadis la strega bianca“, e alla fine esce dallo scontro vittorioso e vivente.

“L’armadio” si rivelerà ai ragazzi come un passaggio segreto per entrare in un mondo sconosciuto. È la piccola Lucy che lo scopre, per la sua irresistibile curiosità, aprendone la porta. Con stupore scoprirà che l’armadio non è un luogo ristretto e chiuso, ma uno stargate, un passaggio, attraversando il quale principia l’esplorazione di un universo stellare, ma nel sottosuolo; una porta magica, da cui si esce dal proprio mondo, per entrare in un altro mondo ignoto.

Così, mi sono detto, non accade forse la stessa cosa quando ci si mette a scrivere davanti ad una pagina bianca, anche solo una lettera? Quando si apre un libro e si prova ad entrarvi dentro come fosse un piccolo armadio? “Come posso starci è troppo piccolo”, viene da dire ogni volta, ma appena la mano fa il gesto di aprilo, ecco che si esclama come Lucy: «Questo armadione è semplicemente enorme» ed entrando con passo incerto, da subito sotto i piedi trovi il sentiero dell’inchiostro.

Questa storia mi è sembrata intrigante, una bella metafora dell’avventura per chi scrive e per i suoi lettori. Perché un testo sarà veramente compiuto solo se riuscirà a dialogare con i suoi lettori. Ad ogni lettura, ogni volta un poco compiuto e un poco ancora da compiere, un’itineranza in un mondo sconosciuto verso un compimento che resta ignoto.

Ma perché questo accada è necessario dare credito alla storia stessa e percorrere il sentiero narrativo con un atto di “fede poetica”, come direbbe Samuel Taylor Coleridge. Si tratta così di sospendere l’incredulità, anche se si legge una storia fantasy, e divenire un lettore che entra nel racconto con curiosità, timore e fiducia insieme, pur non sapendo dov’esso andrà a parare. Mettersi insomma nei panni, nelle scarpe, nei sentimenti di Lucy, quando si accinge a varcare la porta verso l’ignoto. Tra i personaggi del mondo di Narnia, sono da annoverare lo scrittore e il suo lettore, ed anche noi.

Sarà come per Lucy, un rigiocarsi, scrivendo su un altro foglio o girando un’altra pagina; un rimettere in questione il proprio mondo, decidendo di varcare la soglia del già scritto e del già letto. Oltre quello che si sa, si è detto e scritto, si scopre così con meraviglia che c’è sempre dell’altro, dentro e fuori di sé, ancora sconosciuto; aprendo una porta, sempre del nuovo ci sarà da scoprire e da incontrare.

Peter, Susan, Edmund e Lucy in una giornata di pioggia, per vincere la noia, si mettono ad esplorare la casa che li ospita, stanza dopo stanza, arrivando in una camera grande e vuota: solo un armadio! Tutti passano oltre, tranne Lucy che, al primo tentativo, al leggero tocco della maniglia innescò l’apertura dell’armadio, dando inizio a una nuova storia.

«Era il tipo di casa di cui non si arriva mai alla fine, piena di imprevisti. — Qui non c’è niente — decise Peter, proseguendo nella marcia. Gli altri lo seguirono a eccezione della piccola Lucy, che si era fermata davanti all’armadione chiedendosi cosa contenesse. Certo era chiuso a chiave, ma un tentativo si poteva anche fare; Lucy toccò la maniglia e con sua grande sorpresa la porta si aprì subito. Ne vennero fuori due palline di naftalina. Guardando all’interno, Lucy vide che il guardaroba conteneva cappotti e pellicce. A Lucy le pellicce piacevano tanto: entrò nel vano e si divertì ad accarezzarle con la mano, ci strofinò il viso e trovò che avessero un buonissimo odore. Naturalmente aveva lasciato un’anta aperta, perché sapeva benissimo che entrare in un armadio e chiudersi la porta alle spalle è la cosa più stupida che si possa fare. Dietro la prima fila di pellicce ce n’era un’altra. Lucy fece qualche passo, tenendo le braccia tese in avanti: non voleva sbattere improvvisamente contro la parete dell’armadio. Un passo, due, un altro. All’interno era buio, Lucy non vedeva niente, e per quanto annaspasse con le mani non incontrava che il vuoto. – Questo armadione è semplicemente enorme – disse tra sé, continuando ad avanzare e scostando le pellicce per fare spazio. Poi cominciò a sentire qualcosa che scricchiolava sotto le scarpe. — Ancora naftalina? — si domandò, chinandosi per sentire con le mani. I polpastrelli rivelarono qualcosa di morbido, sottile come sabbia e freddissimo. — Molto strano, sembra neve — mormorò Lucy. Un attimo dopo sentì contro il corpo e il viso qualcosa di duro e ruvido, perfino pungente.
— Sembrerebbero rami d’albero — bisbigliò, sempre più sbigottita. E allora vide una piccola luce che brillava lontano, dritto davanti a lei. Lucy si rese conto che dove avrebbe dovuto esserci la parete di fondo dell’armadio c’erano invece alberi. Quello era un bosco, e nel bosco c’era un sentiero. Nevicava; era già buio e nevicava.»

Scrivere è come entrare nell’armadio magico di Lucy. «Là dentro c’è un bosco e nevica sempre». Aprendo una porta anche la scrittura porta alla luce ciò che scrive: la parola che si fa mondo, che si fa corpo nel testo. Compresi gli odori delle palline di naftalina; degli indumenti profumati; la ruvidezza degli aghi di pino; la morbidezza soffice della neve e delle pellicce accarezzate e strofinate delicatamente sul volto; il morbido e sottile strato nevoso come sabbia freddissima; una piccola luce che orienta lo sguardo disorientato e perso nel buio. È quella una luce che indica una traccia nell’oscurità, come la scrittura e la lettura sanno accendere il desiderio di incamminarsi. Non basta infatti intravedere una via, perché ciò che fa avanzare verso una meta non è il sentiero, ma il mettersi in cammino.

Gli occhi di colui che scrive e di colui che leggerà subiscono così una metamorfosi. Essi sono risvegliati ad un altro mondo, costituito da una duplice oscurità: alle spalle quella del passato e davanti quella del futuro. Per inoltrarsi in essi e ripresentarli nel presente con l’atto dello scrivere e del leggere sono necessari i piccoli grandi occhi di Lucy, risvegliati alla fiducia di trovare nascosto nel passato e nel futuro un bene più grande, che dia senso al presente e lo spinga ad avanzare, a rischiarsi oltre: «Gli occhi di Lucy si erano abituati alla luce magica e poteva distinguere chiaramente gli alberi più vicini. Una grande nostalgia dei giorni passati le riempì il cuore e con la mente tornò ai bei tempi in cui gli alberi parlavano. Ricordava perfettamente il modo di esprimersi di ognuno e la forma quasi umana che potevano assumere. Si fermò sotto un’argentea betulla. Un tempo la voce dell’albero era stata dolce e delicata, e le sembianze ricordavano quelle di una ragazza alta e slanciata, con lunghi capelli che le incorniciavano il viso e innamorata della danza. Poi lo sguardo di Lucy si posò su una quercia: una volta era stata un vecchio con il volto buono e sincero, solcato di rughe e ornato da una bella barba ricciuta; Alberi, voi alberi… — invocò Lucy (che fino a un momento prima non aveva avuto alcuna intenzione di parlare (e noi di scrivere o di leggere). — Svegliatevi, svegliatevi! Non mi riconoscete? Che mi dite dei tempi passati? Oh driadi, e voi amadriadi [ninfe che vivono dentro gli alberi], uscite, venite da me». Nel risveglio delle ninfe si ridestano, come linfa, creatività e immaginazione. Il loro uscir fuori sarà per gli alberi e per gli uomini – proprio ora – memoria di radici e promessa di frutti: il coraggio di un passo e poi di un altro passo.

Nel suo risvegliarsi la scrittura diventa precorritrice, vede un passo avanti. È cursore che va verso il futuro, cercando un ampliamento del sentire la vita, attraverso un vedere con occhi diversi dai nostri, immaginare con immaginazioni diverse dalle nostre, sentire con sentimenti diversi dai nostri.

La scrittura fa sì che quanto si viene descrivendo «riveli, strada facendo, quanto più possibile del mistero dell’esistenza», così pensava la scrittrice americana Flannery O’Connor [Qui]: «[Lo scrittore] scrive di quel che si vede in superficie, ma la sua angolazione visiva è tale che comincia a vedere prima di arrivare alla superficie e continua a vedere dopo averla oltrepassata. Comincia a vedere nelle profondità di sé». (F. O ‘Connor, Nel territorio del diavolo. Sul mestiere di scrivere, Roma-Napoli 1993, 65; 91).

E, quando si entra in un bosco o in una foresta, in ciò che di più irriducibile vi è nel mistero di se stessi, non manca mai una strega bianca come «quella che tiene il paese di Narnia sotto il tallone, ecco chi. È lei che fa durare l’inverno tutto l’anno: sempre inverno e mai Natale, pensa… Può trasformare la gente in statue di pietra e fare mille stregonerie. È per colpa sua se a Narnia, adesso, è sempre inverno».

Può capitare infatti che scrivendo si possa essere presi dalla vanità, dal compiacimento di sé quando ci toccano la gratitudine o le lusinghe degli altri – come nel voltafaccia di Edmund, uno dei ragazzi che ingannato tradisce i suoi amici. Vanità che sembrerebbe da principio una cosa buona, gradevole al gusto, al sé, per rafforzare l’autostima e infondere energia nuova per affrontare la vita; ma da cui si può scivolare progressivamente nel desiderio di affermare se stessi e poi ancora salire un gradino sopra gli altri, e forse il desiderio diventerà quello di dominarli. Orson Wells è radicale e schietto: «si scrive per puro egoismo. Desiderio di essere intelligente, di far parlare di sé, di essere ricordato dopo la morte» (Citato in L. Colombati, Scrivere per dire sì al mondo, 79).

Vanagloria è chiamata dagli spirituali quella che congela l’io solidificando lo spirito, il suo soffio in un blocco di ghiaccio. La stessa che trasforma le persone in statue di pietra prive di interiorità. Una malattia mortale per tutti, ma soprattutto per poeti e scrittori. Esiste un rimedio? Così risponde Dygory Kirke, un altro bambino delle Cronache: «Se esiste qualcuno che può darmi un rimedio per la sua malattia, questo è Aslan»: è l’Altro, è il sodalizio con gli altri, con gli amici, i sodali del popolo Narnia.

Servirà allora un inverno lungo per guarire; una storia di incontri di relazioni che chiama a non lasciare chiusa la porta dell’armadio, entrando e uscendo da sé per scoprire un poco alla volta ciò che è sacro e ciò che non lo è – la vera gloria da quella farlocca, taroccata – ad apprendere ciò per cui vale la pena sacrificarsi, anche donando la vita. Così sarà il cammino di Edmund, la via che porta al Natale, al perdono ancora troppo lontano (come la Pasqua per i discepoli incamminati sulla via di Emmaus), ma nasconde la sorpresa di un incontro con uno sconosciuto che si farà conoscere, come l’Amico, con gli amici ritrovati.

Se l’io persiste nel rischiare la fiducia, come ha fatto Lucy; se scrivendo ci si espone e coinvolge nel dire sì all’altro, accadrà il disgelo della vanità, il dischiudersi della creazione artistica. Di più: «Gli alberi tornavano alla vita: larici e betulle mostravano le prime gemme di un pallido verde, i maggiociondoli si coprivano di germogli color oro, sui faggi spuntavano le foglioline e l’aria nel complesso sembrava verdeggiare. Un’ape attraversò il sentiero, ronzando. — Questo non è il disgelo — gridò a un tratto il nano, fermandosi di botto. — Questa è la primavera! —L’inverno se n’è andato».

Allora scrivere non sarà per vanagloria, ma per un bisogno intimo di trasmissione, di dire e consegnare qualcosa che ci ha mossi per primo dentro ed ha preceduto il nostro scrivere stesso. Un desiderio di lasciare una traccia, anche solo un proverbio incontrato leggendo un libro: «Per quanto sia lunga una notte d’inverno, questa non impedirà il sorgere dell’aurora, il sole che verrà», (Proverbio Tuareg).

Se scrivere impegna ad un atto di fede – come ci ha ricordato Maria Zambrano – esso invoca fedeltà alla vita, al vero che porta in grembo, si potrà anche dire che scrivere impegna a un atto di amore? Non è forse vero che l’amore genera solidarietà di intenti, amicizia tra le persone per realizzare il bene comune? L’aspirazione di uno scrittore, potremo dire il suo vanto, «è il desiderio di essere tutti. Senza per questo rinunciare alla propria unicità da principio; anzi, forzando tutti a essere almeno un po’ come noi», (L. Colombati, Scrivere per dire sì al mondo, Milano 2021).

Il desiderio di universalità in Paolo diventa un fare concreto: «Mi vanterò ben volentieri delle mie “debolezze” perché dimori in me la potenza del Vivente, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti… Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per guadagnarne il maggior numero», (2Cor 12). Chi scrive vive nei suoi personaggi e nelle loro storie.

Amare è come scrivere t’amo sulla sabbia? «Ho scritto t’amo sulla sabbia/ E il vento a poco a poco/ Se l’è portato via con sé». Sembrerebbe proprio di sì, almeno stando a Sigmund Freud. Ma il libro di Massimo Recalcati [Qui], Mantieni il bacio, (Milano 2019), mi ha rincuorato. Vi si legge: «Freud non credeva affatto al miracolo dell’amore. Riteneva che fosse il frutto illusorio di una passione narcisistica dell’Io per se stesso o, meglio, per il suo ideale narcisistico. Amare non significa altro che adorare la propria immagine ideale incarnata dall’amato. Quando dico “ti amo” sto dicendo che “amo me stesso attraverso di te”. Il soggetto è più importante del verbo. L’amore per Freud è essenzialmente un fenomeno immaginario che appartiene alla sfera del narcisismo».

Dopo la pars destruens ecco la pars costruens: «Ma forse a Freud mancano le parole o l’esperienza per descrivere la forza generatrice che l’evento dell’incontro d’amore porta con sé? Perché, se lo osserviamo nel suo nascere, l’amore è innanzitutto provocato dall’incanto dell’incontro. L’amore si offre infatti non come una regressione o una ripetizione, ma come una sorpresa. Accade interrompendo la sequenza del già noto, del già stato, del già visto, del già conosciuto. Ogni incontro d’amore scava un buco, uno spazio vuoto, apre un varco, una discontinuità che non potevamo prevedere nello svolgimento abituale delle cose del mondo. L’incontro, in questo senso, sa sempre di avvenire, sa di ciò che non è mai ancora stato, sa di Nuovo. Ogni incontro d’amore porta con sé la promessa di una Vita nuova», (ivi, 11-12).

L’esperienza di chi scrive è simile a quella del profeta Isaia, che mette nero su bianco le promesse dell’Amore: «Farò camminare i ciechi per vie che non conoscono, li guiderò per sentieri sconosciuti; trasformerò davanti a loro le tenebre in luce, i luoghi aspri in pianura. Tali cose io ho fatto e non cesserò di fare», (42, 16).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]