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Giorno: 10 Gennaio 2022

Aimi (FI): “Fondi rigenerazione urbana vadano a Comuni virtuosi”

I fondi relativi alla rigenerazione urbana devono essere primariamente destinati ai comuni più virtuosi: un fatto logico, che mi trova assolutamente d’accordo. I colleghi della Lega hanno evidenziato un tema importante e ritengo necessario rivedere l’indice di vulnerabilità, poiché gli attuali meccanismi rischiano di penalizzare proprio i Comuni che meglio hanno impiegato le proprie risorse, dimostrando alta efficienza e capacità di gestione. Il Comune di Ferrara, per esempio, ha visto progetti ammessi, ma non ancora finanziati. Credo che sia una visione lungimirante, un premio agli amministratori che ben gestiscono il territorio e che meritano attenzione e sostegno.
Noi siamo pronti a fare la nostra parte.

Enrico Aimi, coordinatore regionale Forza Italia Emilia-Romagna

Ripreso il cantiere per la costruzione del nuovo ponte Fossa dei Masi a Masi Torello

Come annunciato lo scorso 30 dicembre, sono ripresi i lavori per la costruzione del nuovo ponte Fossa dei Masi, lungo la Sp 1 a Masi Torello.
Dopo la posa in opera delle travi, ora i lavori riguardano quella delle parti strutturali dell’impalcato, cui seguiranno l’istallazione delle barriere laterali, la pavimentazione, le prove di carico e, da ultimo, il collaudo statico della nuova struttura. Il costo dell’opera è di 950 mila euro, finanziati con i fondi sisma del 2012 dal ministero Infrastrutture e Trasporti.

VIGARANO, SERVIZIO DI TRASPORTO PER ANZIANI E DISABILI IN STRUTTURE SANITARIE. IL SINDACO BERGAMINI: “RIPRISTINATO E INCREMENTATO UN SERVIZIO ESSENZIALE PER LA COMUNITA’”

“Quando ci siamo insediati, abbiamo lavorato sin da subito per far ripartire questo servizio di pubblica utilità per i soggetti più fragili, purtroppo precedentemente era stato sospeso a causa della pandemia ma, grazie alla disponibilità dei volontari autisti e alla collaborazione con il circolo Auser di Ferrara, siamo riusciti a ripristinarlo – spiega il sindaco Bergamini e prosegue – in totale sicurezza, rispettando le normative anti contagio Covid-19.” Il servizio è ripartito il 2 Novembre 2021 e nell’ultimo periodo si è incrementato, i dati al 31/12/2021 sono i seguenti: all’inizio vi erano sei autisti volontari, mentre oggi sono ben quattordici; il numero di corse effettuate è pari a trentaquattro, presso le strutture sanitarie di Cona, Bondeno, Copparo, Cento, Quisisana, Zona Fiera ed infine Vitalis di via Ravenna a Ferrara; gli utenti che ne hanno usufruito sono stati diciannove. Per chi necessita del servizio, si ricorda ai cittadini che occorre telefonare ai servizi sociali di Casa Generosa (0532 436428) e prenotare la corsa almeno 48 ore prima. Nel giorno stabilito, il pulmino preleverà l’utente presso la propria abitazione per accompagnarlo alla struttura sanitaria prescelta, per poi riportarlo a casa. Il vicesindaco con delega al terzo settore, Mauro Zanella:” Siamo più che soddisfatti di aver fatto ripartire questo servizio essenziale, uno dei più importanti a Vigarano, non solo per l’utilità ma anche perché aiuta i soggetti più fragili a diventare  autonomi.” Il servizio è completamente gratuito, grazie ai volontari ed al Comune che adempie alle spese di gestione e manutenzione dei pulmini.

FERRARA, “FESTIVAL DELLE MEMORIE”: DAL 25 AL 30 GENNAIO IL PROGETTO DI MONI OVADIA DEDICATO AI POPOLI VITTIME DI GENOCIDI

Il primo anno del nuovo millennio ha conosciuto l’istituzione di una Giornata della Memoria, con l’intento di ricordare i sei milioni di ebrei sterminati dai nazisti sulla base di un preciso progetto pianificato tecnicamente con l’intento di cancellare l’esistenza fisica di tutta la popolazione ebraica dalla terra d’Europa. Il succedersi degli anniversari della Giornata della Memoria ha visto l’intensificarsi progressivo della polarizzazione dell’evento sulla Shoà, nelle sue molteplici e terrificanti declinazioni, testimonianza di efferatezze senza limiti per vastità e modalità.
Le istituzioni hanno però avuto la tendenza a sottacere o a sottovalutare gli altri aspetti dei crimini nazifascisti: lo sterminio di un altro popolo in quanto tale: i rom e i sinti, la distruzione programmata della società polacca, il massacro di milioni di civili slavi, in particolare sovietici, lo sterminio di cittadini tedeschi affetti da menomazioni psichiche e fisiche, di omosessuali, di testimoni di Geova, di emarginati sociali, di antifascisti di vario orientamento. Centinaia di migliaia di soldati italiani furono deportati e ridotti in una brutale schiavitù che ne portò a morte decine di migliaia, solo per non avere voluto asservirsi al regime.
La memoria legata alla Shoà ha indubbiamente svolto un ruolo importante nel fare emergere i valori generati dalla consapevolezza che il concetto di memoria proietta il proprio significato ben al di là del ricordo o della pur legittima celebrazione di un lutto immenso, per configurare un’intera cultura di ripulsa della violenza, della sopraffazione. Un intero corpo nazionale, quello tedesco, sceglie di rimettersi in discussione ponendosi questioni laceranti, domandandosi: “Perché abbiamo fatto questo a tanti esseri umani? Perché abbiamo fatto questo a noi stessi? Come abbiamo permesso che la nostra grande nazione, sviluppata, colta, ricca di una straordinaria cultura si trasformasse in una nazione di carnefici?”. Il grande cammino compiuto dalla Germania le permette oggi di camminare a testa alta fra le nazioni. Perché la peggiore cosa che possa capitare a un essere umano o a una comunità non è quella di essere vittima, ma carnefice del proprio simile.
Il progredire della cultura della memoria ha determinato un allargarsi dell’orizzonte di indagine. Persone e altre genti di popoli che avevano subito stermini delle proporzioni di un genocidio, o di stragi di massa, si sono affacciati al Tribunale delle Nazioni per chiedere giustizia e memoria riconosciuta per potere ritrovare il cammino della pace che si può aprire solo con il riconoscimento da parte di chi ospitò nel proprio corpo il morbo del crimine. Una parte dell’opinione pubblica ha scoperto che solo limitandosi al secolo breve l’umanità ha conosciuto il genocidio della Namibia, quello armeno, lo sterminio nazista, le stragi di massa perpetrate dall’esercito imperiale giapponese in Manciuria e in altre aree asiatiche, i crimini staliniani, le stragi e le persecuzioni sistematiche del popolo curdo, il genocidio interno del popolo cambogiano, le stragi della ex Iugoslavia, il genocidio dei tutsi, le persecuzioni degli uiguri, dei
rohingya, del popolo sahrawi…
Il Festival delle memorie non si fonda su alcuna ideologia, non vuole essere un tribunale, non si erge a giudice; il suo scopo è quello di dare un contributo artistico e culturale per edificare una memoria universale e per promuovere la pace e l’incontro fra le genti.

Emilia Romagna, nuovo anno all’insegna della pace

Il 13 e 14 gennaio gli incontri informativi online sul servizio civile.
Giovani, fra i 18 e i 28 anni, impegnati in attività di sostegno, integrazione ed educazione ad adulti e minori con disabilità presso case famiglia e cooperative sociali, adulti e minori stranieri, donne vittime di tratta, persone senza fissa dimora e adulti vittime di dipendenza, ambiente: sono queste la proposte attivate dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, all’interno del bando per il Servizio Civile Universale, sul territorio emiliano romagnolo.
Il giorno 13 gennaio alle ore 14.30 l’incontro online di presentazione del progetto “2021 I CALZINI SPAIATI”, con 1 posto disponibile in provincia di PIACENZA . Il giorno 13 gennaio alle ore 19.00, l’incontro online di presentazione dei 7 progetti con 25 posti disponibili nei territori delle province di FORLÌ-CESENA e RAVENNA, 1 dei quali riservato a giovani con bassa scolarizzazione, 2 a giovani con difficoltà economiche e 5 con la possibilità di usufruire di vitto e alloggio, se necessario. Inoltre, nel progetto “2021 RICORDATI DI ME”, i giovani selezionati passeranno 2 mesi del proprio anno di Servizio Civile in Portogallo , a Fatima, presso una Casa Famiglia che accoglie e supporta nel territorio adulti e famiglie in difficoltà. Infine, venerdì 14 gennaio, alle ore 13.00, l’incontro online di presentazione dei 5 progetti con 28 posti disponibili nei territori delle province di BOLOGNA, FERRARA e MODENA, 2 dei quali riservati a giovani con difficoltà economiche e 7 con la possibilità di usufruire di vitto e alloggio, se necessario. Possono partecipare al bando i giovani, senza distinzione di sesso, che al momento della presentazione della domanda hanno compiuto 18 anni e ne hanno meno di 29; è concessa una deroga ai giovani che hanno interrotto, a causa dell’emergenza sanitaria, il servizio civile nel bando 2020, anche se hanno già compiuto i 29 anni. È possibile presentare domanda di adesione entro il 26 gennaio 2022. I giovani avranno un impegno di 25 ore settimanali e ricevono un contributo spese di 444,30 euro mensili. «Non vogliamo soltanto fare qualcosa per i giovani — commenta il Presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, Giovanni Ramonda — ma con i giovani, per renderli protagonisti assieme a noi della difesa nonviolenta della Patria, che significa, per usare le parole del Presidente Mattarella: “tutelare e promuovere i valori istitutivi della Repubblica e dell’Unione Europea, quali la protezione sociale, la solidarietà, il rispetto della dignità umana, valori che oltre a essere alla base del funzionamento di ogni democrazia, costituiscono un patrimonio di principi solidaristici e morali fondamentali per la crescita di ogni individuo”».

RETE PER LA GIUSTIZIA CLIMATICA FERRARA

Le Associazioni aderenti alla Rete per la Giustizia Climatica dopo aver effettuato accurato sopralluogo presso la proprietà del Comune di Ferrara denominata Pratolungo, nella zona detta dei Prati di Palmirano, rilevano che si tratta di una tenuta agricola di circa 26 ettari complessivi un tempo appartenuta al demanio militare ed ora di proprietà del Comune di Ferrara.
Mentre i sei ettari posti lungo la via Palmirano, dotati di edifici di servizio e di strutture per coltivazioni e allevamento di animali, sono attualmente gestiti dalla società agricola Parco Contadino Pratolungo, con fini sociali senza scopo di lucro, negli altri venti ettari si stendono bellissimi prati rinaturalizzati, divisi in campi, da tempo incolti, lascito di vecchi appezzamenti, fra loro separati da alte e fitte siepi spontanee costituite da arbusti e da alberi cresciuti negli anni lungo le scoline perimetrali dismesse.
Si tratta di un esempio importante e raro di evoluzione naturale in atto, con il risultato di un paesaggio molto suggestivo rimodellato dalla natura.
I campi, molto interessanti sotto il profilo floristico, ospitano alcune specie prative ormai rare nel ferrarese quali la Crotonella fior di cuculo (Silene flos-cuculi), molto abbondante e ben visibile a primavera per i fiori rosati, la Coda di topo ovata (Alopecurus rendlei) e il Caglio debole (Galium debile).
In questo brano di territorio sono segnalate inoltre presenze faunistiche importanti, con lepri, tassi, istrici, uccelli di numerose specie ed una colonia di caprioli.
Ci si trova di fronte ad un ambiente in fase avanzata di rinaturalizzazione, posto a poche centinaia di metri dall’ ospedale di Cona, che le scriventi Associazioni chiedono assolutamente di preservare e di mantenere alla proprietà e alla fruizione pubblica. Si chiede di evitare di tornare all’uso agricolo e di affidarne la gestione a strutture, anche con fini di utilità sociale, capaci di averne cura promuovendone ed organizzandone una fruizione regolamentata e compatibile.
Auspicabile, poi, che si possa giungere in prospettiva al riconoscimento del sito di Pratolungo come ‘ARE – Area di Riequilibrio Ecologico’, riconoscimento che sicuramente merita, a garanzia delle opportune tutele per una gestione ed una frequentazione rispettose della natura e dei processi evolutivi.

Nina …un racconto

Nina
Un racconto di Carlo Tassi

A volte il mio lavoro mi porta a sentire storie che non vorrei mai sentire. Peggio è quando poi devo scriverle. Come quella che ho saputo dalla bocca di un balordo ubriaco conosciuto appena.
In cambio di una bottiglia di vodka scadente m’ha raccontato la storia di una ragazza tanto bella quanto sfortunata.

Era una ragazza bellissima e veniva da un paesino della Ex Jugoslavia.
Capelli color miele, occhi verdi e pelle olivastra, una bellezza come solo tra i Balcani se ne può trovare. Un’anima quindicenne resa orfana da una guerra bastarda. Un’antilope tra i maiali, da un campo profughi all’altro, fino all’orfanotrofio di Barbablù. Il direttore, un tizio viscido e corrotto, la vede e fiuta l’affare. In cambio di un bel gruzzolo la cede a due lupi in giacca, cravatta e tatuaggi. Un vero patto tra belve: la giovane preda è catturata, altra carne fresca per l’Organizacija è assicurata.
La fanciulla viene presto iniziata, la sua anima annientata. Amore, romanticismo e dolcezza saranno presto scordati. Gli stessi sogni, come cuccioli indesiderati, saranno soffocati. Il suo nuovo mondo è un pattume lercio da raschiare.
Una bambina diventata donna in poche settimane, nel modo più becero e spietato.
Un’altra vergine stuprata, calpestata, masticata e sputata. Pronta all’uso.
Svuotata di tutto e riempita soltanto d’eroina da non poterne più fare a meno. Come vuole la procedura, una puttana ubbidiente vale giusto un’altra puntura. Avanti il prossimo!
Ma la ragazza dagli occhi color smeraldo è bellissima, la più bella tra le schiave di quel lurido reame. Non può passare inosservata e il capo difatti l’ha notata.
Così il vento cambia improvvisamente, e l’incantevole gioiello biondo è d’un tratto curato e ripulito. Rimesso a nuovo per esser coccolato. La bambola prediletta dell’orco.
Mesi d’inferno, dal terrore della guerra alla disperazione della schiavitù. Poi questo paradiso bugiardo, perverso, fatto di catene dorate e caramelle avvelenate: l’harem del grande boss.

Però l’anima della ragazza non è ancora morta, i ricchi maiali hanno fatto male i conti. Una sera, una possibilità da cogliere senza paura. Niente da perdere se non la vita.
Le catene sono allentate, una piccola distrazione del padrone basta e avanza.
La ragazza ha imparato a fingere bene, è furba e veloce, ruba dei soldi e fila via lontano. In treno, in corriera, in autostop. Trova un’altra città, una grande metropoli, caotica, indifferente, ciò che serve per scomparire.

Per strada migliaia di facce le girano intorno di continuo, una folla assente d’estranei distratti, in altro affaccendati. Sola e trasparente il più possibile per la costante paura d’esser trovata, mentre la fame le morde lo stomaco. Soprattutto la fame. Perché la libertà da sola non basta. Perché deve fare i conti con la propria sopravvivenza e capisce che le resta sempre e solo una scelta: vendere l’unica merce che possiede.
Settimane, mesi, battendo i marciapiedi di periferia come un fiore tra i rifiuti, ancora uno splendido fiore dopotutto. Vivere da emarginata dormendo dove capita, fare sesso per quattro soldi, mangiare qualche pasto caldo alla mensa, farsi una doccia in qualche bettola per poi offrirsi ai clienti, infine procurarsi la dose serale d’eroina per sfuggire agli spettri del mattino. Ogni giorno è un conto alla rovescia col proprio nulla da perdere. Nessuno scopo, nessuna speranza, soltanto un altro buco nella carne per riaccendere il calore buono dei ricordi.

Ma una sera incontra un uomo. È più grande, ha soldi per pagare e far regali, ben presto diventa il suo miglior cliente. Forse nasce qualcosa. Nuove attenzioni, distrazioni. Un sentimento imprevisto o un’insolita avventura? Certamente attrazione, magari qualcosa di più. Lui le trova un posto dove stare, dice di volerle bene, fa promesse vaghe, ma appare e scompare e lei resta sola spesso. Come la volta che scopre d’essere incinta. Incinta di lui.
Lui si fa vivo e lei glielo dice. Lui reagisce freddamente. Tra i due qualcosa cambia e si rivela: due mondi troppo distanti, inconciliabili.
Lui la rassicura, la porterà in clinica, le pagherà l’aborto. Poi le dà dei soldi, un bacio in fronte e se ne va in modo strano. Lei resta lì, una mano sulla pancia a guardare la porta che si chiude. L’uomo non tornerà più. Altra solitudine, nuova delusione, ennesimo tradimento. Ma la pancia cresce e crescerà fino alla fine. Nove mesi tra gli stenti, contro ogni logica, ingiustamente, nel più completo abbandono.
Eppure nel suo seno cresce qualcosa per cui lottare, per cui vivere e tornare a sperare, lo sente ed è forte. La vita che nasce fa strani scherzi, s’aggrappa, resiste testarda, insegue ostinata la luce anche nelle tenebre più profonde.
Quindi resiste. Sopravvive nove mesi all’inferno per lei, per la figlia che verrà.

Sono le tre di un grigio pomeriggio di novembre. Una cameretta senza riscaldamento al primo piano d’una vecchia bettola abbandonata. Rimasugli d’un pasto e poche cose di nessun valore sparse intorno. Dal letto sfatto, sudicio, la ragazza s’alza a sedere, poi si piega in due dal dolore. Fitte nella pancia, il travaglio s’annuncia così. Lei stringe i denti, i dolori compaiono a intervalli regolari come le contrazioni. Fuoriesce abbondante il liquido dal ventre colandole sui piedi. Aumenta il dolore. La bimba spinge, vuole uscire.
La ragazza s’accuccia in un angolo, spinge e urla e spinge. Lacrime e sangue, come si dice. E poi dolore e rabbia, e finalmente la gioia d’un vagito.
L’accoglie in grembo, senza più forza né fiato, le resta solo un pianto muto di gioia impastata a disperazione. Una bellissima bambina di tre chili e mezzo. La guarda, l’accarezza con le esili dita insanguinate. Un fagottino che si muove appena, fragile e forte d’una forza inaudita. Tutto il suo mondo è ora racchiuso in quel nuovo esserino.

Ma l’incanto dura poco. Le lenzuola inzuppate di sangue, escrementi e placenta, l’odore acre, il cordone da tagliare, la sporcizia dappertutto. La bimba piange, non smette, ha fame, ha freddo. La madre ha perso molto sangue, è debole, non ha latte. Cerca di cullarla, di calmarla, l’avvolge nell’ultimo panno pulito rimasto. Le canta una vecchia ninna nanna d’anni spensierati, spezzati: la sua infanzia in Kosovo.
La lotta è impari. Vincono la fame e il freddo. La giovane madre è sconfitta, in preda al delirio, decide cosa fare. Aspetta fino a tarda sera, esce con la piccolina e s’avvia lungo la strada tra le ombre delle baracche. Si ferma davanti al cassonetto dell’immondizia, lo apre, bacia la sua bimba un’altra volta, la depone delicatamente all’interno e se ne va.
Forse la mattina arriva all’improvviso, come un lampo accecante. La ragazza apre gli occhi in preda al terrore, stavolta lucida, di nuovo presente. Cerca di ricordare dove ha portato la sua bambina. Corre fuori in preda al rimorso, sperando che non sia troppo tardi. Arriva al cassonetto, lo apre, non trova nulla. Svuotato, completamente, come il suo ventre, il suo cuore, il suo mondo.
Torna alla bettola, non corre più, cammina lentamente, inebetita da troppo dolore. Sale le scale, entra nella piccola stanza dove poche ore prima era nata sua figlia. Fruga nella borsetta, afferra il coltello che teneva per difendersi dai clienti violenti o da quelli del racket se mai l’avessero trovata.
La lama è affilata. L’affonda nelle braccia e la trascina all’interno della carne squarciandosi entrambi i polsi. Lo fa con rabbia, in profondità, da recidere vene, arterie e nervi. Il sangue esce a fiotti e ricopre tutto, mentre lei s’adagia nel letto ormai fradicio. In pochi minuti il calore l’abbandona, si trasforma in gelo e il gelo si trasforma in un sonno profondo, privo di dolore e di respiro.
La morte arriva così, come un sollievo, come una vecchia amica premurosa.

Almeno questo è ciò che molti hanno creduto sia successo, compreso l’ubriaco che ho di fronte.

La storia appena ascoltata è angosciante, spietata, dura come poche altre sentite in passato. Mi lascia dentro un certo malessere, un sapore amaro, inevitabile.
Ma questa storia non finisce qui.
Il fatto è che l’ubriaco s’ammutolisce. Il suo sguardo è sperso chissà dove. Prende la bottiglia per scolarsela tutta. Io gli blocco il braccio, Temo che col pieno di vodka non sia più in grado di raccontare il resto, sempre che un resto da raccontare ci sia.

“È tutto?” gli chiedo “Ma tu come facevi a conoscerla questa ragazza?”
“La bambina…” sussurra.
“La bambina?” lo incalzo “Sai che fine ha fatto?”
“È viva sai… ora dovrebbe avere nove anni!” dice.
“E come s’è salvata?”
“Nina si chiama… ha gli occhi verdi di sua madre!”
A questo punto afferro la vodka e gliela sfilo dalle mani. Lui mi guarda con odio e fa una smorfia. “Ridammela!” ordina rabbioso, mentre il suo fiato puzzolente mi si appiccica addosso.
Mi tappo il naso e gli mostro la bottiglia piena ormai per metà. “Se la rivuoi mi devi raccontare la fine della storia… siamo d’accordo?”
“Per niente amico… ridammi la bottiglia! Le cose regalate non si restituiscono!” raglia sempre più minaccioso.
Mi rendo conto adesso che l’ubriaco appartiene alla categoria di quelli molesti. Gli ridò la vodka sperando di calmarlo, mentre nel nostro angolo l’aria è diventata irrespirabile.
Lui agguanta la bottiglia e mi sorride. È evidente che l’umore degli alcolizzati è assai mutevole e soggetto a cambi repentini, come in questo caso.
Mi chiedo se questo balordo non fosse uno di quegli sgherri del racket sulle tracce della ragazza. Se così fosse mi sarei cacciato in un bel guaio, ma se appartenesse all’organizacija non potrebbe mai essersi ridotto così. Gli osservo le braccia: nessun tatuaggio.
“Allora vuoi sapere la fine della storia?” mi chiede.
“Certo, sono qui apposta, ti ascolto!” faccio io.
“Dunque… quella notte arriva il camion dell’immondizia. Uno dei netturbini sente il pianto disperato della neonata, apre il cassonetto e la trova lì dentro, avvolta in una coperta chiusa da un fermaglio. La raccoglie e la porta subito in ospedale. Era affamata e infreddolita, ma la cosa che preoccupava di più era che soffriva di una forma abbastanza grave di astinenza da eroina… Ma fu curata e alla fine si salvò!”

“E tu come sai tutto questo?” gli chiedo.
“Perché io ero il medico che l’ha curata, amico mio!” dice.

Rimango senza parole. L’ubriaco che avevo di fronte, imbruttito, incattivito, era stato un medico dell’ospedale. “Quindi tu saresti il dottore che ha salvato la figlia di quella povera ragazza? Ma come fai a conoscere la storia di sua madre?” gli chiedo.
“Certo… io l’ho salvata!” dice. Fa una breve pausa, poi alza la bottiglia come per brindare, se la tracanna tutta e aggiunge: “Perché io conoscevo sua madre”
“Ah… ma allora come hai saputo che la bambina era sua figlia?” chiedo io sempre più perplesso.
Lui fa un lungo sospiro, un’altra zaffata puzzolente. Però, nonostante il litro di vodka nello stomaco, sembra stranamente lucido. “È semplice… ho visto il fermaglio che aveva quando l’hanno trovata. C’era il nome di sua madre, Nina. L’ho riconosciuto, gliel’avevo regalato io!”

La storia era decisamente interessante. Già immaginavo come l’avrei intitolata.

“L’hanno deciso quelli del tribunale di darle il nome di sua madre. E…” s’interrompe.

“Ti ascolto” dico io.

“Io sono suo padre! Io ho illuso sua madre e poi l’ho abbandonata! Avevo una famiglia, moglie e figli. Ero un medico stimato… ho avuto paura di perdere tutto e l’ho lasciata da sola nella merda… ma l’amavo davvero! Poi ho visto quella bambina, mia figlia. Ho saputo dalla polizia in che modo era morta sua madre… Tutto per colpa mia! Ho iniziato a bere e alla fine ho perso tutto ugualmente, famiglia, lavoro… Tutto”

Penso che avrei dovuto capirlo subito. “Ma c’è una bambina di nove anni che magari vorrebbe conoscere suo padre… Potresti ricominciare da lei” gli dico.

Lui sorride. È un sorriso amaro, consapevole, lucidissimo. Non è il sorriso che di solito t’aspetti di trovare sulla faccia di un alcolizzato. “Nina ce l’ha già una famiglia. È stata adottata. I suoi genitori sono brave persone. Lei va a scuola, fa una vita normale. Io che c’entro? Poi ho la cirrosi. Mi restano solo pochi mesi e li voglio scontare così”
Si alza, barcolla, mi ringrazia per la bevuta, mi saluta e se ne va.

Di quell’uomo non ho più saputo nulla.

Ottima, anzi pessima storia. La intitolerò Nina.

One (U2, 1991)

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NOTIZIE SCRITTE SOTTO DITTATURA :
le file in farmacia e quelle dei carri armati russi

 

La  Dittatura Sanitaria indigna e fa orrore a curati di campagna (don Tarcisio Colombo, Casorate Primo, Pavia) e a ex insegnanti di filosofia (Massimo Cacciari).

Ma i dittatori e i golpisti veri ci lasciano indifferenti, anzi ci piacciono proprio.

Un ex Presidente del Consiglio (Giuseppe Conte) stravedeva per Trump, era lusingato dalle sue grottesche moine.

Un ex Presidente del Consiglio (Matteo Renzi) va a genuflettersi alla Corte di Bin Salmān in Arabia e indica il Principe come artefice di un Nuovo Rinascimento (con le donne schiave e tutto il resto).

Ma oggi succede qualcosa di più grave e incredibile.

Chi comincia a essere anziano ricorda forse non l’invasione sovietica dell’Ungheria (1953), ma di sicuro quella della Cecoslovacchia di Dubček (1968), e poi le stesse lunghe file di carri armati nel cuore delle città a Pechino nel 1989 contro gli studenti.

E se non ricordate questi fatti sconvolgenti e queste immagini che hanno rigato per sempre gli occhi di tutti noi e di milioni di persone, è bene che li andiate a studiare e rivedere. Cosa avete google a fare? Solo per cercare la pizzeria da asporto più vicina?

Ricordo come fosse oggi i giornali, le prime pagine, i telegiornali, i toni, la gente cosiddetta comune che così comune non era, con lo sgomento nel cuore.

Oggi queste stesse file di carri armati russi per le stesse ragioni invadono il Kazakistan e cosa succede?
Le fotografie praticamente non si vedono, le notizie fanno capolino a stento dalle pagine online dei grandi giornali, nei tg sono la settima, ottava notizia – non dico quali vengono prima, Covid a parte – e con tono pacato, senza uno straccio di condanna, emozione.
Un tg piuttosto seguito ha osato dire letteralmente che il Kazakistan è molto lontano, possiamo considerarlo vicino solo per gli scambi commerciali con l’Italia.

La globalizzazione polverizzata in un colpo. Un virus ci mette un giorno a infettare dalla Cina l’Occidente e l’Africa, mandiamo sonde come palloncini alle origini del tempo, i multimiliardari vanno in vacanza nello Spazio come prendessero un taxi da casa alla stazione, e per noi il Kazakistan è troppo, troppo lontano. Esotico.
Che ci importa di quei carri armati? Che ci importa di un dittatore che ordina in mondovisione di sparare per uccidere i manifestanti in strada?

I conduttori leggono queste notizie con lo stesso tono, la stessa passione, la stessa sintassi di quando leggono l’elenco degli ospiti del talk che seguirà alle 20.30. Le veline delle dittature, quelle vere, che spudoratamente definiscono i movimenti di protesta “terrorismo”, “gruppi di terroristi teleguidati da Paesi stranieri”, quelle veline sono lette ai tg come asettici lanci dell’Ansa. Come “notizie”.
Senza un commento, una domanda, una perplessità, una spruzzatina di dubbio. Senza nemmeno citare la fonte!

Mi seve un giornalista, uno bravo, ma bravo davvero (o un sociologo, o uno psichiatra?), mi serve urgentemente, che mi spieghi come siamo finiti così. Cosa ci sta succedendo. Anzi mi dica esattamente in quale parte di questo universo sono finito, o se per caso non sia stato catapultato in uno di quegli universi paralleli che la fisica quantistica ora ipotizza concretamente e magari presto vedrà.

Sì, vorrei che qualcuno mi dicesse dove sono adesso, perché mi sento davvero confuso davanti alle file di carri armati raccontate con molto meno pàthos delle file per i tamponi alle farmacie.

D’altra parte, sempre di file si tratta, che problema c’è? E poi quelle farmacie sono vicine, troppo vicine, vicinissime. Non come quel Kazakistan così lontano. Che poi magari chissà dove sta.

Questo articolo è già uscito ieri, 9 gennaio 2021, in  http://paterlini.blogautore.espresso.repubblica.it/