Skip to main content

Giorno: 5 Febbraio 2022

Catania,_Palazzo_dell'Università

Lunedì 7 febbraio, a Presa Diretta
GLI “SCANDALI” DEI CONCORSI UNIVERSITARI

 

Lunedì 7 febbraio 2022 alle 21.20 la prima puntata di “Presa Diretta” sarà dedicata agli “scandali” dei concorsi universitari.

  1. Gli annunciati “scandali” concorsuali: localismo, nepotismo e clientelismo

Gli “scandali” concorsuali erano già stati previsti dall’ANDU quando si è opposta alla Legge Berlinguer, che nel giugno 1998 ha introdotto i concorsi locali anche per associati e ordinari.

          Infatti il 27 giugno 1998 l’ANDU aveva scritto: «Con questa legge i concorsi locali ad ordinario e ad associato risulteranno una finzione come da sempre lo sono quelli a ricercatore. Localismo, nepotismo e clientelismo, già ampiamente esercitati nei concorsi per l’ingresso nella docenza, saranno praticati anche nell’avanzamento nella carriera, in misura di gran lunga superiore a quanto sperimentato con gli attuali meccanismi concorsuali» (Università Democratica, n. 162-163, p. 5).

         Poi, nel dicembre 1998, l’ANDU aveva aggiunto: «ora anche la carriera deve essere decisa attraverso una cooptazione personale da parte di quelli che una volta si chiamavano baroni ed è ad essi che bisognerà affidarsi, con adeguati comportamenti anche umani, per vincere concorsi che sono considerati, non a torto, una mera perdita di tempo, un fastidioso ritardo all’attuazione di una scelta già operata.» (Università Democratica, n. 168-169p. 7).

Allora solo Nicola Tranfaglia riconobbe che «il decentramento così realizzato rischia di accentuare gli aspetti di clientelismo e di localismo già forti nelle nostre università.», mentre Umberto Eco, Angelo Panebianco, Giorgio De Rienzo, Aldo Schiavone e Marcello Pera avevano espresso entusiasmo per la nuova legge.

De Rienzo arrivò ad affermare che con le nuove norme della legge Berlinguer «i nuovi concorsi dovrebbero sfuggire alle vecchie logiche mafiose. Infatti sarà più difficile per i membri della commissione stabilire accordi truffaldini, poiché si troveranno a decidere su un solo posto, per un singolo ateneo, e non più posti a livello nazionale.» (V. in Ancora la BUFALA dei concorsi responsabili cliccando qui).

  1. “Scandali” e sistema dei concorsi “pilotati”

Gli “scandali” vanno considerati con preoccupazione perché essi sono il segno che l’autonomia dell’Università è diffusamente intesa e praticata, nel caso dei concorsi, come autonomia del singolo professore di decidere sulla formazione, il reclutamento e la carriera dei docenti/ricercatori. Ed è questo sistema di potere baronale che andrebbe smantellato, senza poi scandalizzarsi quando questo stesso sistema è oggetto dell’attenzione della magistratura amministrativa e/o ordinaria.

Bisognerebbe smettere di negare l’evidenza e di mascherare la difesa dell’autonomia del singolo (la cooptazione personale), con la difesa della finta autonomia degli Atenei. L’autonomia – quella vera – è inesistente da anni (ANVUR, rettore/padrone, etc.).

L’autonomia degli Atenei, o meglio quella didattica e di ricerca dei singoli docenti che ne fanno parte, si può avere solo nell’ambito dell’autonomia dal potere economico-politico dell’intero Sistema universitario e quindi anche costituendo un valido e democratico Organo di rappresentanza e di coordinamento, che tolga alla CRUI il suo ruolo improprio, arbitrario e dannoso svolto da troppi decenni.

  1. Il Ministro, la CRUI e la legge sul precariato al Senato

Lo stesso Ministro ha riconosciuto che “esistono una serie di regole che però ancora non riescono a eliminare dai concorsi opacità e scelte personali né a darci la spinta ad aprire gli atenei all’esterno per selezionare i candidati migliori». E sempre il Ministro ha aggiunto: «Sarebbe il momento di cambiare ma si tratta di un tema complesso. Va affrontato non solo dal ministero ma anche attraverso il coinvolgimento della politica, della magistratura (sic!) e di tanti esponenti della società allargata (?)» (su La Stampa dell’8 ottobre 2021).

La CRUI invece non ha dubbi e in un suo recente documento, facendo riferimento al DDL sul precariato in discussione al Senato (v. nota), ha scritto: «I meccanismi concorsuali, che governano il reclutamento dei professori e professoresse e dei ricercatori e ricercatrici, meriterebbero di essere sottoposti a una revisione coraggiosa, prendendo in esame un sistema di cooptazione, vincolata al possesso dell’abilitazione scientifica nazionale. Si dovrebbe cioè fare quello che si fa in tante altre professioni, sia in Italia sia all’estero, con piena assunzione di responsabilità da parte dei direttori e direttrici di dipartimento e del consiglio di amministrazione. Una valutazione sottoposta a controllo ex post da parte dell’ANVUR e da parte del MUR nell’assegnazione delle risorse premiali».

In altri termini, la CRUI vuole che si semplifichi l’attuale cooptazione personale, cercando di evitare ‘intralci’ di varia natura. E per far prima, la consacrazione della cooptazione personale viene affidata alla “piena responsabilità” dei direttori di dipartimento (nemmeno dei Dipartimenti!) e al CdA. Si mantiene l’ASN, foglia di fico delle scelte di fatto del singolo professore, e si rafforza il ruolo dell’ANVUR (istituita per commissariare l’Università) incaricata anche di un impraticabile controllo ex post.

NOTA. Per la prossima settimana non è prevista la ripresa dell’esame, in sede redigente, del DDL sul precariato da parte della Commissione Istruzione del Senato (v. qui). Può essere il segnale che si voglia ritirare o riscrivere radicalmente un pessimo DDL che, se approvato, danneggerebbe gli attuali e i futuri precari e tutta l’Università? Un DDL respinto unitariamente da ANDU, ARTED, CISL UNIVERSITÀ, CNU, FLC CGIL, RETE 29 APRILE, UIL RUA e UNIVERSITÀ MANIFESTA (v. qui).

  1. Oltre la denuncia. Una proposta organica di riforma dei concorsi

Per contrastare e alla fine eliminare gli “scandali” concorsuali bisogna a tutti i livelli, dai dottorati in poi, escludere il membro interno dalle commissioni, prevedere il sorteggio di tutti i commissari tra tutti i docenti di ruolo e prevedere anche che nelle commissioni non vi sia più di un componente dello stesso Ateneo. Le commissioni dovrebbero stilare una graduatoria dei vincitori che, a scalare, potranno scegliere la sede tra quelle che hanno bandito i posti. Contestualmente va abolita l’ASN.

Si spera che, al contrario, non si voglia, oltre che mantenere il membro interno, introdurre norme che evitino, o rendano più difficoltosi, gli interventi della magistratura, introducendo così una sorta di impunità di fatto.

ANDU – Associazione Nazionale Docenti Universitari

LINEA 5 – SANGUE E ACCIAIO
Una storia vera

 

Molto spesso i racconti sono frutto di immaginazione, sono pensieri collegati alla realtà, alle volte, spesso, non sono veri, vengono infarciti con dalla fantasia e romanzati ad arte dal narratore.
Questo no.

Thyssen Krupp è un gruppo industriale tedesco, con sede ad Assen. I più importanti insediamenti in Italia sono a Terni e a Torino.

Un giorno, intorno ad un tavolo ovale, il management del gigante della produzione dell’acciaio decide di disinvestire nello stabilimento di Torino. In particolare, ritiene la linea 5 non idonea a rimanere in Piemonte. Meglio trasferirla a Terni.

Le scelte delle multinazionali sono spesso discutibili, ma non ammettono discussioni.

E quindi si produce senza grossa attenzione alla manutenzione e alla pulizia. Le ditte in appalto vengono eliminate, tanto ancora pochi mesi e la linea verrà trasferita. Gli operai lo sanno, protestano, ma il ricatto del quindici del mese è troppo importante, il mutuo, l’affitto, la scuola dei ragazzi, la salute, le bollette, la spesa, non si pagano da sole.

Sono mesi che si toglie, sono mesi che i livelli minimi di sicurezza calano a vista d’occhio. Gli estintori vengono sostituiti tutti, meglio optare per un estinguente a CO2 rispetto ad uno a polvere, in caso di utilizzo sporcherà meno il prodotto. Abbiamo fretta, non possiamo perdere tempo a pulire i fogli di acciaio.

Sotto alle linee dei nastri trasportatori i bacini di contenimento traboccano di olio idraulico, ma chi doveva pensare allo svuotamento? Le ditte in appalto, che non ci sono più. Non ne abbiamo bisogno, fra qualche settimana smonteremo tutto, abbiamo fretta.

I pulsanti di arresto di emergenza dislocati ogni dieci metri di linea sono stati bypassati, se li spingi non funzionano. Ma perché, chi l’ha deciso? I capi. Non è che si può interrompere il flusso ogni tre minuti perché un coglione si diverte a spingere il fungo. Ma poi è vero che alcuni pulsanti, a livello progettuale sono stati debitamente installati ma non funzionano da sempre? Mah, così si dice.

Tutta quella carta ammassata in impianto andrebbe smaltita, è fonte di innesco, ed è pure unta. Ci penseranno le ditte in appalto. Ah già, gli abbiamo tolto i contratti di manutenzione; dai, manca poco.

Li avete visti i nastri trasportatori? Nessuno li registra più, carichi con i fogli di acciaio, sbarellano da tutte le parti, alle volte fanno attrito con le travi di sostegno e producono scintille. Qualche volta capita, non sempre, che si appiccano piccoli incendi. Ma i ragazzi sono bravi e con un paio di estintori a testa li spengono. Succede quasi tutte le notti, non è un pericolo, è tutto sotto controllo. Ci sono però delle volte che uno prende in mano un estintore e lo trova vuoto, la ditta che fa le ricariche non riesce a mantenere il ritmo di riempimento, occorre chiamarla, alle volte arriva dopo due giorni, insomma sono tanti gli estintori scarichi.

La notte tra il cinque e il sei di dicembre del 2007, in turno ci sono otto operai. Otto tute blu, otto storie diverse, otto colleghi, forse amici. E’ passata da poco la mezzanotte e la linea 5 ricottura e decapaggio è stata riavviata, come sempre scodinzola un po’, si vede che i tiranti dei nastri sono lenti, mannaggia a loro. Ecco che nel trasporto delle lamine di acciaio, lo strusciamento contro le colonne fa le solite scintille. Ecco che parte la rottura di coglioni, l’incendio. Provano a spegnerlo, qualche estintore non funziona, gli altri a CO2 hanno un basso potere estinguente. C’è fermento tra gli operai, uno corre in sala quadri, avverte gli altri. Nel PLC che controlla la linea non esiste un selettore a chiave che interrompa il flusso, anzi sì, ci sarebbe una sequenza alfanumerica che impostandola blocca i nastri, ma nessuno la conosce, è troppo lunga.

L’incendio aumenta, uno dei ragazzi è pronto con la manichetta, uno prova ad aggredire l’incendio da dietro con un estintore mezzo vuoto. I circuiti idraulici si surriscaldano, un tubo cede, comincia a sputare olio sopra la carta di protezione già in fiamme, i bacini di contenimento dell’olio prendono fuoco poi, in un attimo, l’inferno. Gli otto operai vengono investiti da lingue di fuoco che li risucchiano, li accartocciano.

  • Antonio
  • Roberto
  • Angelo
  • Bruno
  • Rocco
  • Rosario
  • Giuseppe

Antonio muore subito, Giuseppe dopo tre settimane, gli altri dopo ore o giorni.

Solo Antonio B. si salverà. Qualche ustione, prognosi di alcune settimane.

Gli altri? Carne offerta sull’altare del capitale. Nessuna sfortuna, nessun caso, nessuna sorte avversa.  E’ come sparare bendati al gioco dell’orso, nelle giostre di quaranta anni fa. Ad ogni colpo l’orso passa indenne, ma poi, continuando a sparare, sparare, sparare, l’animale a un certo punto alza le zampe e cade a terra.

La Corte d’Appello di Torino condanna i dirigenti del colosso industriale per omicidio colposo. Il primo grado non riconosce l’omicidio volontario. La freddezza dell’esecuzione rimane. Ci sarà un risarcimento. Ma un figlio, un padre, un marito, un fratello, un amico, non hanno prezzo. Il sangue su quell’acciaio non sarà mai lavato.

PRESTO DI MATTINA
Il girasole e il periscopio

«Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce»
(E. Montale, Tutte le poesie, Milano, 1996, 34).

Andando per questi versi di Montale [Qui] – come si va d’estate sotto il sole, cercando un poco d’ombra – pensavo e ripensavo cosa più potesse assomigliare a un periscopio. E ciò che balzò subito agli occhi del pensiero e fu da subito evidente al cuore era che assomigliava proprio a un girasole.

Come tutte le sementi sbuca fuori dal livello della terra, agitata o quieta che sia, piana o ondulata, ergendosi anche sopra tempestose cime. Ma il girasole fa di più. Come un periscopio gira seguendo il sole dall’oriente all’occidente, dal suo sorgere fino al suo tramonto, perché si faccia chiaro e trasparente là dove non si vede bene, nello sprofondo del sommerso, e traspaiano le cose come sono realmente, diradando le nebbie.

Proprio come fa il sole, periscopio che discende per far sorgere e ruotare tra «bionde trasparenze» il «giallino» periscopio/girasole sulla terra.

L’eliotropo − parola greca per dire girasole (elitropio) − oltre ad essere una pianta comune nei campi e tra le macerie e i terreni incolti, era anche uno strumento usato dai topografi per orientare i raggi del sole attraverso degli specchi in un determinato punto, per porre dei riferimenti, misurare distanze e operare mappature topografiche.

Ma non è così quando si scrive e quando si legge? Per gli scrittori e i loro lettori? Le parole, come tanti girasoli, riflettono e comunicano come specchi l’uno all’altra i significati nascosti in loro; significati che vengono alla luce nel riverbero della coscienza, fissando pensieri, fatti, storie, in narrazioni, punti e sentieri di una topografia esistenziale: terreni umani «bruciati dal salino».

Anche salendo in montagna, ad ogni passante di valico, si arriva ad una quota periscopica, dove è possibile osservare il cammino fatto e quello che ancora resta, senza escludere possibili nuove direzioni in un ambiente cangiante, mutato e ancora inesplorato.

Osare il cambiamento è lo stile a cui si è chiamati oggi e non solo nell’editoria, nell’informazione e nella comunicazione; ma nella vita.

È stato così anche per il quotidiano L’Osservatore Romano [Qui] fondato nel 1861: il giornale del papa divenuto un periscopio molto attento sui fatti internazionali, sulla cultura e la vita delle chiese nel mondo.

Ma lo stesso è accaduto per la più antica rivista italiana dei Gesuiti, La Civiltà Cattolica [Qui], nata nel 1850 da un gruppo di gesuiti desiderosi di parlare della “cultura viva”, vicina ai problemi del popolo e avversa alle divisioni tra credenti.

Nel 1975, Paolo VI definì la nascita della rivista un «gesto d’audacia» in un contesto «privo di cultura proporzionata ai bisogni e alle aspirazioni delle nuove generazioni». Dal 2013 è cambiato il font tipografico dal Bodoni al Cardo, che è un tipo di carattere open source, cioè libero, elegante e arioso, molto usato negli ambienti accademici e di ricerca per la sua flessibilità e l’ampio numero di segni propri delle altre lingue, un segnale di apertura alle culture.

Ma non solo. L’intento è stato quello «di condividere le proprie riflessioni non solo con il mondo cattolico, ma con ogni uomo e con ogni donna impegnati nel mondo e desiderosi di avere fonti di informazione affidabili capaci di far pensare e di far maturare il giudizio personale» (CivCat 2013, 3907, 6).

Si legge nelle Memorie della rivista del 1854 che «tutto in un certo modo è opera di tutti»: questo motto degli inizi si ripropone in forma nuova a livello editoriale oggi, che la chiesa con papa Francesco sta affrontando il passante di valico di uno stile e una prassi sinodali; un «giornalismo dunque che funzioni non solamente per trasmissione, ma anche per condivisione».

Fa riflettere la linea editoriale che papa Francesco ha voluto richiamare per un giornalismo che promuova l’informazione e la comunicazione culturale di una chiesa in uscita, che si faccia ponte e frontiera.

Sia nell’incontro del 2013 come in quello del 2017 con i giornalisti e gli scrittori della rivista, il papa sintetizzava il suo pensiero circa la loro missione in tre parole: dialogo, discernimento, frontiera: «Per favore, siate uomini di frontiera, con quella capacità che viene da Dio (cfr 2Cor 3,6). Ma non cadete nella tentazione di addomesticare le frontiere: si deve andare verso le frontiere e non portare le frontiere a casa per verniciarle un po’ e addomesticarle. Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, è urgente un coraggioso impegno per educare a una fede convinta e matura, capace di dare senso alla vita e di offrire risposte convincenti a quanti sono alla ricerca di Dio».

Nel secondo incontro del 2017 aggiungeva alle prime tre parole chiavi altre tre: “inquietudine”, “incompletezza”, “immaginazione”: «il vostro cuore ha conservato l’inquietudine della ricerca? Solo l’inquietudine dà pace al cuore di un gesuita. Senza inquietudine siamo sterili. Se volete abitare ponti e frontiere dovete avere una mente e un cuore inquieti…

Incompletezza. Dio è colui che è “sempre più grande” il Dio che ci sorprende sempre. Per questo dovete essere scrittori e giornalisti dal pensiero incompleto, cioè aperto e non chiuso e rigido. La vostra fede apra il vostro pensiero. Fatevi guidare dallo spirito profetico del Vangelo per avere una visione originale, vitale, dinamica, non ovvia.

E questo specialmente oggi in un mondo così complesso e pieno di sfide, in cui sembra trionfare la “cultura del naufragio” – nutrita di messianismo profano, di mediocrità relativista, di sospetto e di rigidità – e la “cultura del cassonetto”, dove ogni cosa che non funziona come si vorrebbe o che si considera ormai inutile si butta via…

Immaginazione. Questo nella Chiesa e nel mondo è il tempo del discernimento. Il discernimento si realizza sempre alla presenza del Signore, guardando i segni, ascoltando le cose che accadono, il sentire della gente, che conosce la via umile della cocciutaggine quotidiana, e specialmente dei poveri.

La sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita. Ma bisogna penetrare l’ambiguità, bisogna entrarci, come ha fatto il Signore Gesù, assumendo la nostra carne. Il pensiero rigido non è divino, perché Gesù ha assunto la nostra carne, che non è rigida se non nel momento della morte.

Per questo mi piace tanto la poesia e, quando mi è possibile, continuo a leggerla. La poesia è piena di metafore. Comprendere le metafore aiuta a rendere il pensiero agile, intuitivo, flessibile, acuto. Chi ha immaginazione non si irrigidisce, ha il senso dell’umorismo, gode sempre della dolcezza, della misericordia e della libertà interiore. È in grado di spalancare visioni ampie anche in spazi ristretti».

E riferendosi al pittore fiammingo Hans Memling [Qui], che rappresentava la gente con il miracolo della delicatezza del tratto, e ai versi di Baudelaire [Qui] su Rubens “la vie afflue et s’agite sans cesse, / Comme l’air dans le ciel et la mer dans la mer”, così il Papa concludeva la sua riflessione:

«’Sì la vita è fluida e si agita senza sosta come si agita l’aria in cielo e il mare nel mare’. Il pensiero della Chiesa deve recuperare genialità e capire sempre meglio come l’uomo si comprende oggi per sviluppare e approfondire il proprio insegnamento. E questa genialità aiuta a capire che la vita non è un quadro in bianco e nero. È un quadro a colori. Alcuni chiari e altri scuri, alcuni tenui e altri vivaci. Ma comunque prevalgono le sfumature. Ed è questo lo spazio del discernimento, lo spazio in cui lo Spirito agita il cielo come l’aria e il mare come l’acqua».

Nel 2019 altre due parole papa Francesco aveva rivolto ai giornalisti della rivista Aggiornamenti sociali  [Qui] del Centro di Studi sociali di Milano nata nel 1950, mensile di approfondimento e analisi sulle tematiche sociali, politiche, ecclesiali italiane e internazionali, composta da gesuiti e laici: l’ascolto della realtà e il dialogo.

«Bisogna ascoltare la realtà così com’è, mai coprirla, bisogna tracciare piccoli sentieri per andare avanti, avendo come riferimento il Vangelo. Mai si può dare un orientamento, una strada, un suggerimento senza l’ascolto. L’ascolto è proprio l’atteggiamento fondamentale di ogni persona che vuole fare qualcosa per gli altri. Ascoltare le situazioni, ascoltare i problemi, apertamente, senza pregiudizi.

Secondo passo. Ascoltare e dialogare, non imporre strade di sviluppo, o di soluzione ai problemi. Se io devo ascoltare, devo accettare la realtà come è, per vedere quale dev’essere la mia risposta. Fare un dialogo con quella realtà partendo dai valori del Vangelo, dalle cose che Gesù ci ha insegnato, senza imporle dogmaticamente, ma con il dialogo e il discernimento.

Mai coprire la realtà. Dire sempre: “E’ così”. Mai coprirla con quella rassegnazione del “vedremo…, forse dopo cambierà…”. Mai coprirla: la realtà così com’è. Poi, cercare di capirla nella sua autonomia interpretativa, perché anche la realtà ha un modo di interpretare sé stessa».

L’invito ad essere «buoni lettori e buoni scrittori» ci viene invece da Vladimir Nabokov [Qui], che introduce con un saggio che porta questo sottotitolo le sue Lezioni di letteratura (ebook, Milano 1982, 39). «Uso il termine lettore in un’accezione molto libera. Strano a dirsi, non è possibile leggere un libro, si può soltanto rileggerlo. Un buon lettore, un grande lettore, un lettore attivo e creativo è un “rilettore”. Nel leggere un libro, dobbiamo invece avere il tempo di farne la conoscenza», (ivi).

Nakobov narra poi un aneddoto accadutogli in occasione di un giro di conferenze in un college di provincia, dove propose un quiz per verificare tra gli studenti che l’ascoltavano quali dovevano essere i requisiti del buon lettore e anche di chi scrive.

Essi dovevano scegliere tra dieci definizioni di lettore quattro possibili risposte; queste le definizioni: «Un buon lettore dovrebbe: 1. appartenere a un club del libro; 2. identificarsi con l’eroe o con l’eroina; 3. concentrarsi sull’aspetto socioeconomico; 4. preferire una storia con azioni e dialoghi a una che non ne ha; 5. aver visto il film tratto dal libro; 6. essere un autore in erba; 7. avere immaginazione; 8. avere memoria; 9. avere un dizionario; 10. avere un certo senso artistico».

Le risposte degli studenti in quell’occasione si orientarono o all’identificazione emotiva, oppure all’azione e all’aspetto socioeconomico o storico. Alla fine le risposte secondo Nakobov per individuare il buon lettore erano quelle di chi aveva segnato le crocette su «immaginazione, memoria, un dizionario e un certo senso artistico, quel senso che mi propongo – scriveva – di sviluppare in me e negli altri ogni volta che mi si presenta l’occasione».

C’è allora da augurare al quotidiano dal nome nuovo quello che il poeta Valerio Magrelli [Qui] diceva del suo quaderno:

«Questo quaderno è il mio scudo,
trincea, periscopio, feritoia.
Guardo da una stanza buia nella luce»
(Cavie. Poesie, Torino 2018, 42).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Emily, la Natura ovunque

Le abbiamo scelte per voi, alcune poesie dedicate alla Natura della poeta statunitense Emily Dickinson (1830-1886), attenta osservatrice degli elementi naturali. Per lei, considerata fra i più grandi poeti degli ultimi due secoli, la Natura è ciò che conosciamo ma che spesso non sappiamo esprimere. La Natura è ovunque, continua fonte ispiratrice di ogni battito, di ogni respiro, desiderio e sentimento. Colline, meriggi e scoiattoli.

Emily ha saputo cogliere il significato della vita in ogni fremito del creato, in ogni suon battito, respiro e sospiro, ed è stata definita, per questo, una scienziata della Natura. Eccovi allora qualche scorcio, in suo omaggio, pieni di eterna e infinita gratitudine.

 

Consigli di lettura

Emily Dickinson-Natura, la più dolce delle madri (a cura di Silvia Raffo), 2021, Elliot, 176 p.

Emily Dickinson, Centoquattro poesie, Einaudi, 2020, 228 p.

Marta McDowell, Emily Dickinson e i suoi giardini. Le piante e i luoghi che hanno ispirato l’iconica poetessa, L’ippocampo, 2021, 268 p.