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Giorno: 26 Febbraio 2022

Manitas : la sapienza del Sapere delle Mani contro il Pensiero Unico

 

Quando esce un libro è sempre una gioia. È un piccolo tesoro di parole e di idee che volano nell’aria se, come nel caso del libro di cui voglio parlarvi, risuonano nei cuori e aprono le menti.
È il caso del romanzo Manitas dell’amico Gianni Vacchelli che è uscito il 3 febbraio e al quale voglio dedicare qualche pensiero.

Manitas  porta con se un contenuto unico e speciale. È la storia di una bambina, Angelica, che sviluppa pensiero grazie all’intelligenza delle sue mani, un’intelligenza che oggi noi abbiamo delegato alla tecnologia. Le nostre mani si sono fuse con la  tecnologia fino a non conoscere più dove finisce il corpo e inizia l’artificio.
Ci hanno convinto che siamo corpi imperfetti e necessitiamo di protesi artificiali per potere vivere.
Ma questa bambina, non del tutto ancora assoggettata a questa cultura, intuisce, capisce ed elabora pensiero seguendo le sue di mani e quelle della nonna. Sarà proprio l’eredità che riceve dalla nonna che la spingerà a non disperdere la conoscenza delle mani. È un’eredità che risuona in tutti noi, perché è passata per millenni attraverso le generazioni, e ci ha sempre indicato che oltre all’intelligenza logica, astratta della mente c’è un’intelligenza del cuore che passa attraverso gli arti e gli organi del nostro corpo.

Un corpo intelligente, capace di produrre reazioni biochimiche, reazioni complesse che vanno a integrarsi a quell’intelligenza razionale, così esaltata dal nostro mondo occidentale, fino ad acquisire un potere capace di cancellare tutti gli altri.
Ebbene, questo libro acquista un ‘importanza rilevante proprio in questo momento storico perché siamo difronte a uno scontro epocale. Da un lato uno sguardo sul mondo che parla solo dell’imperfezione dei nostri corpi, della necessità di incrementarne artificiosamente l’efficienza dei corpi, come fossero macchine. Dall’altro chi sa che l’essere vivente è molto più di una macchina, che il nostro essere è molto complesso e che la tecnologia non arriva neanche a copiare un decimo della competenza  e della complessità di cui è capace ogni corpo vivente.
Dove per corpo si intende corpo fisico e spirituale come due entità non separate e separabili.

Tutta questa altissima riflessione si snoda con semplicità attraverso le vicende, le fatiche, le scoperte, anche scomode e dolorose, che Angelica si trova a vivere. Angelica, nella contemporanea Milano, vive e cresce attraverso una esperienza mistica.  Le radici terrene,  radici profonde conficcate nella terra, nella terra madre sono il terreno sul quale cresce l’albero della conoscenza dando forma a panorami sempre diversi grazie all’unicità di ogni essere umano.

Vale la pena leggerlo questo romanzo.
Non è un caso se è uscito in questi tempi estremi, tempi in cui sembra primeggiare l’ideale delle identità fluide, digitali, dove l’incarnazione sembra un ostacolo alla realizzazione dei propri sogni. Mentre l’incarnazione, se non è pensata e vissuta come pura materia, ma come un mondo più complesso di energia sottile, può aprire a un futuro nuovo e di salvezza.

Ho amato moltissimo la sapienza del sapere delle mani, punto di partenza del viaggio di Angelica.
Noi donne l’abbiamo ancora molto radicata, mentre a mio avviso, gli uomini, a parte quei pochi che ancora curano la terra, sembra l’abbiano persa. Anzi forse sarebbe giusto dire che gli uomini tendono a volersene liberare proprio per diventare immortali, perché il sapere delle mani e del ventre di Angelica è un sapere che si misura costantemente con la finitezza (che a me viene di chiamare finitudine, come a dire che c’è una fine che poi apre a un altro cominciare) e con la misura del tempo.

Il fare è sempre legato al tempo, l’essere invece no. La tesi del libro è davvero interessante, che condivido. Siamo a un bivio ed è un bivio antropologico. Con un salto quasi quantico, alla fine del libro il bivio antropologico si palesa, e saranno le parole di Angelica a renderlo evidente.
Io spero sceglieremo di vivere nel mondo di Angelica, dicendo un secco no a un mondo in cui il fine è  cancellare il sapere dei corpi, sapere ancestrale che ci mette in dialogo con l’universo e con il tutto.

Lo  stile del romanzo è molto poetico e ha una forza teatrale. Le parole sono tutte molto dense, a tratti forse troppo, nel senso proprio mistico del termine, il che lo rende un piccolo gioiello.
Certo, la domanda di quanti saranno pronti a vivere questa esperienza forte, resta, perché già i lettori sono pochi e ancor meno quelli che sono disposti a farsi avvolgere da un mondo misterico. E’ comunque una bella scommessa, vale la pena portarla in giro per aprire crepe nel pensiero unico granitico che oggi, senza che ce ne accorgiamo, governa il mondo degli umani dove sembra che “dio sia morto”.

PRESTO DI MATTINA
Segui le orme

 

«Segui le orme del gregge», si legge nel Cantico dei cantici. Che altrove aggiunge: «Se non lo sai, o bella tra le belle,/ cammina sulle orme degli armenti;/ avvia le tue caprette,/ avviale alle dimore dei pastori»: come a dire ancora: «Fatti pastorella, e tu pure, tenendo dietro ai pastori, troverai il tuo amato là, dove si raccolgono i pastori sul meriggio».

Insegnamenti quanto mai attuali in questo tempo per le comunità cristiane, chiamate al pari dell’amata del Cantico a mettersi sulle tracce del gregge in cerca dell’Amato. E con lo stesso slancio: più del vino inebriante il suo amore, il desiderio dei suoi baci più del miele alla bocca; un ardente desiderio che ci conduce fuori da noi stessi, alla ricerca delle sue orme.

Sta per iniziare – mercoledì prossimo – il tempo della Quaresima, tempo di mettere i piedi in movimento nell’amore e nella pazienza di Cristo, calcando le sue orme. Una guida che ci precede nel cammino attraendoci.

A noi è chiesto di essere protesi così come ci invita l’incipit dell’inno liturgico della preghiera mattutina: «Protesi alla gioia pasquale,/ sulle orme di Cristo Signore,/ seguiamo l’austero cammino/ della santa Quaresima».

Sì, ancora una volta, una chiesa in uscita! Perché Lui è sempre in uscita, come viene descritto dalla Lettera agli Ebrei, ove si tratteggia una sequela desiderante e amorosa verso l’Amato: «Gesù per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città. Usciamo dunque anche noi dall’accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio, perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura», (13, 12-13).

Non è un itinerario solo penitenziale, quello della Quaresima, ma un seguire, salendo, l’amore; l’esperienza di ciò che ci manca porta alla ricerca di Qualcuno: la presenza dell’Assente, la Parola viva del Silente, lo sguardo del Vivente, il volto dell’Amato che, dopo la Pasqua, precede ancora e sempre oltre i discepoli nella Galilea nelle genti che è l’umanità di oggi.

Ardisco dire allora che la Quaresima è un cammino verso l’intimità di amicizia e di amore con il Risorto, con la sua umanità trasfigurata e di nuovo nascosta nell’umanità dei fratelli e delle sorelle; un cammino mistico che porta all’indicibile e trasformante incontro, che riunisce la vita degli amici del Nazareno, gli uomini e le donne delle beatitudini come unisce nel Cantico l’Amato all’Amata: «l’amata nell’amato trasformata» (Giovanni della Croce [Qui]).

Ecco perché ai miei occhi è apparsa la possibilità di declinare e vivere il senso di questa Quaresima, cogliendola nella corrispondenza con il testo poetico de Il Cantico dei cantici. Nella sua narrazione ho intravisto una efficace e coraggiosa immagine di ciò che ci attende lungo il cammino e del senso di ogni peregrinazione della fede.

Ho pensato che, se a Pasqua si dovrà intonare il canto nuovo della risurrezione, quale guida più coinvolgente e attraente potrà essere la strada in compagnia del Cantico dei cantici?

Scrive Agostino a commento del salmo 149: «Tutti coloro che in Cristo vengono rinnovati e cominciano ad essere partecipi della vita eterna, cantano il cantico nuovo. E questo è un cantico di pace, un cantico d’amore… Quando canti l’Alleluia, devi porgere il pane all’affamato, vestire il nudo, ospitare il pellegrino… Così esalti Dio con la voce, così canti il cantico nuovo, così dici l’Alleluia col cuore, con la bocca, con la vita». Il canto nuovo è il canto dell’amore perduto e ritrovato, l’Alleluia pasquale.

Si canta dice Agostino quando l’amore vuole manifestarsi, cantare è di chi ama: “cantare amantis est”.

È una sfida che si dovrà affrontare lungo il cammino. Ancora l’inno liturgico ci ricorda: «La legge e i profeti annunziarono/ dei quaranta giorni il mistero;/ Gesù consacrò nel deserto/questo tempo di grazia. Sia parca e frugale la mensa,/ sia sobria la lingua ed il cuore;/ fratelli, è tempo di ascoltare/ la voce dello Spirito».

Origene[Qui], commentando il versetto 3 del salmo 23 del buon Pastore in cui si legge «Mi ha fatto ritornare, mi conduce per sentieri di giustizia per amore del suo nome», così scrive: «Il Cristo cammina in testa, come fa il pastore; traccia il sentiero perché le pecore non abbiano che da mettere i piedi nelle sue orme; più tardi, egli inviterà gli amici alla sua mensa. La giustizia è l’abitudine a compiere azioni giuste» (Il salterio della Tradizione, Gribaudi, Torino 1983, 112).

Nel commentario del poeta e mistico spagnolo Luis de León[Qui] le orme sono le parole dell’amato che dialogano con quelle dell’amata: «“Dimmi; o amore dell’anima mia,/ dove vai a pascolare il gregge,/ dove lo fai riposare al meriggio/ perché io non sia come vagabonda/ dietro i greggi dei tuoi compagni”. Fin qui ha parlato l’amata.

Ora parla l’amato e risponde: “Se non lo sai o bellissima tra le donne, segui le orme del gregge e mena a pascolare le tue caprette presso le dimore dei pastori. Non può sopportare un cuore generoso, che chi lo ama soffra molto per lui o per causa sua. Perciò, avendo l’amato capito che l’amata lo desidera e vuole parlargli, le dice di seguire le orme del gregge e lo troverà… L’amata non ignora se stessa, conosce di essere scura e abbronzata dal sole. Ciò che avverte è l’assenza del suo sposo; ciò che desidera è sapere di lui, perciò lo prega di dirglielo».

Le orme del gregge sono la promessa di amore dell’amato, l’ultima sua parola, inizio del sentiero che la porterà all’incontro. La promessa è così parola simile all’orma, tra le tante parole che si scambiano è l’ultima che l’amato le affida come l’orma, dice Luis de León.

L’orma è l’ultima parte del piede capace di segnare il cammino: per questo seguire le orme equivale a lasciarsi guidare dalla promessa d’amore. «Orma in ebraico “hacab”, che è l’ultima parte del piede, il calcagno, e, usando la causa per l’effetto, è come dire: “l’orma che si lascia con il piede e con il calcagno”.

Dire che segua l’orma si può intendere in due modi: che l’amata segua l’amato o che segua l’orma lasciata dal gregge che è già passato; che vada dietro agli stessi capretti, seguendo le tracce che, per amore o per istinto naturale, li guidano verso le madri; esse la congiungeranno al suo amato.

Perché dobbiamo intendere che, come si suole fare, i capretti erano chiusi in casa, mentre l’amato portava le madri al pascolo e nei campi. E aggiunge: mena a pascolare le tue caprette presso le dimore dei pastori, che è come dire: ti porteranno dove le porta l’amore e dove hanno il loro pascolo, che è il luogo dove io sto con gli altri pastori», (Commento al Cantico dei cantici, Roma 2003, 52-53).

Il senso spirituale si può intendere anche in altro modo. La via per trovare Dio e la virtù non è quella che ognuno vuole immaginare e tracciare per conto proprio, ma è già indicata da coloro che ci hanno preceduti nel cammino della fede. La sequela Christi si fa camminando insieme agli uomini e alle donne delle beatitudini, calcando sentieri di giustizia.

Non solo orme, allora, ma anche baci.

Questi introducono l’inizio del cantico e li ritroviamo alla fine come le due polarità attraverso cui principia, si distende e culmina tutta la narrazione della storia drammatica di questo amore: che se è forte come la morte perché ad entrambi non ci si può sottrarre, è tuttavia assai più indomabile della morte: «Un rogo sono i suoi impeti/ d’incoercibili fiamme: non vale/ il mare a sopirne gli ardori,/ né a travolgerlo i fiumi» (traduzione poetica di Agostino Venanzio Reali).

«Mi baci coi baci della sua bocca! Perché buoni sono i tuoi amori, più del vino» (Ct 1,1). Letteralmente sarebbe: «mi baci con qualsiasi bacio», anche fatto di parole e di silenzi, di sguardi o di nascondimenti; tutto può essere un bacio d’amore, l’incontro come l’attesa, purché diventino la trama di una storia in cui una volta si cerca e un’altra si è cercati, ovvero si cerca e si trova insieme.

Il disvelarsi di una presenza, di una bellezza interiore, che rende belli anche fuori in modo sorprendente: «Chi è costei che sorge come l’aurora,/ bella come la luna, fulgida come il sole,/ terribile come schiere a vessilli spiegati?» (Ct 5,10).

L’aspirazione più grande: «Come vorrei che tu fossi mio fratello,/ allattato al seno di mia madre!/ Incontrandoti per strada ti potrei baciare/ senza che altri mi disprezzi./ Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre;/ tu mi inizieresti all’arte dell’amore./ Ti farei bere vino aromatico/ e succo del mio melograno./ La sua sinistra è sotto il mio capo/ e la sua destra mi abbraccia», (Ct 8,1).

A questo proposito ci ha ricordato Gianfranco Ravasi[Qui] nel suo commentario al Cantico, che nella lirica amorosa egizia e mesopotamica, è costante l’uso degli epiteti «fratello-sorella» riferito agli innamorati. Ma lo steso si registra nel linguaggio amoroso dell’antico Vicino Oriente, ove l’amato veniva chiamato “fratello”; come in Ct 4,9.10.12; 5,1 e l’amata era interpellata anche come “sorella, sorella mia”.

Spigolando nelle interpretazioni ebraiche del Cantico si legge: «Nell’ascolto della Parola, il popolo di Dio consegue la più dolce intimità con il suo Signore, riconosce il proprio carisma e pone la sua delizia: “Il Signore… ha parlato con noi faccia a faccia, come chi bacia qualcuno, per la grandezza del suo amore, con cui ama noi più che le settanta nazioni”.

Israele, dunque, “ama camminare dietro la Legge buona”; è la Parola, infatti, la “fonte d’acque vive”, che lo disseta e che scorre perenne “come… le acque del grande fiume che scaturisce dall’Eden”; è la Parola il cibo che lo nutre, la guida che lo conduce, lai dolcezza che lo inebria, la medicina che lo guarisce», (Cantico dei Cantici, Targum e antiche interpretazioni ebraiche, Roma 1987, 69).

Ma è Bernardo di Chiaravalle[Qui], che nei suoi sermoni dà un’interpretazione spirituale suggestiva nel paragonare le tappe e il progresso del cammino spirituale attraverso la simbologia di tre baci. Il bacio dei piedi, quello della mano ed infine il bacio della bocca.

Il primo si riferisce al cammino penitenziale, il secondo alla grazia dell’amicizia del discepolo con il maestro: intreccio di umanità, il terzo è quello dell’intimità e unione mistica, esperienza che avviene dal dono dello Spirito.

Il bacio dunque come segno di riconciliazione, come segno umanissimo di pace tra fratelli poi: bacio santo tra cristiani che ne istituisce la fratellanza. E infine, come “sigillo sul cuore come sigillo sul braccio” (Ct 8,6), il bacio dell’effusione dello Spirito che introduce nel cammino contemplativo e porta all’unione mistica:

«La sua sinistra è sotto il mio capo/ e la sua destra mi abbraccia», (Ct 2, 6) senza tuttavia chiudere nell’intimismo perché risuona la voce dell’amato, che invia ai fratelli e alle sorelle per narrare con il canto anche a loro la prossimità di un amore: «Alzati, amica mia,/ mia bella, e vieni!/ Perché, ecco, l’inverno è passato,/ è cessata la pioggia, se n’è andata;/ i fiori sono apparsi nei campi,/ il tempo del canto è tornato» (Ct 2, 11-12).

Bernardo scrive «Il bacio, tutti lo sappiamo, è segno di pace. Se dunque, togliamo di mezzo l’ostacolo e l’ingiustizia e ci sarà la pace. Pertanto, quando facciamo penitenza, per ottenere la riconciliazione con Dio, dopo aver cancellato il peccato che ci separa da lui, il perdono che ci viene accordato, come altro potrei chiamarlo se non un bacio di pace? Ma noi non dobbiamo posarlo in nessun’altra parte se non ai piedi del Salvatore, poiché colmo d’umiltà e verecondia deve essere l’atto che ripara la superbia della trasgressione.

Ma quando, per vivere una vita più pura ed essere più degni di intrattenerci con Dio, ci vien fatto dono dell’ancor maggiore grazia di una certa piacevole familiarità con Lui, allora leviamo il capo dalla polvere con fiducia ancor più grande, per baciare, come si usa, la mano di colui che ci ha fatto del bene, il benefattore».

Ed infine il bacio per eccellenza, cioè di quello della bocca: «altro non è se non l’infusione dello Spirito Santo. Infatti, se si considera il Padre colui che bacia e il Figlio colui che viene baciato, non sarà fuori luogo ravvisare nel bacio lo Spirito Santo, il quale è la pace inalterabile del Padre e del Figlio, il loro saldo legame, il loro amore inseparabile e la loro indivisibile unità. Abbi fiducia, chiunque tu sia, abbi fiducia e non esitare» (Sermone sul Cantico dei Cantici, Casale Monferrato 1999, 74+)

È così che io immagino il cammino della Quaresima proteso alla gioia pasquale: nel segno dei tre baci della riconciliazione, della dolce amicizia con l’umanità di Cristo e del dono dello Spirito del Risorto, perché è «solamente l’amore che tiene perfettamente uniti» (Col 3,14).

Ho cercato se tutto questo poteva dirsi in poesia ed ho trovato, per grazia, orma e bacio.

Una traccia
Quando tu cammini di buon passo,
loro sono lì a migliaia a seguire la tua traccia:
la coorte degli uomini,
gli occhi sulla nuca, le reni, le caviglie, di colui che
precede.
Migra, la nostra specie, fino alla Terra del Fuoco,
fino al piede sulla luna,
e lascia solo una traccia.

Un lieve umido bacio
Le graminacee accarezzano le dita le dita dei
camminatori dell’alba,
danno del tu alle loro caviglie con un lieve umido
bacio.
Esse benedicono i migranti poi l’alba dei tempi.

(Jean-Pierre Sonnet)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

TERZO TEMPO
Il derby di Siviglia si è fatto grande

Se dovessimo stabilire qual è il derby calcistico più caldo e passionale di Spagna, la scelta ricadrebbe probabilmente su quello di Siviglia: non per via del clima subtropicale, bensì per l’impareggiabile esaltazione collettiva che si porta appresso, e che col passare degli anni ha fatto sì che il dualismo Siviglia-Betis diventasse uno dei temi più chiacchierati del calcio iberico. Gli spagnoli lo chiamano el gran derbi, e viene vissuto alla stregua di un’intensa finale di coppa, perlomeno nel capoluogo andaluso. D’altronde, basti pensare che il 10% della popolazione di Siviglia ha un abbonamento stagionale ai due stadi del derby, cioè il Sánchez Pizjuán e il Benito Villamarín, i quali distano appena 3,7 chilometri l’uno dall’altro.

Così vicini, eppure così lontani: da un lato, Siviglia e Betis hanno in comune un passato tutt’altro che dominante in Liga – entrambe le squadre hanno vinto il massimo campionato spagnolo una sola volta, e per giunta negli anni ’30 e ’40 – dall’altro, l’estrazione sociale delle due tifoserie è apparentemente agli antipodi, e si basa sull’antica contrapposizione fra proletariato (Betis) e nobiltà (Siviglia). Una contrapposizione, questa, che al giorno d’oggi non è più supportata dai fatti.

A proposito di attualità, el gran derbi che si giocherà domenica 27 febbraio (ore 16:15) al Sánchez Pizjuán sarà probabilmente il più importante degli ultimi anni, nonché il più visto di sempre. Sarà anche, e soprattutto, il primo derby di Siviglia con le due squadre così in alto in classifica: il Siviglia di Lopetegui è secondo con 51 punti, il Betis di Pellegrini è terzo a cinque punti di distanza. L’undici di Lopetegui ha la miglior difesa del torneo e, nonostante i numerosi infortuni, può contare su una rosa ben costruita e su un equilibrio tattico consolidato. Il Betis, invece, è il secondo miglior attacco del campionato, e al momento è una delle squadre più imprevedibili del calcio europeo. Insomma, persino sotto quest’aspetto Siviglia e Betis non potrebbero essere più differenti.

Infine, il bilancio dei due precedenti nell’attuale stagione è di una vittoria a testa. Più che il risultato, però, è ciò che è successo sul campo a far parlare di sé: grandi giocate, espulsioni, polemiche e persino un’asta lanciata sul prato del Benito Villamarín da un tifoso del Betis. L’asta ha colpito il centrocampista del Siviglia Joan Jordán [Qui], causando la sospensione e il rinvio dell’incontro, conclusosi il giorno successivo all’incidente senza più tifosi sugli spalti. Tutto ciò ha inasprito ulteriormente la polarizzazione calcistica della città andalusa, il cui derby, tuttavia, sta per scrivere una delle sue pagine più attese.

Cover: foto di LaLiga