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Giorno: 1 Marzo 2022

Cancel culture
La CULTURA della CANCELLAZIONE della CULTURA

 

Utilizzata nel 2017 come tecnica di boicottaggio mediatico dal gruppo afroamericano Black Twitter, eletta dal Maquarie Dictionary a ‘parola dell’anno 2019’ con la definizione di ‘atteggiamento all’interno di una comunità che richiede o determina il ritiro del sostegno ad un personaggio pubblico’, l’espressione Cancel Culture è stata prelevata e rivolta contro le rivendicazioni del Black Lives Matter Movement nel 2020, prima dal senatore repubblicano Tom Cotton, poi dall’ex presidente americano Donald Trump.

Da allora in poi la distorsione della locuzione si è estesa a colpevolizzare tutte quelle pratiche iconoclaste, scatenate dal desiderio di riformulazione del passato, attraverso la rimozione e la sostituzione di statue, monumenti, memoriali e toponomastica considerati emblemi dello schiavismo, del colonialismo e della discriminazione razziale, eretti dai regimi coloniali e mantenuti dalle cosiddette ‘democrature’: finte democrazie, sistemi di governo pseudodemocratici, dittature costituzionali, nei quali i cittadini, oltre al fatto che si tengano delle elezioni, sono completamente tagliati fuori dalle decisioni di tutto ciò che concerne l’esercizio del potere e il rispetto delle libertà civili.

Mentre negli USA e nel resto del mondo, Italia inclusa, le Forze di Polizia sono divenute il volto del fallimento dello Stato nel provvedere ai bisogni fondamentali delle comunità, mentre sempre più persone si stanno convincendo che è meglio de-finanziare e ridurre l’attività degli apparati di polizia sostituendoli con soluzioni civili e non militari, il contenuto di un appello scritto negli USA a soli tre mesi dall’uccisione di George Floyd, mette di fronte alle proprie responsabilità, in materia di intolleranza culturale, non solo il revisionismo di destra, ma anche il cosiddetto ‘liberalismo di sinistra’.

Nei social media, “to cancel someone” è diventato un modo di dire per intendere “togliere il like”, “smettere di seguire” o “togliere il supporto a qualcuno”.
Sull’Urban Dictionary la definizione del 2018 è: “To dismiss something/somebody. To reject an individual or an idea”, letteralmente “Scaricare qualcosa o qualcuno. Rifiutare un individuo o un’idea”.

Utilizzato in maniera intercambiabile con il termine “woke!” (sveglia! stai in guardia! occhio!) per richiamare l’attenzione dei propri contatti su qualcuno o qualcosa che oltrepassa il limite, con “cancel culture”, traducibile come “cultura della cancellazione”, si è iniziato ad intendere quel fenomeno che riguarda movimenti e gruppi spontanei di persone che esercitano pressioni per la rimozione dalla produzione di prodotti culturali o delle persone e aziende che si sono rese colpevoli di discriminazione nei confronti di minoranze, etnie, generi e pensieri.

In questo senso, l’idea di cancellare qualcuno o qualcosa, è il primo passo delle molte altre forme di online shaming (vergogna online) come le recensioni negative, il call out, il doxing, il body shame, rivolte nei confronti di celebrità, dirigenti e personaggi politici.

La Cancel Culture è però stata concepita e viene difesa come una forma spontanea di hacktivismo digitale (hacking + activism) e indica sia le azioni rivolte contro criminali o autori di pratiche poco trasparenti da denunciare e da portare all’attenzione dei colleghi, del pubblico e delle autorità, sia quelle proprie della disobbedienza civile in rete, per protestare contro il mancato rispetto dei diritti civili e contro gli abusi di potere.

La Cancel Culture, come ideologia, non esiste, e da parola impiegata per indicare le pratiche di coloro che hanno messo in discussione l’operato di governi, partiti politici e multinazionali organizzando siti web di controinformazione, petizioni online e altri strumenti per l’abilitazione di tutti i cittadini alla libera comunicazione elettronica, è divenuta un’etichetta che la destra statunitense e, a cascata, la stampa mondiale, ha affibbiato a tutto ciò che riguarda le lotte per i diritti civili.

Evocare lo spauracchio del nuovo fantasma della cultura della cancellazione che si aggirerebbe per il mondo, fa comodo prima di tutti alla destre, ai conservatori, e si sta rivelando molto utile a spostare l’attenzione, a banalizzare concetti come dissenso e libertà di espressione, criminalizzare il boicottaggio come forma di protesta e mistificare un’infinità di fatti e significati sul tratto forte, distintivo del nostro tempo: il totale, sistematico e contraddittorio annullamento di ogni aspetto della realtà, della storia e…dell’appartenenza politica.

Nel mese di luglio 2020, negli USA, nel pieno delle rivolte per la brutale uccisione di George Floyd, 153 intellettuali di vari paesi hanno firmato una lettera-petizione e lanciato un appello contro l’intolleranza culturale.

L’idea è stata lanciata da Mark Lilla, storico delle idee e professore alla Columbia University, e dallo scrittore Chatterton Williams dopo che il direttore delle pagine editoriali del New York Times, James Bennet, si è dovuto dimettere per aver approvato la pubblicazione di un articolo di un senatore repubblicano che chiedeva una risposta militare e che “fossero mandate le truppe” per sedare i disordini dovuti alle proteste del Black Lives Matter Movement con una “dimostrazione di forza schiacciante”.

Un caso di intolleranza capitato anche ad autori i cui libri sono stati ritirati dal commercio per presunte falsità o a docenti ripresi per aver parlato in classe di specifiche opere letterarie controverse – ha spiegato Lilla – riportando tanti altri esempi di scrittori, editori e giornalisti allontanati da istituzioni e realtà lavorative per aver espresso le proprie opinioni o per non aver censurato quelle altrui: “I redattori vengono licenziati per aver pubblicato pezzi controversi; i libri vengono ritirati per presunta inautenticità; ai giornalisti viene impedito di scrivere su certi argomenti; i professori vengono indagati per aver citato opere di letteratura in classe; un ricercatore viene licenziato per aver fatto circolare uno studio accademico sottoposto a revisione paritaria; e i capi delle organizzazioni vengono estromessi per quelli che a volte sono solo errori maldestri. Qualunque siano le argomentazioni su ogni particolare incidente, il risultato è stato quello di restringere costantemente i confini di ciò che può essere detto senza la minaccia di rappresaglie”.

Tra i firmatari e le firmatarie della “Lettera sulla giustizia e sul dibattito aperto (A Letter on Justice and Open Debate), compaiono l’attivista femminista Gloria Steinem, nomi della sinistra radicale come Noam Chomsky, conservatori come David Brooks, accademici come Francis Fukuyama, scrittrici e scrittori come Meera Nanda,  Margaret Atwood, Joanne K. Rowling, Salman Rushdie, Martin Amis, Ian Buruma, Jeffrey Eugenides, giornaliste e opinionisti come Olivia Nuzzi, Anne Applebaum, Fareed Zakaria, David Frum, George Packer e personalità provenienti da svariati ambienti, come lo scacchista Garry Kasparov e il jazzista Wynton Marsalis, uniti dalla preoccupazione che il libero scambio di informazioni e idee posto alla base della democrazia, stia diventando “sempre più limitato”, “ogni giorno più stretto” e mossi dalla convinzione che “stiamo pagando un caro prezzo per tutto ciò, nella misura in cui scrittori, artisti e giornalisti non rischiano più nulla perché sono terrorizzati di quello che potrebbe succedergli non appena si discostano dal consenso e non si uniscono al coro».

Il testo si apre con una lista di rivendicazioni -è giusto chiedere giustizia sociale; è giusto chiedere una riforma della polizia; è giusto considerare la destra come una minaccia per la democrazia- che lasciano rapidamente spazio a un discorso che non ammette eccezioni: gli autori denunciano come anche negli spazi progressisti ci siano reazioni aggressive alle idee e alle critiche.

Dopo le proteste, un dipendente comunale lava via la scritta “Defund the Police” dalla strada fuori dal dipartimento di polizia di Atlanta. (Foto di Alyssa Pointer / Atlanta Journal-Constitution )

Il contenuto della lettera ha creato scalpore e consensi a livello internazionale come primo accenno di rivolta intellettuale sia contro la minaccia alla democrazia proveniente da destra che contro l’intolleranza della cosiddetta “sinistra liberale”.

Liberalismo di sinistra o sinistra liberale sono termini fuorvianti per indicare quella corrente di pensiero né liberale, né di sinistra – e che anzi su molte questioni fondamentali risulta agli antipodi di entrambe queste tradizioni politiche – portata avanti dai partiti moderati di centro sinistra che hanno preparato l’ascesa delle destre non solo con scelte di ordine economico schierandosi con i vincitori della globalizzazione neoliberista, ma anche di ordine politico e culturale, attaccando i valori e gli stili di vita di coloro che un tempo erano i loro elettori di riferimento, ridicolizzando i loro problemi, le loro lamentele e la loro rabbia, finendo con il far assumere ai propri esponenti l’identità di opportunisti voltagabbana passati dall’altra parte della barricata.

I firmatari, dopo aver osservato come le imponenti proteste per la giustizia razziale stiano portando a sacrosante richieste di riforma della polizia, insieme ad appelli più generali per una maggiore uguaglianza e inclusione sociale, sottolineano come anche le istituzioni culturali stiano affrontando un momento difficile che favorisce solo e soltanto il conformismo ideologico, in un clima di intolleranza, oscurato dalla tendenza a dissolvere questioni politiche complesse in riduttive e accecanti certezze moraliste.

Mentre ci si aspetterebbe tutto ciò dalla destra, la censura, il livellamento ideologico e il dogmatismo si stanno diffondendo anche dalla cultura di sinistra, limitando sempre di più il libero scambio di informazioni e di idee, abbassando sempre di più il livello intellettuale del dibattito e limitando la capacità di partecipazione democratica di tutti: “Noi affermiamo l’importanza delle opinioni contrarie, espresse con forza e anche in modo tagliente, da qualunque parte provengano. La strada per sconfiggere le idee cattive è smascherarle, argomentare e persuadere, non cercare di metterle a tacere o sperare che scompaiano”.

La lettera, pubblicata un anno fa sulla rivista Harper’s Magazine poi rilanciata dal New York Times e da molte altre testate internazionali, ha suscitato apprezzamenti e critiche quando il neologismo Cancel Culture era appena entrato nel lessico comune di attivisti, giornalisti, commentatori politici e artisti nordamericani, per descrivere fatti di accesa critica e tendenza all’ostracismo, alla censura, al bullismo digitale, al public shaming, avvenuti nei confronti di chi avesse espresso opinioni non in linea con quella che si caratterizza come la “cultura dominante” o come la religione civile del “politicamente corretto”.

Benché nella lettera il riferimento risulti evidente, l’espressione “cancel culture” non compare e non viene nominata, così come non viene fatto alcun riferimento al revisionismo o alla furia iconoclasta dell’abbattimento delle statue.

Compatti nel denunciare l’intolleranza culturale e nel difendere la libertà di pensiero e parola, nella lettera il gruppo di intellettuali celebra “le richieste più ampie di maggiore uguaglianza e inclusione nella società” scaturite dalle proteste, sottolineando però come insieme a queste si fosse “intensificata una nuova serie di atteggiamenti morali e politici che tendono a indebolire le norme di dibattito aperto e tolleranza delle differenze a favore del conformismo ideologico”.

Una deriva respinta rifiutando dogmi, censura e coercizione: “Le forze illiberali stanno guadagnando forza nel mondo (…). L’inclusione democratica che vogliamo può essere raggiunta solo se facciamo sentire la nostra voce contro il clima intollerante che ha preso piede in tutte le parti”.

L’ideale del liberalismo è la libertà, perché solo nella libertà, cioè in una condizione che li affranchi da qualsiasi vincolo e controllo, gli esseri umani trovano gli stimoli per dare il meglio di sé stessi e progredire intellettualmente e socialmente: il primo caposaldo del liberalismo, pertanto, è la tolleranza nei confronti delle opinioni altrui.

Il tipico liberale di sinistra, invece, si caratterizza per un atteggiamento diametralmente opposto: un’estrema intolleranza verso chiunque non condivida la sua visione delle cose e tenti di svincolarsi dall’imposizione di ideologie dogmatiche che non ammettono confronto, critica e discussione.

14 giugno 2020, Milano, un addetto del comune pulisce le scritte contro la statua di Montanelli nei giardini di Porta Venezia (Photo by MIGUEL MEDINA/AFP via Getty Images)

Oltre che negli USA, il liberalismo di sinistra ha svolto ovunque un ruolo importante nel declino e nella caduta del dibattito politico e culturale.

L’impoverimento, la precarietà, l’insicurezza sociale, l’indebolimento dei legami sociali, l’evaporare di identità collettive: sono questi i temi qualificanti della “ragione liberista” sia di centro destra che di centro sinistra.

L’imperante ”estremismo di centro” cioè quel modo d’essere politicamente dominante e “politicamente corretto” che garantisce libertà di espressione e di organizzazione politica ma che nega anche con violenza ogni possibilità di condizionare, influire, combattere ad armi pari con l’oligarchia globale, sta negando da un lungo periodo di tempo ogni vera possibilità di scelta elettorale, perché i partiti di centro destra e di centro sinistra perseguono sostanzialmente lo stesso tipo di politiche, convinti che non possano esistere alternative alla dominante globalizzazione neoliberista.

Declinato a destra con xenofobia, razzismo, elogio del libero mercato e delle differenze di classe e di censo, ammainate a sinistra le bandiere dell’uguaglianza, della libertà e della solidarietà, l’incitamento all’odio delle destre e l’intolleranza dei liberali di sinistra si stanno dimostrando vasi comunicanti che hanno bisogno, si rafforzano e si specchiano l’uno nell’altro.

Per far riferimento e proporre un metodo di analisi sull’azione congiunta svolta da entrambe le parti sul martoriato corpo delle nostre società civili o sulle implicazioni del passato storico del colonialismo, andrebbe coniato il termine e approfondito il concetto di “Cultura della Cancellazione della Cultura”.

In copertina: Banksy: Graffiti Removal, Leake Street, Londra 2008.

Per leggere la rubrica La vecchia talpa occorre prendersi un po’ di tempo. Si tratta di lunghi articoli, o brevi saggi, ben documentati, che approfondiscono temi e argomenti che non troverete mai su altri giornali e riviste. Per questo, se avete un po’ di tempo da perdere, imparerete qualcosa di nuovo.
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La vecchia talpa

Arianna Di Romano: “Ho rubato centinaia di sguardi”
Ferrara, Palazzina Marfisa, fino al 12 giugno

Arianna Di Romano, foto di Andrea Forlani

Ho rubato centinaia di sguardi per renderli eterni negli spazi vuoti della memoria
Arianna Di Romano

Un giorno di una data palindroma, fuori il sole, fa un tepore straordinario per essere il 22 febbraio. La mia pausa dall’infinita ed ennesima giornata in smart working, quello da cui non stacchi mai, che alcuni dicono che fortuna e che fortuna è ma che bisogna saper gestire. Stacco, oggi basta, devo camminare e prendere aria. E poi ieri, incuriosita, ho prenotato questa mostra di fotografia che vi voglio presentare. Cappotto, tuta, scarpe da tennis e via. Da piazza Verdi, verso via delle Scienze, mi dirigo verso via dei Coramari, voglio passare per il parco Pareschi, ci sono tanti bambini che giocano qui, fidanzati che si abbracciano sulle panchine. Era tempo che non vedevo gesti di affetto e di avvicinamento. Tutti assediati dalla paura del contatto. Nelle orecchie le cuffiette con le note di uno dei miei pianisti preferiti Alexis Ffrench. Sono rilassata, finalmente. Arrivo a fine di corso della Giovecca, alla Palazzina Marfisa d’Este, dove sono diretta per vedere la mostra fotografica di Arianna Di Romano, Oltre lo sguardo.

La purezza. Popoli delle montagne, Laos, 2015

La ragazza alla reception che mi fa il biglietto e dalla quale acquisto il catalogo della mostra è molto gentile, altrettanto la hostess della sala, alla quale ahimè non ho chiesto il nome, ma con cui mi metto subito a commentare. Non posso fare a meno di parlare con chi passa le sue giornate nelle sale di museo, mai. È una mia abitudine un po’ birichina. L’allestimento è semplice ma molto indovinato. Una sala dei ritratti ospita ritratti, i soffitti affrescati e il mobilio scuro fanno da cornice. Le fotografie sono avvolgenti e parlano da sole, tutte rigorosamente in bianco e nero, salvo quattro a colori, almeno ne ho contate quattro. Ogni foto ha una sua anima profonda e unica, ci si fa un’idea, salvo poi rimanere stupiti dai titoli. È il racconto di frammenti di umanità raccolti in giro per il mondo, un invito allo spettatore a spingersi “oltre lo sguardo”, oltre l’illusoria, e spesso fuorviante, apparenza del dato reale, alla ricerca di una diversa, e autentica, bellezza. Il bianco e nero ha una forza prorompente, ogni ruga di viso viene esaltata, quasi a voler sottolineare quanto quell’essere profondamente scavate porti sofferenza o magari semplicemente un vissuto lungo e intenso. Quelle vene mi ricordano i rami degli alberi.

Torno indietro con la mente alla mia adolescenza, quando mamma tentava di imbrigliare e direzionare la mia creatività senza orientamento nelle lezioni di pittura del maestro Goberti nella chiesa sconsacrata di piazzetta San Nicolò. Quanta enfasi sul chiaroscuro, sull’importanza delle sfumature e dei contorni dei disegni a carboncino. Quanto sforzi per dare le giuste ombre, per enfatizzare le profondità e le dimensioni, per imprimere un tratto originale e distintivo. Dal buio alla luce, in un’armonia e armonizzazione fatte di reciprocità. Qui rivedo quel tentativo, molto meglio riuscito, di trovare la giusta dimensione, di comunicare la corretta angolatura.

Mi perdo nelle immagini delle sale, ancora ho letto poco sull’artista, lo farò a casa, catalogo in mano e consultazione della rete. Voglio prima vedere bene il suo lavoro, non lasciarmi influenzare da nulla di scritto, detto o letto. A ruota libera, come faccio sempre quando visito una mostra, soprattutto di fotografia. Se mi guida da qualche parte, perfetto, altrimenti chiudo lì, amici come prima. Ho solo letto che Arianna segue e aiuta gli ultimi della terra e che ha viaggiato molto. L’essere un garbato viandante che coglie le anime che incrocia sulla sua strada mi accomuna e avvicina a lei. Un buon inizio.

L’attesa. Transilvania, Romania, 2019

Questa brillante fotografa si è spostata con il suo obiettivo dai più remoti villaggi del Sud Est asiatico, della Romania e della Polonia, fino ai campi profughi e rom in Serbia e Bosnia, dai paesi della sua terra natale, la Sardegna, alle celle di un carcere siciliano. La sua sensibilità l’ha portata a focalizzarsi sulle vite “difficili” degli emarginati, degli indigenti, dei senzatetto, dei ragazzi di strada, dei gitani, dei detenuti, dei poveri, degli anziani rimasti soli. Spicchi di vita comunitaria, tradizioni antiche. Nuovi mondi da scoprire.

La fuga. Artisti circensi, 2018

Le foto più belle, a mio umile avviso, sono quelle della Sicilia, forse anche perché amo questa terra fatta di sole, sensazioni, colori e profumi intensi. Anche in bianco e nero si colgono i colori. La fragilità di alcuni personaggi ripresi in diversi momenti della vita quotidiana, fatta anche di confessioni e balli, è disarmante.

Mi soffermo su Dentro la storia (Sicilia 2016), quella signora mi ricorda le fotografie delle mie nonne (soprattutto per le mani rugose che reggono la foto nella foto), abbigliate a festa, con il bel cappottino a quadretti e l’elegante (e nuovo) rossetto rosso brillante, per la passeggiata domenicale con la famiglia, magari a braccetto di papà.

Dentro la storia, Sicilia, 2016

Le confessioni sulle scale di Gangi (Sicilia, 2019) mi fa pensare al saliscendi di chi sbaglia e torna indietro, per cadere e rialzarsi, inciampando, ma cercando sempre di (ri)salire, Quei dubbi (Pietraperzia, Sicilia, 2015) mi ricorda un simpatico Don Camillo d’altri tempi.

Confessioni Gangi, Sicilia, 2019
Quei dubbi. Pietraperzia, Sicilia, 2015

Il ricercato dei Murales Animati di Orgosolo (2021) se ne sta seduto sfacciatamente alla finestra, quasi a voler direi sono qui, è inutile che cercate, tanto mi fermo qui e non mi pento di certo di quello che ho già fatto. Che peraltro potete leggere chiaramente perché affisso a chiare lettere sul muro scalcinato (attentato al diritto allo studio, tentato inscatolamento di persone in un pullman, latitanza prolungata da tutte le assemblee studentesche…).

Murales Animati di Orgosolo, 2021

Il ballo di Un’antica danza a Villa Mazzone di Caltanissetta (2016) ci porta in una sala di ristoro di un pomeriggio tiepido e spensierato, un po’ di leggerezza dalla fosca pesantezza che sta attorno, una casa di riposo. La signora anziana, elegante, con il suo cappello, le scarpe dorate e i suoi gioielli più buoni, sorride più della suora, un po’ più seria e altera, ma si intravvede comunque una sorta di complicità serena che ci fa bene.

Un’antica danza a Villa Mazzone di Caltanissetta, 2016

La Cambogia, la Thailandia e il Myanmar sono molto presenti: gli occhi parlano, le mani, le rughe e le schiene ricurve pure. Ho ricordi intensi del mio breve viaggio in Myanmar, quando ancora si sperava un po’ di più; l’oro delle pagode di Yangon mi avvolge ancora l’anima.

Qui la mia anima accarezza quelle di Arianna e dei suoi ritratti. Mi sento un tutt’uno. Un mondo che si tocca, che si parla, che si lecca le ferite, vite che si sfiorano e si riconoscono. Parte di un tutto potente e meraviglioso, di un mondo che ha energia e voglia di vivere. Non di sopravvivere, almeno non più. Quello non basta più. Il dialogo qui è fatto di mani e occhi che si sfiorano. In quegli occhi di bambini e donne vedo le sofferenze che sono di ognuno di noi ma che ci fanno sperare, una volta inciampati, caduti e rialzati. Una delicata empatia.

Gli sguardi delle bambine e delle donne ci accompagnano ancora, come in Donne e songhtaew, l’affollato veicolo trasporto passeggeri (Bangkok, Thailandia, 2015).

Donne e songhtaew. Bangkok, Thailandia, 2015

Arrivata a oltre metà percorso, noto le tre foto a colori, esse chiudono la fila delle immagini della sala, così come un’ultima foto a colori, intitolata Nell’antica capitale (quartiere di Gion, Kyoto, 2015), chiuderà l’esposizione. La vita scorre su queste immagini, quella più vera, con la sua intensità e precarietà. Ma anche fatta di infinita bellezza.

Nell’antica capitale, quartiere di Gion, Kyoto 2015

La monaca di spalle (Angkor Wat, Cambogia, 2014) illumina la sala con il suo abito arancione, se non fosse per la didascalia penserei a un monaco dai capelli grigi, appoggiato a un bastone che regge la sua fatica data da un’intensa preghiera per un mondo che non comprende l’importanza dell’essere umano e della vita. Una preghiera che a noi pare cadere nel vuoto, soprattutto oggi, ma che la monaca sa essere importante. La guerra non è mai la soluzione. Quell’incedere zoppicante fa molta tenerezza ma allo stesso tempo emana una forza immensa. Appesi a una speranza, molti di noi, tutti. Ma senza mollare, mai.

La monaca. Angkor Wat, Cambogia, 2014

La scalinata riempita di fiori rossi e arancio dei Giardini della città imperiale Hué (Vietnam, 2016) ci transita nell’ultima sala. I colori dei fiori contrastano con quelli del cielo, ma non lasciano spazio alle nubi. Il marmo è vivo. I dragoni distesi osservano.

Giardini della città imperiale Hué, Vietnam, 2016

Fino al ritrovarci avvolti dalla precarietà degli ultimi del carcere di Caltagirone ne La speranza (2021), dove Arianna ha condiviso, con alcuni ragazzi, un percorso di avviamento alla fotografia. Resta sempre un barlume di speranza, per tutti.

La speranza. Casa circondariale di Caltagirone, 2021

Torno a casa, soddisfatta e, ammetto, un pò commossa. Ceno. Subito dopo mi siedo in poltrona. Ora posso cercare qualche informazione in più su Arianna Di Romano e sfogliarmi bene il catalogo. Faccio sempre così, mi piace mantenere questa abitudine rilassante.

Arianna è sarda ma siciliana di adozione (oggi vive nel piccolo e armonioso borgo di Gangi, sulle Madonie), le sue fotografie vengono paragonate a quelle di maestri come Elliott Erwitt e Robert Doisneau per poesia e composizione, Sebastião Salgado per il trattamento dell’immagine, Sergio Larrain e Dorothea Lange per l’attenzione agli ultimi.

“Fotografando, scavo nell’umanità dimenticata – ha spiegato Di Romano – che amo e di cui vorrei trasmettere la bellezza. Vivo le sensazioni che provano le persone che ritraggo, mi identifico in loro. Continuamente cerco me stessa nell’altro”. È una donna curiosa, sensibile, felice e impaziente. Veloce. La rassegnazione è la condizione umana che l’artista ha registrato più frequentemente, fissandola ma anche sfuggendole. Pochi i sorrisi, molto lo stupore nell’essere riconosciuti e considerati. Ma la vita corre, si muove, non aspetta.

C’è tecnica sicuramente, precisione e osservazione ma anche cuore e tanta magia. Oltre lo sguardo significa soprattutto andare aldilà di quello che gli hindu chiamano maya ossia l’illusoria e fuorviante apparenza del mondo fenomenico, per cogliere l’anima dei soggetti umani. In Malesia l’hanno denominata “ladra di anime”. Gli abitanti, in gran parte animisti, non volevano farsi ritrarre per timore che venisse rubata loro l’anima. “Quello che mi spinge a fotografare – dice – è proprio rubare uno sguardo profondo. I volti che incontro li rubo, perché appartengono a persone che non sono mai in posa, sono tutti sguardi che quasi sicuramente non incontrerò mai più. Spesso non riesco a comunicare con loro. Rubo quegli sguardi per dare loro una voce”. E noi, quella voce, l’abbiamo sentita, forte e chiara.

I colori della festa. Cagliari, Sardegna, 2018

Tutte le opere © Arianna Di Romano / Kingford

 

Arianna Di Romano – Oltre lo sguardo

Ferrara, Palazzina Marfisa d’Este, 20 febbraio / 12 giugno 2022

Da un’idea di Vittorio Sgarbi. Organizzata da Comune di Ferrara – Servizio Musei d’Arte e Fondazione Ferrara Arte, in collaborazione con Kingford.

Giorni e orari di apertura

9.30-13 / 15-18 | Chiuso il lunedì

Prenotazioni

https://prenotazionemusei.comune.fe.it

SCARPETTE ROSA
… un racconto

 

Caro diario,
oggi è uno dei giorni più tristi della mia vita.
Ho deciso.
Smetto di andare a danza.
Ricordo quando ho iniziato.
Ricordo tutto.
Avevo otto anni e la sala mi sembrava enorme.
Ero strafelice.
La mamma mi diceva un sacco di cose, ma io non riuscivo a staccare gli occhi dalle ragazze più grandi che, leggere come l’aria, rientravano ancora danzando nello spogliatoio, mentre noi, le più piccole, stavamo per iniziare la nostra prima lezione con la nostra giovane insegnante.
Mi piaceva tutto di Debbi.

 

Oggi ho salutato Debbi.
Le ho detto che non riesco più a seguire, lo studio, l’Università a Bologna poi…
Poi sono scoppiata a piangere
Non sarò mai una ballerina!
Fino a che nessuno te lo dice in faccia, continui ad andare avanti, fai le stesse cose che fanno le altre, non vuoi ammetterlo, anche se hai capito.
Si, Debbi è molto brava a mascherare ciò che pensa veramente, ma il suo sguardo parla chiaro.
Quando posa gli occhi su di me il tempo non passa mai.
Aspetto le sue parole come il giudizio di Dio.
Basta una sua inflessione di voce differente a farmi capire che non vado bene.
Da fuori nessuno se ne accorge, lei si.
Ma io non mi piego.
Continuo.
Io sono brava, Debbi!
Come Irene.
Adesso mi dirà che Irene viene tutti i giorni ad allenarsi e fa Medicina a Bologna!
Irene ha le gambe lunghe fino al cielo e sottili.
Io ho delle belle gambe, ma sono come quelle della mamma.
Debbi le vorrebbe come quelle di Irene.
No Debbi, non mi interessa cambiare corso, ho capito.
Mi sento come quando mio fratello mi svelò che Babbo Natale non esisteva, che erano i genitori!
In un attimo la polvere magica del Natale cadde per terra facendomi vedere le cose come erano in realtà.
La realtà non mi è mai piaciuta.
Tutti dicono che sono una ragazza con la testa sulle spalle, ma io la testa la lascio da sempre viaggiare lontano.
Lontano da chi non è gentile.
Lontano da chi ti mette in difficoltà.
Lontano da chi ti fa sentire inferiore.
E allora quando mi sentivo un po’ giù di corda, in camera mia ballavo e sognavo.
Tutto così tornava al suo posto.
Quando i miei genitori erano fuori, accendevo tutte le luci della sala da pranzo, spostavo il tavolo, mettevo su la musica e ballavo fino allo sfinimento.
Una ballerina, volevo diventare una ballerina.

 

-Accidenti… l’armadietto!
Non ho svuotato l’armadietto.
Torno indietro adesso, qui non ci voglio più mettere piede, almeno per un po’!-
-Ire, ma sei ancora qui!-
– Si… non voglio andare a casa-
-Ah, beh… scusa… devo aprire l’armadietto alle tue spalle. Non vuoi tornare a casa?
Ma perché non vuoi tornare?-
-Da quando non c’è più mamma…-
-Si, ho saputo, terribile.
Ascolta, ho una idea. Vieni da me questa sera! Mio fratello è dalla sua ragazza, e tu puoi dormire lì. Domani poi andremo in stazione assieme!-
-Sai che ti dico di sì! –
-Posso abbracciarti?-
-Certo… dai vieni qui-
-Ma cosa stavi prendendo dall’armadietto?-
-Che armadietto?
Ah si, l’armadietto! Nulla, sai le cose da lavare, se no per venerdì non saprei proprio cosa mettermi, non ho più nulla di pulito!-