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Giorno: 7 Aprile 2022

C’è un’altra guerra sotto la guerra in Ucraina.
Verso un nuovo ordine monetario internazionale?

 

Donbass e Est Ucraina sono ricche di materie prime, gas (il più grande giacimento dopo quello norvegese), terre rare, grano, etc. Inoltre credo ci sia un interesse geopolitico di Putin nel creare una continuità con la Crimea, chiudendo lo sbocco a mare all’Ucraina. Non sono esperto di geopolitica ma credo che Putin voglia disporre di quest’area non solo per fini espansionistici.

Le grandi potenze si muovono per interessi concreti e credo che dietro questa invasione ci sia “molto di più”, non credo come occupazione di altri Stati, ma un nuovo ordine mondiale basato su una nuova competizione monetaria.

Gli Stati Uniti fecero guerra all’Iraq non per le armi batteriologiche di Saddam (che proprio gli Usa gli avevano dato contro i curdi ma che erano finite) ma per disporre del petrolio di cui avevano una assoluta necessità in quegli anni.
Lo disse con grande chiarezza Alan Greenspan (L’età della turbolenza, 2007, pag.520), chairman della Federal Reserve dal 1987 al 2006, principale consigliere economico della Casa Bianca dal 1974 al 1977 e dal 1977 al 1987 e membro del CdA della Mobil (una delle maggiori corporation petrolifere al mondo): “Nonostante abbiano sbandierato ai quattro venti la paura delle “armi di distruzione di massa” (irachene), le autorità statunitensi (…) erano mosse soprattutto dal timore di veder precipitare nella violenza una regione nella quale si trova una ragione indispensabile al funzionamento dell’economia mondiale. Mi rincresce che sia così politicamente scorretto affermare una verità che tutti conoscono: la guerra in Iraq è stata soprattutto una guerra per il petrolio”.

Anche oggi c’è forse qualcosa di analogo in ballo con un’aggiunta: l’idea di creare un nuovo sistema monetario mondiale imperniato sullo Yuan cinese.
Prima della guerra il cambio dollaro/rublo era 1:80, poi il rublo con l’invasione si è svalutato fino a 1:160 rubli, ma ora (5 aprile) è ritornato ai livelli pre-guerra (1 dollaro: 83 rubli), la borsa di Mosca è salita del 6%, il titolo Gazprom del 12% ed è salito pure il prezzo del gas (127 euro per MegaWattora). Secondo gli analisti l’Europa continuerebbe a pagare in euro Gazprom che con la sua banca acquista con euro rubli per conto del cliente europeo e li trasferisce su un secondo conto in rubli. Un’operazione che consentirebbe di rivalutare il rublo…il quale però, senza che tutto ciò sia avvenuto, si è già rivalutato del 100%.

Significa dunque che ci sono aspettative negli operatori mondiali che vanno al di là del pagamento in rubli del gas.
Un primo indizio è che dal 28 marzo la banca centrale russa ha dichiarato che il rublo è stato agganciato all’oro (5mila rubli per un grammo fino al 30 giugno). E ciò ha indebolito il dollaro perché oggi conviene acquistare l’oro in rubli anziché in dollari (che è la causa della sua rivalutazione).

Ma c’è molto altro. In ottobre 2020 Russia, Armenia, Kazikistan, Kirghizistan hanno stipulato un accordo con la Cina al fine di creare non solo una zona di libero scambio (EAEU), ma un abbozzo di potenziale nuovo sistema monetario euroasiatico, il cui valore fosse fondato su un paniere di monete (le loro) e di materie prime (di cui Cina e Russia sono leader a livello mondiale). E’ una vecchia idea di Keynes che voleva ancorare la moneta internazionale al valore delle materie prime. E nel 2009 il governatore della Banca popolare cinese lo aveva proposto raccogliendo l’interesse di India, Russia e Brasile (i famosi BRICs).

Può essere che. finita un’epoca in cui forse era possibile una collaborazione dell’Europa con la Russia, Putin abbia deciso di invadere l’Ucraina e di accelerare questo progetto, guidato dalla Cina. Non mi stupirei se diventasse reale tra qualche mese.
Lo pensa anche Barry Eichengreen, della Berkeley University, che ha scritto sul Financial Times: “La guerra in Ucraina sta erodendo le basi dell’egemonia monetaria Usa”. Inoltre il Wall Street Journal conferma le trattative tra Cina ed Arabia Saudita per pagare in yuan il petrolio, che sarebbe un duro colpo all’egemonia monetaria Usa. Lavrov, il ministro degli esteri russo, si è recato in India proprio l’altro giorno.

Chi ha seguito la vicenda dei petrodollari degli anni ’70 sa bene quanto essi siano stati alla base dell’addio del Gold Standard (1944) e del fatto che nel 1971 venne sospesa unilateralmente la convertibilità del dollaro all’oro. Il segretario del Tesoro John Connally disse brutalmente: “il dollaro è la nostra valuta, ma un vostro problema”, inaugurando l’era del Dollar Standard nel 1978 sganciato dall’oro.

Oggi la fiducia al dollaro sui mercati è ancora forte e non si basa sull’oro, ma sulla forza dell’economia Usa, del suo potere militare e della ampiezza e liquidità dei mercati finanziari. Ma una moneta concorrente, fondata sulla solidità delle materie prime – che oggi servono non solo per cibo ed energia ma per tutte le tecnologie avanzate – avrebbe probabilmente un vantaggio competitivo sul dollaro. Soprattutto in un contesto dove il potere economico americano declina mentre quello cinese cresce e, al posto della liquidità finanziaria anglosassone, ci sono le materie prime alimentari ed energetiche di Cina/Russia e dei loro potenziali alleati (Africa, zone russofone).

E’ dunque possibile che si pensi di creare una moneta rivale al dollaro che abbia ben più dell’8% di circolazione che hanno oggi yuan-rublo e ciò avrebbe rilevantissime conseguenze in termini di potere e arricchimento di quei paesi che la emettono (in opposizione agli Usa) e a cui guardano con interesse immensi paesi come India, Pakistan, Africa, Brasile, Medio Oriente…Proprio quella ‘minoranza’ che si è astenuta all’ONU sulla condanna alla Russia e che rappresenta il 55% degli abitanti nel mondo.

Chi rimarrebbe più spiazzato se dovesse decollare un tale disegno bi-polare è l’Europa. Quell’Europa che, con la nascita dell’Euro nel 2001, si era trovata davanti un’immensa “prateria”, potendo diventare nei primi 7 anni in cui era in ascesa, un polo mondiale (amico degli Usa). ma dialogante con la Russia, sviluppando la pace nel mondo e armonizzando le unilateralità di Usa e Cina.

Ancora una volta tornano in mente le parole del “maestro” Alan Greenspan che aveva tuonato contro la malsana idea di Clinton di abolire nel 1999 lo Steagall Act, dando libera uscita alla speculazione mondiale di tutte le banche e dimenticando la lezione di Roosvelt che solo una sana finanza poteva rilanciare l’economia reale e non quella virtuale dei ricchi.

Nel nuovo ordine monetario l’Italia sarebbe (con l’Europa) la più penalizzata, avendo puntato (negli ultimi 30 anni) le sue carte sul solo ‘amico americano’, senza accorgersi che un altro mondo stava nascendo e dal quale (senza rompere con gli Usa) avremmo potuto trarre enormi benefici anche se non ne condividevamo certo lo stile dispotico di governo.

Trent’anni dopo: quo vadis Bosnia? Quo vadis Europa?

 

di MIchael L. Giffoni (

Esattamente 30 anni fa, il 6 aprile 1992, la Bosnia-Erzegovina veniva riconosciuta come stato indipendente dai paesi della Comunità Europea (che si chiamava ancora così e si componeva di 12 paesi membri), giorno che cadeva nell’anniversario della liberazione di Sarajevo nel ‘45 e del bombardamento di Belgrado da parte della Luftwaffe nel ’41. Veniva così legittimata a livello internazionale la validità del referendum sul distacco da quel (poco) che restava della Jugoslavia, svoltosi un mese prima e boicottato dalla componente serbo-bosniaca (pari a circa il 30%) della popolazione: l’indomani fu la volta di Washington e nel giro di poche settimane arrivò il riconoscimento di gran parte dei paesi, Russia inclusa, delle Nazioni Unite, alle quali la Bosnia-Erzegovina fu ammessa il 22 maggio dello stesso anno.

Nasceva ufficialmente quella che sarebbe destinata a diventare la più complessa e travagliata delle sette repubbliche indipendenti post-jugoslave: Franjo Tudjman e Slobodan Milosevic, emersi nel biennio precedente come padri padroni a Zagabria e Belgrado, si affrettarono a criticare la decisione negando l’esistenza stessa della Bosnia-Erzegovina come nazione, il secondo usando parole che, rilette ora, ricordano tremendamente quelle utilizzate 30 anni dopo da Vladimir Putin nei confronti dell’Ucraina. Conversando con l’inviato di “Time”, Milosevic ebbe infatti a dire, con tono ironico e beffardo: “La Bosnia non è mai esistita né mai esisterà, è solo un’opportunistica e cinica invenzione di Tito per bilanciare il potere serbo e croato nella Federazione jugoslava: il suo riconoscimento internazionale mi ricorda la nomina del cavallo di Caligola a senatore nell’antica Roma”.

È vero che c’erano stati solo alcuni brevi momenti di quasi autonomia o semi-indipendenza durante i secoli precedenti e che questa era la prima apparizione della Bosnia come stato indipendente sin dal 1453. È altrettanto vero che le animosità etno-nazionali erano arrivate al punto di massima violenza e confronto solo a seguito di pressioni provenienti dall’esterno del territorio bosniaco, soprattutto all’infuori delle principali città, da sempre terra di convivenza inter-etnica: così è stato anche negli anni successivi al ‘92, sia a livello regionale, nel drammatico contesto della disintegrazione jugoslava, sia dal punto di vista globale, nella fase di ridefinizione degli equilibri di potenza e dell’ordine internazionale dopo la fine della Guerra Fredda.

Come nasce una guerra

Quel 6 aprile 1992 era un lunedì e viene ricordato anche come la data d’inizio della guerra in Bosnia-Erzegovina, per una serie di concitati episodi che avvennero a Sarajevo, precisamente nello spazio di un paio di chilometri quadrati tra il palazzo del Parlamento, il “cubone giallo” dell’hotel Holiday Inn, il ponte di Vrbanja e le pendici della collina, nel quartiere di Grbavica dove si erano già posizionati i famigerati cecchini che saranno l’incubo dei sarajevesi nei 1425 giorni successivi, quanto sarebbe durato l’assedio più lungo del secolo.

In realtà, già nei giorni precedenti si erano alzate le barricate serbe in vari quartieri, si erano verificati scontri con vittime e l’assedio della parte centrale della città era un dato di fatto, nell’indecisione e spesso complicità delle truppe dell’esercito federale (la JNA, lì posta agli ordini del generale Kukanjac), ancora considerata come la quarta armata più potente al mondo, nonostante le pessime figure rimediate in Slovenia e in Croazia e che negli stessi giorni stava fiancheggiando i paramilitari serbi, le famigerate “Tigri di Arkan”, in veri e propri eccidi e operazioni di pulizia etnica a Bijeljina e nella valle della Drina, al confine orientale. Se quello che resta sono le immagini simboliche o iconiche, quella delle vittime innocenti della guerra bosniaca avrà il volto radioso di Suada Dilberovic, ventiquattrenne studentessa dalmata che il 5 aprile, nel “bloody Sunday” sarajevese, venne freddata da un cecchino mentre tentava di attraversare il ponte di Vrbanja con un gruppo di giovani manifestanti per la pace.

Il ritorno della guerra in Europa: anatomia di un conflitto

La guerra aveva fatto ritorno sul suolo europeo, per la prima volta dopo la fine del secondo conflitto mondiale (considerando solo come brevi fiammate le pur cruente e brutali repressioni sovietiche delle insurrezioni a Budapest nel ’56 e a Praga nel ’68), marchiando a sangue la disintegrazione della Federazione jugoslava, a differenza di quella dell’Unione Sovietica, avvenuta contemporaneamente con fortissime tensioni ma senza grandi spargimenti di sangue.

Dopo la breve e quasi incruenta guerra d’indipendenza slovena, era stata la Croazia a essere insanguinata e a Vukovar venne riesumato, per la prima volta dagli orrori e dalle distruzioni della Seconda guerra mondiale che avevano raso al suolo intere città, il termine “urbicidio” poi ripreso per Sarajevo, Mostar e Tuzla. Pochi anni dopo, un’altra terribile, quasi indicibile, parola verrà pronunciata in relazione alle atrocità sofferte dalla Bosnia, perché è stato a Srebrenica che l’Europa ha visto compiersi sul proprio suolo il più orrendo genocidio dopo l’Olocausto.

Pochi giorni dopo la firma a Parigi degli accordi di pace raggiunti a Dayton (Ohio, USA) alla fine del ‘95, Republika, l’unico giornale di opposizione a quei tempi a Belgrado, commentava così la guerra che aveva devastato la Bosnia nei quattro anni precedenti: “Questa guerra ha racchiuso in sé tutte le guerre conosciute dalla storia: è stata etnica, religiosa, civile, imperialista e d’aggressione, guerra della campagna contro la città, guerra per la distruzione della classe media, guerra per la terra e di sangue”. Il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan completò la frase aggiungendo un’ulteriore (e innegabile per coloro che quei fatti li avevano osservati costantemente e da vicino) definizione, quella di vera e propria, seppur nascosta, guerra mondiale: “In Bosnia-Erzegovina è in corso una guerra mondiale nascosta, poiché vi sono implicate direttamente o indirettamente tutte le forze mondiali e sulla Bosnia-Erzegovina convergono tutte le essenziali contraddizioni di fine secolo e d’inizio del terzo millennio”.

L’inerzia internazionale e la svolta a Dayton. Dall’inferno al purgatorio

La dimensione internazionale della disintegrazione jugoslava, e della “guerra dei 10 anni” che ne seguì, è stata caratterizzata dall’incapacità della comunità internazionale di intervenire, prima per evitare gli sviluppi bellici, prevedibili e da molti ben previsti, poi almeno per fermare la guerra ed evitare che toccasse, soprattutto in Bosnia, tali punte di atrocità e disumanità. Abbiamo assistito a un “triumph of the lack of will”, per dirla con l’espressione dello storico britannico James Gow: l’inadeguatezza e l’incoerenza delle politiche di tutte le “forze mondiali” citate da Annan, legate alla questione principale della volontà politica sull’uso della forza, sono state alla base del fallimento, che infranse le nozioni esistenti sulle modalità di intervento della comunità internazionale nelle crisi globali o regionali e di gestione delle loro conseguenze umanitarie.

In realtà, non mancò solo la volontà ma anche la visione, poiché tutti gli attori internazionali, anche multilaterali, erano guidati da analisi parziali e incomplete del conflitto e delle forze in campo, spesso infarcite di pregiudizi, per nulla verificati sul campo, e rispondenti in primo luogo ai propri interessi nazionali e di parte. Dopo quasi quattro anni di guerra, alla fine del ’95 si giunse alla fine delle ostilità, grazie al mutato atteggiamento internazionale – e degli Stati Uniti di Bill Clinton in primo luogo – e all’intervento aereo della NATO contro le postazioni e gli arsenali dei serbo-bosniaci situati a Pale, nei dintorni di Sarajevo. Da allora il nome di Dayton, cittadina nel cuore profondo americano, ha finito per rappresentare il destino stesso della Bosnia-Erzegovina, vale a dire il passaggio dall’inferno di una guerra orribile costata oltre 100 mila morti, a un purgatorio segnato dall’assenza di un vero e proprio conflitto armato ma dalla persistenza di una pace fredda, vuota e paralizzante, lontana da ogni situazione di normalità e da ogni prospettiva di progresso civile, sociale ed economico.

La trappola etnica

Il nocciolo della questione bosniaca può essere così riassunto: il sistema di “governance” instaurato con la costituzione inclusa negli accordi di Dayton (Annex IV), necessario, giustificato e finanche essenziale nel breve periodo per il mantenimento e il rafforzamento della pace, si è rivelato nel medio e lungo periodo del tutto inefficiente e addirittura dannoso per una vera riconciliazione e un autentico progresso del paese, risolvendosi nella cristallizzazione delle divisioni etniche, in una partizione “de facto” e nella costruzione di uno stato centrale debole e paralizzato, ostaggio di una classe politica inetta e interessata solo al mantenimento del potere e dei benefici connessi, basata sulla legittimazione etnica e con scarsa presa sulla maggioranza della popolazione, scivolata ormai in un fatale senso di rassegnazione diventato semplice fonte di riproduzione del consenso nazionalista e populista.

La chiave di volta per la stabilità e il progresso della Bosnia-Erzegovina, più degli altri paesi balcanici, doveva essere la “prospettiva europea”, sancita a Salonicco nel giugno 2003: tuttavia, dopo un promettente avvio, il processo che doveva gradualmente ma decisamente portare all’adesione all’Unione Europea, o quantomeno alla candidatura, ha prima rallentato e si è poi bloccato (come l’intero processo di allargamento nei Balcani Occidentali) con l’UE che, senza visione né volontà, invece di europeizzare i Balcani ha finito paradossalmente per balcanizzare sé stessa.

L’ultima crisi e la minaccia esistenziale

Negli ultimi nove mesi, la Bosnia-Erzegovina è tornata al centro dell’attenzione mondiale a causa di un crescendo di tensioni innescate dalle ripetute e clamorose minacce di Milorad Dodik, da 15 anni l’uomo forte serbo-bosniaco, di trasferire all’entità serba competenze essenziali delle istituzioni comuni, in materie delicate come la difesa e la sicurezza, la fiscalità e la sanità. Molti osservatori hanno concluso che il già fragile status quo del paese stia affrontando la sua più grave minaccia esistenziale del dopoguerra, con timori di un’aperta secessione e perfino evocando lo spettro del ritorno alle armi. Esaminando la successione degli eventi, emerge una duplice crisi provocata dalle forze centrifughe delle due maggiori tendenze etno-nazionaliste, quella serba (in maniera estrema per le esternazioni e azioni di Dodik) e quella croata (in modo meno eclatante ma pur insidioso), ma la crisi è stata aggravata anche dalla dimensione esterna: i maggiori attori mondiali (Washington e Bruxelles da una parte, Mosca dall’altra, con Pechino silente e pronta a intascare i ritorni economici ampliando fino al cuore dell’Europa la via della seta) e regionali (Belgrado e Zagabria) hanno accentuato le divisioni invece di ricomporle.

È vero che Washington ha imposto sanzioni economiche a Dodik e ai suoi accoliti, ma è anche vero che gli effetti concreti di tali iniziative sono limitati e quasi simbolici. A Bruxelles, intanto, non si è trovato neanche il consenso necessario per imporre le più temute sanzioni europee. Al contrario, da Bruxelles sono arrivati segnali incerti e contraddittori, con una poco comprensibile pressione per far accettare le richieste croate per una riforma parziale della legge elettorale in senso favorevole al partito nazionalista croato (che renderebbe ancora più stringente la “gabbia etnica”) e addirittura con aperture alle richieste di Dodik sull’abrogazione degli emendamenti alla legge di negazione del genocidio, la cui imposizione è stata il pretesto per il boicottaggio delle istituzioni comuni da parte dei membri serbi. In definitiva, l’impressione è che stia prevalendo un approccio “minimalista” con la ricerca di compromessi a breve termine, ignorando l’amara verità: fino a quando non ci sarà una riforma completa del sistema costituzionale che permetta alla Bosnia-Erzegovina di diventare un paese funzionale, ogni crisi può solo essere alleviata e i suoi effetti nefasti solo rinviati e mai risolti alla radice.

Effetto Ucraina e “last chance café”?

In questi giorni il mondo intero è profondamente scosso dalle immagini degli orrori dell’invasione russa dell’Ucraina, di fronte alle quali è impossibile non tornare con la mente a quelle di 30 anni fa descritte all’inizio di queste note. Del resto, in Bosnia-Erzegovina, come nel resto dei Balcani occidentali (basti pensare al Kosovo), la crisi russo-ucraina è stata seguita sin dall’inizio con il fiato sospeso, per i timori di inevitabili ricadute.

Premesso che dal 24 febbraio di quest’anno sarebbe preferibile se si fosse tutti umilmente cauti nel dichiarare la probabilità o l’improbabilità di qualsiasi scenario internazionale, bisogna riconoscere che l’apertura di un “secondo fronte” da parte della Russia imperial-putiniana (tenendo presente che Mosca ha apertamente sostenuto le rivendicazioni di Dodik) nei Balcani, in Bosnia ancor più che in Kosovo (dove è presente tuttora un’ingente forza di stabilizzazione NATO), è uno scenario da non ignorare. A parte inutili speculazioni, la verità è che l’invasione russa ha sostanzialmente cambiato ogni equazione riguardante la sicurezza in Europa e l’intero futuro del continente.

Ciò richiede una calibrazione urgente, in teoria e in pratica, della strategia occidentale nei confronti dei Balcani e del vicinato orientale dell’UE: Bruxelles non può più rimandare una rapida ed efficace revisione delle proprie politiche di allargamento e vicinato che non sono riuscite né a catalizzare le necessarie riforme nei paesi “in lista d’attesa” né ad assicurare un coerente quadro di stabilità e sicurezza. In quest’ambito, abbandonare lo sterile tatticismo burocratico e l’approccio minimalista e tentare di risolvere il “conundrum” bosniaco affrontando il “nocciolo della questione” dovrebbe essere la priorità. Ma è questione urgente, di giorni o settimane, non di più: per la Bosnia ci sarà forse un “last chance café” e sarebbe un tremendo errore lasciarselo sfuggire.

Michael L. Giffoni (New York, 1965), da diplomatico di carriera dal 1992 al 2014 ha ricoperto numerosi e delicati incarichi nazionali ed europei. Dopo aver trascorso gli anni ’90 in Bosnia e nel resto dell’ex-Jugoslavia in guerra, è stato Capo della Task-force per i Balcani dell’Alto Rappresentante per la Politica estera Ue, Javier Solana, poi per 5 anni primo Ambasciatore d’Italia in Kosovo (2008-2013) ed infine (2013-14) Capo Ufficio per il Nord Africa e la Transizione araba al Ministero degli Affari esteri.

Parole a capo
Daniele Serafini: “Lo sguardo di Ulisse” e altre poesie

 

“La memoria è il diario che ciascuno di noi porta sempre con sé.”
(Oscar Wilde)

Lo sguardo di Ulisse

Partiamo sempre per tornare
a qualche volto, luogo, immagine.

Sfidiamo le correnti, gettiamo reti
in mare, spesso ci coglie il vuoto.

Siamo figli di un sogno, di un’utopia
leggera, di un tendere all’ignoto.

Cerchiamo le forme primigenie,
il tempo delle origini, l’Amore che redime.

Seguiamo il canto di improbabili Sirene
legati all’albero maestro di un ricordo

– ma in fondo partiamo sempre per tornare
a un volto, a un luogo, ad un’immagine.

 

Exit music

(da un verso di Eugenio de Andrade)

Il mare trascinate alla sua porta
quando il garbino ne pettina le onde
lasciate che l’estate irrompa lieve
nelle sue stanze di cenere vestite.
Fate un sudario di resina e di rose
che copra le ferite del suo canto
lasciate che la sera scivoli tra i pini
fino a indossare le ombre della valle.
Fate che sia così –
corpo che si fa quiete
verbo che si fa luce
sangue che si fa vita.

 

Altri occhi

Morirono anni di fede e passione.
Mentre l’estate scandiva le notti
tu cercasti rifugio
nella felce ingiallita che schiude
la sera a nuove più dolci intemperie.
Condanna non è il tempo
se confini lo sguardo nell’ombra
e non sprechi orizzonti in parole.
Sillabare il silenzio, questo tu devi;
altre forme cercherà il cuore,
altri occhi verranno.

 

Autunno nella Pialassa

Fluisce fra le reti un’onda immobile
di calma piatta, di vuoto antico
che serra anche il tuo volto in un deliquio.
Vitreo disvela l’orizzonte cupo
un’aria inane solcata
dal ritmo stento dell’universo urbano – :
E diroccati pini arsi dal gelo
annunciano le luci industriali,
la sera fossile dischiusa
nel tenue gioco di umane forme
nel canto del fringuello –
nel sangue indivisibile
delle tardive rose.

 

L’Altrove

Il tempo oggi si curva su di sé
a chiosare il passo tuo
che sfiora questi angoli
di arcate e di silenzio.
Dei pochi votati alla partenza
io solo son rimasto, chiuso
in un destino di metrica e d’esilio.
Ma qui, nel miraggio
di venti e di brughiere,
riarde il sogno dell’Altrove
fermo nella nebbia che svapora
– alto nello svolo
dei passeri al mattino.

Difficile è stato “distaccare” alcune  poesie da questo prezioso libretto di Daniele Serafini “Di memorie e di oblio”, (Editrice La Mandragora, 2022), corredato di undici acquerelli di Giuliano Della Casa, dove – come ha detto l’autore in una recente intervista – “memoria e ricerca delle radici camminano affiancate, spesso sullo sfondo di un paesaggio, quello padano e della riviera romagnola, che fa da sfondo a ricordi e stati d’animo.”. (Pier Luigi Guerrini)

Daniele Serafini, nato ad Alfonsine, in provincia di Ravenna, da una famiglia originaria del Triveneto, è poeta e traduttore.  Laureato in Lettere e Filosofia all’Università di Bologna, negli anni Novanta è stato redattore delle riviste di poesia e arti visive “Tratti e “Origini”. Attualmente fa parte della redazione di “Laboratori critici. Rivista semestrale di poesia e percorsi letterari” diretta da Matteo Bianchi. Con la raccolta Eterno chiama il mare (1997) ha ottenuto una segnalazione di merito al “Premio Internazionale Eugenio Montale” edizione 1998; la sua silloge Quando eravamo re (2012), finalista al “Premio Gozzano”, è stata successivamente pubblicata sulla rivista britannica “MPT Modern Poetry in Translation” nella traduzione dello scrittore e poeta irlandese William Wall. Ha preso parte ad eventi  letterari all’estero, tra cui il Cuirt International Festival of Literature di Galway (1995) e il Cork World Book Fest (2019), tenendo letture poetiche e partecipando a workshop di traduzione. E’ presente in alcune antologie poetiche tra le quali si segnalano: Alberto Bertoni, Trent’anni di Novecento. Libri italiani di poesia e dintorni (1971-2000), Book Editore, 2004; D’un sangue più vivo. Poeti romagnoli del Novecento, a cura di Gianfranco Lauretano e Nevio Spadoni, Edizioni Il Vicolo, 2013. Sue liriche sono state tradotte e pubblicate in vari paesi europei.  Vive tra Marina Romea e Lugo di Romagna, dove è stato direttore del Museo Francesco Baracca e responsabile delle attività espositive del Comune. Collabora con la rassegna “Caffè Letterario” e con il settimanale “Il Nuovo Diario Messaggero”.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]