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Giorno: 9 Aprile 2022

Il mio amico giardiniere

Il mio amico giardiniere è una pellicola francese di Jean Becker, che data già 2007, ma che oggi ci piace ripresentare al nostro pubblico di lettori attenti, per la sua delicatezza e per la pace della meraviglia dei giardini dell’entroterra francese, che restituiscono un poco di serenità oltre che un autentico ritorno alle radici nella casa d’infanzia, quella di un cinquantenne e affascinante pittore parigino di successo (Daniel Auteil) ma che può essere di tanti, o almeno di coloro che ci si vogliano riconoscere. Perché il ritorno alle radici è quanto ci resta di rassicurante in questo momento di mondo impazzito. La natura ci cura, poi, i dialoghi con essa e fra essa restano il punto di equilibrio reale.

Il pittore cittadino si ritrova ad ereditare un terreno immenso, quale sogno, un giardino meraviglioso che sua madre curava teneramente ma che ora non ha né voglia né capacità né tempo di occuparsene. Per evitare il degrado di quel meraviglioso e unico gioiello materno tanto amato, eccolo allora alla ricerca di qualche anima che possa aiutarlo, un annuncio che lo porta a rincontrarsi con un vecchio compagno di scuola. Un amico d’infanzia che diventerà il suo giardiniere (Jean-Pierre Darroussin). Ma non solo: un consigliere, un ascoltatore attento, una costante presenza che spesso lo farà riflettere e rivedere le cose nella loro reale dimensione. Un autentico risveglio al mondo.

Una storia d’amicizia intensa e profonda, come quelle che tutti vorremmo avere nella vita. Due vecchi amici che, scherzosamente, si inventano due soprannomi, Del Quadro e Del Prato, che evidenziano la loro diversità culturale e sociale e che ritrovano l’antica e gioiosa complicità che da ragazzi li aveva uniti. In una delicata dimensione bucolica, in un quadro degno di un delicato e colorato pittore impressionista, i due compagni si ritrovano e, trascorrendo molto tempo insieme, si riscoprono nella loro rispettiva complessità e semplicità, ridendo, scherzando, facendo discorsi seri e semiseri e svelandosi il vero valore della vita. Così come solo un profumato giardino riesce a fare e a far fare.

L’amico giardiniere ha una visione semplice e onesta del mondo, il pittore, senza grande talento e ispirazione, è più disilluso e aspro. Vedendo ogni cosa attraverso gli occhi dell’altro, ognuno scopre, rivalutandolo, un mondo nuovo. È un dialogo (il titolo originale, migliore, è “dialogo con il mio giardiniere”) fra amici, fra un cittadino stressato dalla grande metropoli, e per questo quasi depresso, e un uomo semplice che non si è mai mosso dal suo semplice villaggio d’origine, se non per alcune settimane di vacanza sempre negli stessi posti, con l’amata moglie di sempre. L’uno colto, ricco, sofisticato ma insoddisfatto e sempre alla ricerca di nuove donne, storie e avventure, l’altro semplice, abitudinario ma saggio e sereno. Due attori molti bravi e assolutamente profondi.

Una storia essenziale, in un’atmosfera minimalista degna di un teatro, con una fotografia eccellente e colori sgargianti, cullando l’armonia della natura e di conversazioni a volte inattese ma profonde, pacate e coerenti. Un confronto fra la città trafficata e concitata (e spesso piena di cose futili e inutili) e la vita tranquilla di campagna, con i valori del quotidiano che si scelgono, quelli che contano. Una bella storia di cuore e musica, ma anche di solitudine. Un racconto di diversità che convergono, di parole dette e non dette, di sogni sognati e solo sussurrati, di punti fermi che si rivelano fragili e fugaci. Con una fine, però, che non è tanto lieta. Perché la malattia che non perdona colpisce chi meno se lo aspetta, senza scampo, perché le stagioni si chiudono e la fragilità della vita si conferma in tutta la sua terribile e temibile forza. Malinconico ma intenso e coinvolgente. Per riscoprire la natura e i suoi messaggi essenziali. Da vedere.

 

 

 

 

Il mio amico giardiniere, di Jean Becker, con , Daniel Auteuil, Jean-Pierre Darroussin, Alexia Barlier, Fanny Cottençon, Francia, 2007, 110 mn.

Playing the piano

 

Guardo questa foto, e subito, come un riflesso condizionato, passo mentalmente in rassegna tutti i film in cui un pianoforte la fa da padrone. Il suono di un pianoforte ha la capacità, anche da solo, di sottolineare meravigliosamente alcune scene di un film. Di passare da una atmosfera intima e passionale a una allegra, da una malinconica a una limpida e raziocinante. Quanti film sono nati attorno a un pianoforte: da Lezioni di pianoforte a Il pianista, da La leggenda del pianista sull’oceano a Tirate sul pianista. E altrettanti compositori si sono cimentati in colonne sonore per ‘solo piano’: scene capolavoro con un accompagnamento musicale dove il pianoforte diventa primo protagonista.

Le musiche hanno fatto grandi certi film, alle volte più della storia o del cast degli attori. Ryūichi Sakamoto [qui] ha scritto colonne sonore indimenticabili. Nel suo album Playing the piano il grande autore si dedica interamente al suo strumento d’elezione, quello con cui ha iniziato a fare musica.

Forse il pianoforte è lo strumento musicale che più è associato al virtuosismo e al talento.
Ma dove si nasconde il talento? Dove nasce, qual è la sua sorgente, da dove arriva? Dal duro lavoro di chi studia anni e anni uno strumento per dominarlo e diventare un talento. Ma c’ è chi un talento lo è dalla nascita, per un dono della natura, per genialità pura e semplice.
Come non pensare a due geni assoluti della musica di tutti i tempi: Mozart e Beethoven. Il primo era un genio naturale e assoluto, il secondo la genialità la insegue e la conquista con caparbietà. Non c’è dubbio che entrambi abbiano dato alla musica più di quanto questa abbia dato a loro. Arrivando però sull’Olimpo per vie diverse, o addirittura opposte.

Il primo ha scritto il suo primo concerto a 5 anni con un’apparente semplicità e facilità. Il secondo – per eguagliarlo? ma qui non voglio schierarmi con il partito dei beethoviani o dei mozartiani – ha dovuto guadagnarsela da solo la sua genialità.
Qual è la vita più straordinaria? Quale la sfida più coinvolgente? Quale la genialità più autentica e cristallina? Se si guardano i risultati, non c’è dubbio: entrambe. Ma il percorso per arrivarci è sorprendente, e vale la pena di conoscerlo. Soprattutto fa pensare a come molti di noi, che geni non sono ma comuni mortali, possono spingersi, non a eguagliarli, ma almeno a migliorarsi. E questo vale per ogni cosa, non solo per il pianoforte.

PRESTO DI MATTINA
I tre giorni santi

 

I tre giorni santi: i giorni di Agape

Sulla via di Emmaus
Si avvicinò a noi
Andavamo con la testa bassa
Senza nemmeno levare lo sguardo
Si mise al nostro passo
Di cosa parlavate così tristi?
Tu solo sei l’unico che non lo sa?
Gesù Cristo è morto in croce
Il corpo fu tre giorni nella terra
Ma Egli non è più là

Anche se risorto
Al compiersi dei tre giorni
Io sono il sepolcro incredulo
Che sempre lo racchiude
Io sono la santa tomba
Attendo il suo Regno
(Pierre Emmanuel [Qui], Évangéliaire, Ed. du Seuil, Paris 1961, 221; 94)

Seguiamo Agostino che nella lettera a Gennaro scrive: «Ora considera attentamente i tre giorni santi della crocifissione, della sepoltura e della risurrezione del Signore. Di questi tre misteri compiamo nella vita presente ciò di cui è simbolo la croce, mentre compiamo per mezzo della fede e della speranza ciò di cui è simbolo la sepoltura e la risurrezione…

Queste realtà spirituali vengono celebrate durante la ricorrenza anniversaria della Pasqua in base all’autorità delle Sacre Scritture e per consenso della Chiesa universale sparsa per tutto il mondo. Nelle Sacre Scritture dell’Antico Testamento non è prescritto il tempo per la celebrazione della Pasqua se non nel mese delle nuove spighe dalla decima quarta alla ventesima prima luna;

ma poiché dal Vangelo risulta chiaro in quali giorni il Signore fu crocifisso e rimase nel sepolcro e risorse, dai concili dei Padri fu aggiunta pure l’osservanza di quei giorni e tutto il mondo cristiano si persuase che la Pasqua deve essere celebrata in quel modo», (Lettera 55, 14 24; 15,27; anche Consenso degli Evangelisti, III, 24,66).

I «tre giorni santi», detti anche il triduo pasquale, sono dunque quelli compresi tra la morte e la risurrezione di Gesù: il venerdì, sabato e domenica. Il giovedì santo non appartiene propriamente al triduo, ma in qualche modo lo anticipa, così come la Cena di Gesù con i suoi discepoli anticipa la Passione; l’eucaristia in Coena Domini diviene così il segno, e il grande sacramento dei giorni Agape: quelli del suo amore per noi.

Per i cristiani, il Triduo pasquale è il centro e il cuore dell’anno liturgico. Qui si raccoglie e si testimonia tutta la vita di Gesù nel gesto supremo della dedizione di sé al Padre e a noi. I tre giorni santi sono i suoi giorni, quelli dell’Uios agapetos, del Figlio amato, il diletto, primogenito del Padre tra molti fratelli e sorelle.

Uios agapetos è l’attestazione pronunciata da Dio, sia in occasione del battesimo di Gesù all’inizio della sua missione, sia al momento della trasfigurazione sul monte Tabor prima della sua passione, quando Gesù si incammina verso Gerusalemme (Mc. 1,11; 9,7).

Agape è un vocabolo del greco popolare parlato nell’Egitto del II secolo a.C., che ritroviamo nelle sacre scritture sin dalla Bibbia dei Settanta [Qui], volto a esprimere che il Dio d’Israele e di Gesù è un ‘Dio pro nobis’, che fa grazia, un Dio di elezione, libero nell’amore.

Agape è l’amore che implica scelta, predilezione, una preservante volontà di amore. Un amore – come ci ricorda Paolo − generativo di speranza: «La speranza poi non delude, perché l’amore/agape di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5).

L’etimologia dice pure “mirare a qualcosa”, vedere di buon occhio, essere proteso verso qualcuno o qualcosa. Così pure l’altro sostantivo agapan indica l’amore che si irradia da Dio, l’amore potente che solleva l’umile e lo innalza al di sopra degli altri per pura grazia. E ancora è dimostrazione di affetto, amore diffusivo, attivo nel rendere giustizia, che vuole il bene dell’altro.

È stato il domenicano padre Ceslas Spicq (1901-1992) [Qui] ad indagare con acribia e un paziente lavoro i contesti letterari del termine agape nella sua monumentale opera di quasi mille pagine: Agapè dans le Nouveau Testament: analyse des textes, 3 voll., (Études Bibliques), J. Gabalda et C. Éditeurs, Paris, 1959 1966.

In questo studio p. Spicq ha illustrato l’inimmaginabile e indicibile preferenza che lega Dio agli uomini, e gli uomini a Dio per giungere ad attestare nell’etimologia della parola agape il significato di un “incontro sorprendente”.

Se infatti si riferisce apape alla radice aga del verbo agamai, ‘ammirare, sorprendersi’, agape diventa ‘l’accoglienza, l’ospitalità smisurata’, in cui si dà e accade la sorpresa della gratuità di chi riceve uno straniero: l’altro nella forma di un amore. Agape dice la radicalità veramente totale dell’amore che non è giustificato da niente, ma trova solo in se stesso la ragione d’essere, la sua scelta, la sua predilezione, la sua opzione preferenziale nell’amore.

Agape diventa pure il nome della giustizia di Dio, che amandoci genera una vita nuova per il tramite di Cristo: una porta che ci fa passare dalla morte alla vita. Questa giustizia − ha scritto il teologo Pierangelo Sequeri [Qui] − consiste nella volontà di “far-essere nel voler bene”.

«Far-essere nel voler-bene appare una buona traduzione di agape. Essa definisce esattamente l’agape tou theou. La migliore teologia biblica insiste sull’inquadramento non puramente denotativo, ma simbolicamente connotativo, della “invenzione” lessicale che sceglie di nominare con agape la rivelazione cristiana dell’amore di Dio. E ciò in senso anzitutto soggettivo: l’amore che Dio ha (Paolo), l’amore che Dio è (Giovanni).

La scelta mette in onore un termine relativamente desueto nell’uso e non fortemente caratterizzato nel senso, soprattutto rispetto a quelli di eros e philia. Il termine ha una generica parentela con i significati di ospitalità, accoglienza, inclusione nella sfera degli affetti parentali e famigliari.

Ma il suo valore e la sua forza sono determinati dal contenuto di rivelazione, al quale il termine viene associato. Non è tanto un tipo di amore che si aggiunge alla serie delle forme umane dell’amore, quanto piuttosto una dimensione teologale dell’amore (come è l’amore in Dio)» (La fede e la giustizia degli affetti, Siena 2019, 292-293).

I giorni dell’agapetos: il figlio prediletto

Nessuno può attribuirsi l’onore di stare davanti agli uomini in nome di Dio e davanti a Dio in favore degli uomini. Tanto che nemmeno il Figlio amato si arrogò questo onore, come ci ricorda la Lettera agli Ebrei (5,5-9): «gliela conferì colui che gli disse: “Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato”. Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono».

‘Pieno abbandono’ traduce il greco eulebeia, che significa ‘prendere bene tutte le cose’. È la piena umanità, quella che ha pietà di tutti e tutte le cose, che ascolta nel profondo (ob-audio) e si abbandona all’altro con smisurata dedizione in suo favore in un perdersi che diverrà un ritrovarsi: proprio per questo fu a sua volta ascoltato/esaudito.

«Al centro dei tre giorni sta quel punto delicatissimo − scrive Giuseppe Ruggieri − dell’esperienza della morte di Cristo, non solo come morire (venerdì santo), ma come morte effettiva, stato di solidarietà con i morti dello sheol, dell’Ade e cioè come ‘discesa agli inferi’. Cristo fu solidale con i morti e sperimentò la ‘morte seconda’, quindi tutta la profondità e l’abisso di quella condizione nella quale viene a trovarsi, dopo la fine della propria esistenza, l’uomo».

Il senso della discesa agli inferi, di cui abbiamo un potentissima immagine nel Crocifisso del Carracci a Santa Francesca romana, è simbolo reale del compiersi della estrema obbedienza di Gesù, del pieno abbandono del Figlio di Dio, che si specchia nel Servo sofferente descritto nei carmi di Isaia, la cui missione è quella di «dover cercare Dio dove non è, anzi dove non può essere, nell’essenza stessa del peccato del mondo» (Ruggieri, “Introduzione” a H. U. von Balthasar, La teologia dei tre giorni. Mysterium Paschale, Queriniana, Brescia 1992, 6-7; 10).

Così nella ‘figura sfigurata’ del Cristo si ha accesso all’Agape del Padre, nel Figlio si dà il superamento della violenza.

Agape: il lievito della storia

«Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e nascosto in tre staia di farina perché tutta si fermenti» (Mt 13,31-33). Così lo narra il poeta Pierre Emmanuel (1916-1984):

«Cristo è il lievito di una storia totalmente altra rispetto a quella che si limita alla cronologia./ Dall’Annunciazione al mattino di Pasqua lui l’ha vissuta tutta e compiuta in sé./ La vita di ogni uomo ne è un frammento dall’origine fino alla Pasqua eterna./ Il lievito lotta sia per non essere reso vano sia per sollevare allo spirito la materia./ Nel segreto di noi stessi una sola scelta ci rimane: o resistergli o abbandonarsi al lievito» (Le grand Oeuvre. Cosmogonie, ed. du Seuil, Paris 1984, 370).

Significativo allora risulta un testo della Commissione Teologica Internazionale del 2014 sul superamento della violenza, al modo del lievito quale metafora del consegnarsi/abbandonarsi del Figlio nelle mani di Agape:

«Gesù consegna se stesso e non i suoi discepoli. Nello stesso tempo, toglie spazio ad una alternativa ugualmente drammatica e apparentemente insuperabile. O ridimensionare l’altissima pretesa della sua rivelazione, o accettare il conflitto cruento con la parte ostile. Nel primo caso, si tratta di rinunciare all’obbedienza della verità ricevuta dall’Abbà-Dio; nel secondo caso, di accettare la logica della guerra religiosa. In entrambi i casi, il vangelo sarebbe revocato.

Gesù si scioglie dal ricatto di questa alternativa, scegliendo di consegnare nelle mani di Dio il destino della sua rivelazione e confermando la sua irrevocabile fedeltà al vangelo della giustizia di Dio: il quale “non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva” (Ez 18, 23-52; 33, 11).

Gesù disinnesca radicalmente il conflitto violento che egli stesso potrebbe incoraggiare, in difesa dell’autentica rivelazione di Dio. In tal modo egli conferma, una volta per tutte e per sempre, il senso autentico della sua testimonianza a riguardo della giustizia dell’amore di Dio. Questa giustizia non si compie mediante la legittimazione della violenza omicida in nome di Dio, bensì mediante l’amore crocifisso del Figlio in favore dell’uomo (cfr. Rom 8, 31-34).

Nel gesto della consegna di sé al supremo sacrificio, che risparmia il sangue dei discepoli e degli oppositori, risplende la potenza radicale dell’amore di Dio. “Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo morire in quel modo, disse: Veramente quest’uomo era figlio di Dio” (Mc 15, 39)» (Trinità e unità degli uomini, nn. 48-53).

Vi conosco perché sono stato uno di voi
Cristiano, senza comprendere veramente
Ciò che essere cristiano dovrebbe dire a chi si dice cristiano
Improvvisamente, un giorno
ho visto finalmente la croce:
Dio messo in croce.
Quale maestà più grande per l’uomo
Da sempre e per sempre?
La morte di Cristo l’ellisse atroce e divina
Di tutto il sangue d’uomo che bagna la terra,
Ora lo so: non sono né Pilato,
né Caifa, né i Giudei in rivolta
che ne portano il peso per la storia.
Tutta la storia dell’uomo
Sembra avere per scopo la morte di Dio.
Perché Dio vuole una cosa sola:
Che l’uomo sia capace di Dio.
Essere capaci di Dio
cioè essere capaci dell’uomo
Questo è troppo pesante per ciascuno di noi.
(Pierre Emmanuel, Le grand Oeuvre, 357)

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