Skip to main content

Giorno: 2 Luglio 2022

SAVE THE PARK
Un comitato per spostare i grandi eventi dal Parco Bassani

 

Sono passati solo 10 mesi da quando scrivevo della non opportunità a ospitare al Parco Giorgio Bassani il Comfort Festival (Bellezza, Musica e Cibo), patrocinato da Amministrazione e Teatro Comunale di Ferrara e che lì si è svolto il primo fine settimana di settembre, ma anche qualsiasi altro tipo di eventi di questo genere.

Nelle ultime settimane di questo caldo e secco giugno molte associazioni ambientaliste e animaliste ferraresi, assieme a tanti singoli cittadini, hanno dato vita al comitato Save The Park in seguito all’annuncio del concerto di Bruce Springsteen, tappa ferrarese del tour in programma per il 18 maggio del prossimo anno, prevista proprio al parco Bassani.

Il comitato si è dichiarato contrario all’utilizzo per il concerto della parte pubblica del parco Urbano, al fine di preservarne l’aspetto faunistico e paesaggistico e per gli aspetti logistici particolarmente problematici che ne deriverebbero. Gli aderenti al comitato propongono una scelta alternativa a quella iniziale, l’area a sud della città dove sorge l’Aereoclub Volovelistico Ferrarese.

E’ l’ambiente del Parco Giorgio Bassani a comportare aspetti problematici e a non essere, non solo a mio parere e come più volte argomentato, il luogo adatto a queste iniziative e a qualsiasi altro tipo di eventi come quelli organizzati negli ultimi anni.

Il Parco Urbano, si rammenta ancora una volta, nasce dall’idea, legata al Progetto Mura, di “sistemare a parco un’area comunale quale naturale sviluppo della grande Addizione Erculea che ha fatto della nostra la prima città moderna d’Europa”, e che Paolo Ravenna, allora presidente di Italia Nostra, nell’ottobre del 1978, nell’ambito del Symposium internazionale di architetti e urbanisti tenutosi a Ferrara, aveva battezzato come Addizione Verde. Si tratta di un’area di circa 13 Kmq posta tra le mura nord della città e il Po, in seguito sviluppata (in particolare da una serie di interventi tra il 1995 e il 2000) attraverso un progetto affidato all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia nell’ambito di una convenzione stipulata con il Comune di Ferrara[1]. Nel marzo del 1979 Giorgio Bassani plaudiva alla proposta che, all’epoca, poteva “apparire come una semplice, deliziosa utopia, di collegare il perimetro dell’antico Barco del Duca sino a contatto col Po“.

L’architetto Giulia Tettamanzi nella sua tesi di dottorato[2], scrive più recentemente che la pur saggia scelta di tutelare il territorio del Barco, non ha costituito una ragione sufficiente per assegnare al Parco Nord lo stesso successo culturale e sociale del Parco delle Mura, non evolvendo oltre la semplice tutela, subendo l’operazione di valorizzazione culturale e funzionale un rallentamento. Il nodo della questione – afferma Tettamanzi – rimane la difficoltà contingente di adattare in modo efficace” l’area in questione “ai modelli di vita attuali”, e se un qualche sviluppo vi è stato, certamente non con la stessa determinazione e chiarezza di obiettivi, né con gli stessi risultati ottenuti nel restauro delle mura. E’ mancata una politica di valorizzazione capace di proporre una funzione sostenibile per il territorio, che dalle mura al Po oggi alterna campi coltivati a terreni incolti, campi da golf a zone grossolanamente attrezzate a parco urbano, aree con aspetto di naturalità, a un depuratore, a un ex inceneritore e, si può aggiungere, un campeggio comunale attualmente in disuso.

In un articolo del 2003[3] Stefano Lolli, oltre a descrivere questa situazione, ricordava come Bassani definisse la prospettiva di collegare le mura Nord e il Po una risposta morale ed estetica della città, e come chiedesse a Ferrara, alle sue associazioni culturali e alle istituzioni, non tanto coraggio, ma soprattutto idee chiare. Mentre si stava definendo il Progetto Mura, scrive Lolli, dal 1986 iniziò a prendere corpo la sistemazione a parco dell’area comunale di cento ettari che rappresentava il primo nucleo dell’Addizione Verde […] che è l’area ad uso pubblico limitrofa al Parco delle Mura e che oggi vede una destinazione e un utilizzo probabilmente non previsti nei progetti originari. In questa fascia sono insediate diverse “funzioni”: gli orti, il campo da golf (ampliato in questi ultimi anni verso nord), gli impianti natatori, anche questi di recente ricostruiti e ingranditi, il centro per il tiro con l’arco, il Centro Sportivo dell’Università, il campeggio, come detto oggi in stato di abbandono. Funzioni, afferma Tettamanzi, per le quali è mancato un progetto coordinatore che, soprattutto, proponesse chiari indirizzi quale luogo di interfaccia tra la città murata e la campagna coltivata2, e che ha portato, per quasi vent’anni, a un uso del Parco non compatibile rispetto alle finalità con cui era stato ideato, e che è “area di particolare interesse paesaggistico e ambientale”, come recita il Piano Paesistico Regionale.

Molte le considerazioni e le riflessioni che si potrebbero fare, ma non è l’obiettivo di questo scritto. Solo qualche riga può essere utile per citare le proposte più rilevanti rispetto al progetto originario che non sono state realizzate. In primo luogo la rinaturalizzazione dell’ex-discarica nei pressi della motorizzazione civile e relativa trasformazione a parco pubblico, poi la messa a dimora di alberi e vegetazione arbustiva molto più numerosa di quella attuale necessaria in quanto elemento capace di “contribuire ad abbattere i livelli di inquinamento dell’aria che incombono su Ferrara”, ma anche “la piantumazione di alberi da frutto al fine di dare all’area una valenza di orto o giardino, in sintonia con le radici storiche del Parco”, l’acquisizione, a nord dell’attuale spazio pubblico, tra via Canapa e via Gramicia, della fascia di terreno e dei fabbricati presenti, conosciuti come possessione Sant’Antonio, che avrebbe dovuto diventare, in seguito ad opportuna ristrutturazione, il Centro Servizi del Parco (con punto informazioni, ristorante agrituristico, noleggio biciclette, ecc.), dotato di personale (un direttore e due operatori) con funzioni di manutenzione e custodia, supportati da volontari quali guardie ecologiche e membri di associazioni ambientaliste e naturalistiche per la gestione delle strutture e delle attività tra cui la riconversione del terreno ad agricoltura biologica e rimboschimento. Infine la realizzazione, in diversi punti, di torrette di avvistamento della fauna e di osservazione del Parco. Un vero e proprio progetto orientato alla fruizione naturalistica del Parco!

Per finire credo che la costituzione di questo comitato sia una occasione importante per affrontare, assieme ad altre simili iniziative che hanno preso corpo più o meno di recente in varie parti del paese, la questione dell’impatto ambientale e sociale dei grandi eventi e del rapporto di questi con gli spazi naturali. Tema sempre più di attualità anche in relazione ai problemi sempre più stringenti e drammatici che tutti siamo chiamati ad affrontare e che sempre più interesseranno le vite nostre e delle generazioni future.

“Tra le cose che la società moderna ha danneggiato c’è sicuramente il pensiero. Sfortunatamente, una delle idee più danneggiate è quella di Natura. Come siamo arrivati a considerare quella che chiamiamo “Natura” come un semplice oggetto che sta lì da qualche parte? Dobbiamo per forza affidarci a teorie nuove e aggiornate, che poi ripropongono lo stesso concetto, solo in una versione più sofisticata e alla moda? Quando capisci che tutto è interconnesso, non puoi più aggrapparti all’idea di Natura intesa come oggetto solido e unitario: smette di essere una semplice presenza che se ne sta lì, fuori di te.”

Timothy Morton, Ecologia Oscura – Logica della coesistenza futura, LUISS University Press, Roma, 2021

 

[1]Ferrara, Progetto per un parco”, Cluva Università, 1982.

[2] Giulia Tettamanzi, “Il Parco Nord a Ferrara. Un progetto aperto”, Quaderni della Ri-Vista. Ricerche per la progettazione del paesaggio, Firenze, University Press, n. 4, vol. 1, 2007.

[3] Stefano Lolli, “Il Parco Bassani”, in “Ferrara, Voci di una città”, n. 19, 2003.

IPER CONNESSI
Siamo in prigione, e lo smartphone è il nostro secondino.

 

Esco di casa, finalmente parto, prendo un treno dopo mesi di clausura forzata. Siamo ancora tutti mascherati, qualche colpo di tosse o soffiatura di naso che ancora insospettiscono e fanno girare istintivamente dall’altra parte. Mi accomodo, ho cercato, come sempre, una carrozza poco frequentata e un posto isolato, a costo immancabilmente più elevato, ma serve a poco, tutto pieno. Pieno di esseri umani vocianti e trafelati, carichi come somari, con tutto il rispetto per i somari, con valigie di una grandezza esasperata e spropositata. Mi domando sempre cosa mai si porteranno, e perché, forse stanno via mesi. Sarà che, da anni ormai, viaggio con bagagli leggeri, memore di tempi passati dove quei fardelli pesanti erano divenuti un incubo, pesi fatti di cose inutili e che sistematicamente restavano inutilizzate e chiuse nelle valigie.

Viaggiare leggeri credo che sia il lusso maggiore che ci si possa permettere, la fortuna è di chi ha la capacità di essere selettivo e indovinarci.

Dicevo, mi siedo e mi guardo intorno. Stesso spettacolo delle metropolitane, dei bus, dei parchi, dei giardini e, ahimè, spesso anche dei musei. Tutti chini sull’oggetto del desiderio, su quel telefonino attira-persona, o come lo chiamo io su quell’odioso e antipatico device, che ormai è una vera barriera a ogni scambio umano fatto di attenzione e ascolto. Nessun libro in vista. Rarissimi esemplari di bipedi ormai li sfogliano. Giornali tanto meno. Solo schermi. Non parliamo di bambini e ragazzini. Idem.

Tutti connessi, a mostrare quello che si mangia e si beve, a quanto si è felici e glamour, a come è bello il mare o la montagna, quella mania di presenza che ci allontana dal vero presente. Succede anche al ristorante, quegli schermi illuminati campeggiano sui tavoli, sempre a sbirciare, anche quando si parla, non esiste più un dialogo che non sia interrotto da un bip di WhatsApp, di un sms o di un e-mail urgente che necessita attenzione immediata, perché senza di noi il mondo non si salva o non va avanti. Tutti indispensabili. Diritto alla disconnessione? Siamo noi a non volerlo, a non esserne capaci.

Li odio, ammetto, li odio terribilmente, odio i telefonini e coloro che vi stanno sempre incollati. Appiccicati come la carta moschicida. Con lo sguardo perso e fisso di chi non vede quanto succede accanto.

È una presenza che diventa assenza, disattenzione verso colui che ti sta parlando che non viene puntualmente ascoltato, lo si capisce dalle risposte vaghe che si ricevono. A volte non sono da meno, e, allora, mi fermo.

Se avete visto il documentario su Netflix The Social Dilemma (se non lo avete fatto, ve lo consiglio) concorderete sul tipo di allarme e di controllo sulla e della nostra attenzione e delle sue motivazioni spesso commerciali, ma ciascuno di noi dovrebbe essere capace di fermarsi. Il cervello lo abbiamo, serve anche a quello, a farlo funzionare.

Basta onnipresenza, sempre e continua, alziamo gli occhi. Sempre di più leggo di persone che si prendono una pausa dai social network, non è semplice soprattutto per chi li utilizza per lavoro, ma va fatto. Bravi.

Stacchiamo gli occhi dal basso di uno schermo, guardiamo negli occhi la persona che ci sta di fronte, rivolgiamo lo sguardo al cielo per vederne le nubi o fuori da un finestrino del treno per cogliere la bellezza di alberi e prati.

Guardiamo intensamente il colore del mare e dei fiori, non importa se non li fotografiamo con un apparecchio di ultima generazione, la memoria farà il suo lavoro, quelle sensazioni resteranno per sempre nostre. Fermarsi a fotografare spesso fa perdere l’attimo, un attimo che si può fermare solo nella nostra mente. Perché la memoria e le sue sensazioni sono la sola vera ricchezza di ogni essere umano. Una sensazione che con gli anni si trasforma in un ricordo che diventa sempre più emozionante. Non è il posto che fa la differenza ma quel sentire che negli anni muta e spesso rincuora e conforta.

Guardiamoci intorno, allora, alziamo quella benedetta testa, cerchiamo i colori che nessuno schermo può darci, accarezziamo il nostro cane per sentirlo più vicino, allunghiamo la mano per sfiorare il capo di un genitore, di un nipote o di un nostro caro. Quella mano che è sempre sulla tastiera sia utilizzata per sfiorare, accarezzare, disegnare, dipingere, suonare, coltivare un orto, raccogliere un fiore, cucinare una verdura, ricamare, unirsi in preghiera per un salutare mudra di yoga.

Disconnettiamoci dalla finzione e ricolleghiamoci alla realtà. Su gli occhi, allora, via dagli schermi, sguardo dritto al cielo! Non è poi così difficile.

PRESTO DI MATTINA
Scrivere insieme

 

Scrivere insieme, tessitura della vita

Due scuole: quella di Vho frazione del comune di Piàdena nella pianura cremonese e quella di Barbiana sul fianco nord del monte Giovi, a 470 metri sul mare, che guarda il Mugello e la valle della Sieve affluente dell’Arno.

Due maestri: Mario Lodi [Qui] e Lorenzo Milani [Qui], contesti scolastici diversi e geograficamente lontani, ma vicinissimi nell’arte dello scrivere e soprattutto nella scrittura collettiva. Scrivere insieme per riuscire a esprimere compiutamente quello che ciascuno è; per far uscire alla luce un tesoro nascosto di storie, di esperienze e di vite.

Scrivere insieme è attesa della parola dell’altro; è quel comunicare nello scambio di parole, provocando parole, inducendo parole, altre ancora non nate, come per corrispondenza di lettere che vanno e vengono nel tempo in cerca di risposta.

Così anche le poche parole di uno, incontrando le poche parole di un altro, parole seminate l’una nel terreno dell’altro si moltiplicano, generando fili intrecciati di una trama comune che riflette un comune cammino nella vita.

Due libri narrano queste esperienze didattiche: quella del maestro di pianura, fissata in un diario documentario dal titolo Il paese sbagliato; e quella del priore di montagna in Lettera ad una professoressa.

Nell’anno del centenario della nascita del maestro e pedagogista Mario Lodi (1922-2014) merita ricordare la leggerezza e l’empatia del suo metodo di insegnamento, che mirava a perseguire il passaggio da una scuola trasmissiva, con testi uguali per tutti, lezioni frontali da docente a discente, a una scuola interattiva che partiva dalla realtà del bambino, dal suo mondo e da qui innestava una ricerca che affrontava i problemi dei ragazzi, fino ad ampliarsi alle questioni del mondo in cui vivevano.

Esperienze comunicate poi attraverso un giornale di classe, quasi quotidiano, per lo più frutto di una scrittura collettiva. Trecento undici sono i “giornaletti” che il maestro Lodi ha realizzato con i suoi allievi della scuola elementare di Piàdena dal 1973 al 1978, e pubblicati poi in tre volumi da Laterza: Il mondo. Mario Lodi e i suoi ragazzi.

La metodologia scolastica di Mario Lodi, amico di Gianni Rodari, come lui narratore di fiabe e racconti, si ispirava alle idee di Celestino Freinet [Qui], inventore di una pedagogia popolare da attuarsi nello stile di una cooperazione educativa.

Intuizioni poi che furono sviluppate da un gruppo di insegnanti italiani che nel primo dopoguerra (1951) si riunirono in un movimento (MCE Movimento di Cooperazione Educativa), le cui finalità erano di provare a cambiare radicalmente un metodo scolastico che non poneva al centro ragazze e i ragazzi, e non li rendeva partecipi e interpreti della loro educazione, come personaggi in cerca di identità.

Di più: li costringeva con autorità a entrare in certi modelli di vita precostituiti e non corrispondenti al loro vivere, anziché aiutarli a liberare la loro creatività e capacità inventive ed espressive.

Di contro Lodi valorizzava un nuovo modello scolastico nei rapporti tra insegnanti e alunni; vedeva la scuola come strumento di emancipazione da situazioni frutto di ingiustizie e disuguaglianze sociali.

Uno stile di familiarità, di rispetto e gentilezza, pur restando esigenti e rigorosi, che lasciasse il tempo per una maturazione integrale e armoniosa della persona.

Un ambiente ed uno spazio comuni di oralità e di scrittura dove, come in un puzzle fatto a molte mani ciascuno potesse cooperare a far nascere un dire e una scrittura insieme dentro alla propria e alla vita d’altri, un senso generato e accresciuto da molti altri significati.

Fu nel 1963 che Mario Lodi salì a Barbiana per conoscere un prete strano e burbero con gli estranei. Solo due giorni stettero insieme ma per don Milani furono giorni decisivi.

Forse una nuova scoperta o una conferma all’intuizione di un modello educativo, quello dello scrivere insieme un testo a partire dalle parole che ciascuno scriveva su dei fogliettini. Da quell’incontro scaturì fra l’altro l’iniziativa di avviare una corrispondenza epistolare tra le due scuole.

Mario Lodi annotava nel suo diario dopo quell’incontro: «Quando ci arrivai, don Lorenzo e i ragazzi erano nel bosco a far lezione: il nostro incontro avvenne là. L’intervista invece avvenne sotto il pergolato.

Mi aggredirono con domande che mi fecero a pezzi. Mi chiesero se credevo che nella scuola statale, come è oggi, sia possibile per un educatore insegnare l’amore del prossimo. Loro dicevano di no, che ciò non può avvenire perché troppe suggestioni mandano in fumo quel poco di buono che i più tenaci e intelligenti educatori sarebbero in grado edificare.

Parole dure, ma facce pulite e oneste. Parlo del mio lavoro e mi ascoltano interessati, anche don Lorenzo. A pranzo parliamo del grande papa, dei tempi che si maturano e che lui non vedrà… È duro contro i preti e i maestri che, in modi diversi, formano uomini-pecore invece di uomini liberi.

Continuo a guardare quello stanzone arredato poveramente, i muri tappezzati di grafici che documentano la lotta di liberazione dei popoli dal fascismo e dal colonialismo. In un angolo c’è una carta del cielo.

La sera mi offre il suo letto e lui si ritira in una stanzetta, su una branda. La perpetua mi confida che è preoccupata per la salute del priore, perché si strapazza, non si dà riposo, non mangia. Ci lasciamo con un impegno: mettere in corrispondenza le nostre due scolaresche» (Il paese sbagliato, Diario di un’esperienza didattica, Einaudi, 1970, 457-458).

Tempo dopo, Lodi dirà di don Lorenzo che alcuni l’avevano descritto come uno che non accettava consigli, orgoglioso, mentre lui percepì il contrario durante l’esperienza di quell’incontro, anche se non avrebbe saputo dire se la svolta nel metodo pedagogico del priore fosse da attribuire ai loro discorsi o frutto della successiva lettura dei libri del MCE.

 

L’arte dello scrivere

Il 2 novembre 1963 il priore, oltre al testo collettivo dei ragazzi di Barbiana a quelli di Vho, incluse anche una sua lettera al maestro Lodi, in cui spiegava la tecnica usata e gli strumenti – la cassetta degli attrezzi – al fine di giungere ad una scrittura collettiva.

«Caro maestro, le accludo la lettera. La ringrazio d’averci proposto quest’idea perché me ne sono trovato molto bene. Non avevo mai avuto in tanti anni di scuola una così completa e profonda occasione per studiare coi ragazzi l’arte dello scrivere. Per noi dunque tutto bene anzi sono entusiasta della cosa.

Il testo che risulta da questo lavoro è composto da 823 parole. Il testo è perciò diminuito di ben 305 parole pur essendo arricchito di molti concetti nuovi.

Il lavoro di questi ultimi tre giorni è stato entusiasmante per me e per i ragazzi. Straordinaria la possibilità, in questa fase, dei più piccoli di trovare qualche volta soluzioni migliori dei grandi. Pochissima incertezza: in genere la soluzione migliore s’impone molto evidentemente alla preferenza di tutti.

Infatti, ormai che s’era stabilito cosa volevamo dire, non restava che trovare il modo migliore di dirlo e su questo in genere non c’era molto da discutere. Esiste oggettivamente una soluzione che è migliore delle altre.

In questa fase si possono studiare insieme tutti i problemi dell’arte dello scrivere: completare e semplificare. Finir di cercare quel che non si è ancor detto, cercare di dire col minimo di mezzi.

Cercare di indovinare la reazione del lettore, eliminare le ripetizioni, le cacofonie, gli attributi e le relative non restrittivi, i periodi troppo lunghi ridomandandosi all’infinito se un dato concetto è vero, se è nel suo giusto valore gerarchico, se è essenziale, se il destinatario avrà gli elementi per comprenderlo, se provocherà malintesi.

A questo punto c’è venuto fatto di cercare di eliminare anche le frasi che suonavano troppo vanitose. Ma ci siamo imposti di non farlo. L’arte dello scrivere consiste nel riuscire a esprimere compiutamente quello che siamo e che pensiamo, non nel mascherarci in migliori di noi stessi.

Del resto l’orgoglio di questi ragazzi l’ho coltivato io volutamente per anni. Quando ho davanti uno studente o un cittadino faccio di tutto per umiliarlo, levargli un po’ di sicurezza di sé. Quando ho un contadino o un operaio cerco proprio il contrario: di dargli un po’ di sicurezza di sé», (ivi, 458-459).

 

Il paese sbagliato

L’enigmatico titolo del diario scolastico di Mario Lodi Il paese sbagliato lo si comprende anche alla luce dell’espressione “sbagliando s’impara”, l’invito cioè ad adeguare, sempre di nuovo le idee, i pensieri, le parole, i comportamenti alla realtà come misura del vero.

Un far corrispondere e dunque un modificare, sottrarre o aggiungere, fermarsi e riprendere sempre di nuovo la realtà al pensare, allo scrivere al vivere, perché – direbbe papa Francescola realtà è più grande dell’idea.

Educare è misurare tutto, misurarsi continuamente con la realtà. Ma “il paese è sbagliato” anche perché la mappa che ne hanno fatto i ragazzi necessitava di continui aggiornamenti e confronti per restare un paese aperto al mondo, vivo, reale;

il paese che è fissato nei loro pensieri e nella loro descrizione frutto delle loro conoscenze è solo una parte inadeguata che necessita un confronto continuo con quello reale.

I ragazzi disegnano il loro paese sulla carta ma poi, uscendo di classe, si accorgevano di aver dimenticato delle cose che non entravano più nella mappa, così da tracciare un paese sbagliato.

Leggiamo dal testo: «La grande carta si arricchisce di altri elementi provenienti in gran parte dai testi liberi. Ma ecco che un giorno c’è un problema da risolvere tutt’altro che facile.

– Ieri sono andata in posta a spedire le lettere ai nostri amici e ho visto il giardino del Comune, – dice Cosetta. – Allora l’ho disegnato per metterlo nel paese e l’ho fatto piccolo piccolo, più piccolo della carovana degli zingari, ma li non ci sta.

– Non c’è posto, – dice Fabio. – Eh già, perché tra la chiesa e la bottega dell’Orsolina c’è la piazza e lì invece è tutto attaccato, – spiega Angelo. – Anche là, se vuoi metterci il bar, non c’è posto, – dice Carolina.

– Anche qui… – Allora il paese è sbagliato! – esclama Angelo preoccupato.

Anche gli altri sono preoccupati: infatti qui la strada è troppo lunga, là è troppo corta, qui lo spazio è tutto occupato da un edificio mentre nella realtà di cose ce ne sono parecchie. Come si fa? – Eh, già, – ripete Angelo sconsolato, – bisognava misurare tutto», (ivi, 170).

Bisogna misurare tutto: occorre fare sempre i conti con la realtà, più complessa oscura che non sta tutta nelle tue mani e nella tua testa. Si sbaglia, che è come dire si prende un abbaglio, quando non si bada, non ci si misura con la realtà. Ma sbagliando s’impara perché si cerca di nuovo una via.

Ecco ciò che insegna anche un paese sbagliato, e ripercorrendo quell’esperienza il maestro di Vho descrive poi l’itinerario che si è sviluppato da quel punto di partenza, da quell’abbaglio, passando sempre oltre in una profondità illuminata a poco a poco.

Così «dalla carta del paese sbagliato alla mappa orientata in scala, dai testi episodici al libro del paese suddiviso in capitoli al quale lavoreremo sino alla quinta classe; e poi i personaggi venuti alla ribalta a raccontare le loro storie vere: la rondine che deve partire, il fagiano di Tiberio, i coscritti, i racconti di Agostino …

Con nonno Agostino abbiamo addirittura passeggiato in su e in giù per un secolo scoprendo molte cose: che dal mal d’occhi non si guarisce portando orecchini d’oro, che la natura è un libro aperto spesso più interessante della TV, che alla guerra si può dire di no, che le leggi si possono cambiare e i re cacciare, che nella vita di un uomo è riflessa quella dell’umanità che progredisce continuamente sul piano tecnologico ma non altrettanto su quello morale.

Accenno alle numerose conversazioni che hanno accompagnato i ragazzi verso punti nodali da cui prendevano il via ricerche verso scoperte sempre più complesse. Ricordo che abbiamo costruito gli strumenti dell’osservatorio meteorologico, la mongolfiera… che abbiamo puntualmente realizzato i giornalini mensili, formato un coro insieme con altre tre classi, costituito nella nostra classe un’orchestrina.

Ma questo non è tutto: abbiamo letto e criticato il libro di lettura e il manuale, ne abbiamo riscritto alcune parti che erano stese in forma difficile, abbiamo riscritto in versi il Vangelo di Matteo che Lorena e Umberta hanno musicato, abbiamo creato molte poesie e molti canti, e tante pitture …» (ivi, 243-244).

 

Scrivere insieme è scrivere l’infinito

Un inizio senza fine. L’infinito viaggiare sulla carta per camminare insieme nella realtà. Ricorda Claudio Magris [Qui] che «il viaggio – nel mondo e sulla carta – è di per sé un continuo preambolo, un preludio a qualcosa che deve sempre ancora venire e sta sempre ancora dietro l’angolo;

partire, fermarsi, tornare indietro, fare e disfare le valigie, annotare sul taccuino il paesaggio che, mentre lo si attraversa, fugge, si sfalda e si ricompone come una sequenza cinematografica, con le sue dissolvenze e riassestamenti, o come un volto che muta nel tempo».

Così come il viaggio la scrittura ha sempre da ricominciare, come l’educazione, come la vita. Un continuo «trasloco dalla realtà alla carta – scrivere appunti, ritoccarli, cancellarli parzialmente, riscriverli, spostarli, variarne la disposizione. Montaggio delle parole e delle immagini, colte dal finestrino del treno o attraversando a piedi una strada e girando l’angolo» (L’infinito viaggiare, Milano 2005, VII-VIII).

 

Scrivere insieme è come tradurre

Scrivere insieme è come tradurre, un far passare parole di un’altra lingua, le parole dell’altro, perdurante vibrazione di note, in noi.

Scrivere come se questo
fosse opera di traduzione,
di qualcosa già scritto in altra lingua.
La parola si carica ed esita,
continua ancora a vibrare
come sulla tastiera le note tenute
sopravvivono allo staccato
e lo percorrono fino al suo tacere,
fiaccola dell’orizzonte.

(Valerio Magrelli [Qui], Poesie 1982-1992 e altre poesie, Torino 1996, 81).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Foto do Gero Birkenmaier da Pixabay [Qui]