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Giorno: 9 Luglio 2022

Ho già comprato il biglietto per Bruce ma voglio salvare il Parco Urbano

Waiting on a sunny day
(Aspettando una giornata di sole)

Mi piace il blues ma sono più sincero se scrivo che mi piace ascoltare musica, senza bisogno di suddividerla in categorie, più comode per i critici che per gli appassionati.

Fra gli artisti che stimo e che mi piacciono di più, c’è Bruce Springsteen, che da solo vale molto, ma senza la sua E Street Band sarebbe come Ferrara senza il Castello Estense.

Negli anni, la puntina del mio giradischi ha letto, riletto e scavato ogni solco dei suoi LP fino ad estrarne chilogrammi di energia, quintali di potenza e tonnellate di vitalità.

Lo vidi per la prima volta in un concerto allo stadio di Torino nel 1988 e fu un’esperienza unica: una performance straordinaria, corroborante, addirittura terapeutica.

Mi piace talmente Springsteen che appena ho saputo del suo concerto a Ferrara ho comprato i biglietti nonostante il prezzo e nonostante la località scelta.

Mentre, fra i primi, compievo l’operazione online ricordavo tristemente a me stesso la differenza tra un passato in cui si contestavano gli artisti manifestando per i prezzi troppo alti dei loro concerti e questo presente in cui da un lato, senza ritegno, gli organizzatori chiedono cifre astronomiche per poter assistere ad uno spettacolo (più altre ingiustificabili per poter comprare il biglietto online) e, dall’altro, noi appassionati siamo disposti a pagare quelle cifre mantenendo le nostre lamentele nei confini di una cosiddetta normalità che comincia ad essere preoccupante.

I tempi son cambiati ed io non mi sarei mai aspettato un concerto del Boss a Ferrara ma soprattutto non me lo sarei mai aspettato in una zona così bella e delicata dal punto di vista naturalistico come il parco Bassani.

Ma lo stupore per l’arrivo del Boss a Ferrara è sicuramente inferiore a quello che ho provato per la zona scelta.

Non è logico che un evento così straordinario possa andare a rovinare un parco così straordinario, perché è evidente che 50 o 60 mila persone non possano fare del bene a quel parco.

In un certo senso, ho l’età per aver visto nascere e crescere il Parco Urbano intitolato a Giorgio Bassani.
Quando è nata mia figlia è stato bello ricevere una lettera dell’amministrazione comunale per comunicarci che avrebbero piantato un albero per ogni bambino e per ogni bambina nati a Ferrara.

Il Parco Bassani è diventato così bello anche per quella scelta metaforicamente bellissima: “Il futuro è nei nostri figli, nei nostri alberi, nel nostro verde e nella cura che vi dedichiamo”. C’è il finale di una filastrocca di Bruno Tognolini che riassume stupendamente quello che voglio dire: “Come sarà l’orizzonte che tracci dipende da come mi abbracci”.

Il Parco Bassani è diventato bello perché ha ricevuto cure amorevoli che hanno richiesto tempo ed attenzione.

Fare un concerto che porterà decine di migliaia di persona a Ferrara e al Parco Urbano vuol dire stuprare “il parco più bello della città” (quello sì che lo è, a dispetto di quello del grattacielo definito dall’amministrazione comunale il più bello ma che sicuramente non può reggere il confronto).

Fare il concerto di Springsteen al Parco Bassani vuol dire scegliere il ritorno di ‘immagine’ infischiandosene di violentare un ecosistema unico.

Fare un evento simile in un parco simile vuol dire che l’unico ambiente che gli organizzatori hanno a cuore è quello del portafoglio.

Del resto come non notare, anche in questi giorni, che il prezzo di una bottiglietta d’acqua durante i concerti del Ferrara Summer Festival in piazza Trento Trieste è di 3 e addirittura di 5 euro!!!

Il parco Urbano Giorgio Bassani è stato pensato per essere un grande spazio di rinaturalizzazione tra la città, la campagna e il Po; il concerto di Bruce Springsteen è stato pensato in quel posto per avere più visibilità ma senza preoccuparsi troppo dell’organizzazione: dove parcheggeranno le auto tutte quelle persone, come verrà riorganizzata la viabilità, sarà sufficiente la capacità ricettiva di Ferrara?

Leggo che l’amministrazione comunale rassicura dicendo che stanno preparando una task force; io quando si usano termini così roboanti e bellicistici penso ad un effetto finale inversamente proporzionale agli intenti. La task force non mi fa stare bene.

Leggo poi che l’amministrazione comunale rassicura dicendo che starebbero elaborando un progetto per la tutela della fauna selvatica che prevede lo spostamento della stessa. In pratica stanno pensando di spostare ogni singolo essere vivente. Non so voi, ma io credo che questa sia una battuta incredibile di una comicità straordinaria se non fosse demenziale. Nemmeno l’amministratore più ‘scalzacane’ avrebbe potuto concepirla. La ‘demenzialità politica’ di certi soggetti non mi fa stare bene.

Quando, una volta sceso a compromessi con me stesso, ho comprato quel biglietto per il concerto di Springsteen al Parco Urbano, dapprima ho provato a digerire quella cifra ma poi ho promesso a me stesso che, nel mio piccolo, mi sarei impegnato per proporre alternative più sostenibili affinché il concerto di Bruce Springsteen e della E Street band si possa svolgere sempre a Ferrara ma in un altro posto.

Ad esempio, ricordo all’amministrazione comunale attuale e agli organizzatori del concerto che l’area dell’aeroporto di Ferrara è uno spazio molto interessante e da tenere in considerazione perché ha tutte le caratteristiche per poter ospitare un grande evento.

Ricordo che quello spazio, nel 1985, ospitò una partecipatissima Festa Nazionale dell’Unità.

Ricordo i concerti di Paolo Conte, di Lucio Dalla, di Claudio Baglioni, di Ornella Vanoni, di Gino Paoli, di Katia Ricciarelli e degli Style Council.

Ricordo che al comizio finale del segretario Alessandro Natta c’erano migliaia e migliaia di persone venute da tutta Italia.

Quello è un posto che sarebbe da valutare come alternativa concreta.

C’è una frase, fra le mie preferite, di una canzone di Springsteen che riguarda la scuola e che dice: “We learned more from a three minute record than we ever learned in school” (“Abbiamo imparato di più da un disco di tre minuti di quanto abbiamo mai imparato a scuola”). Può significare che, se le istituzioni sono lontane, si impara anche e soprattutto dalle cose della vita.

Bruce Springsteen da solo vale molto ma, se al posto della E Street Band avesse un altra band, sarebbe come Ferrara con un Parco Urbano che i politici e gli affaristi pertUrbano con la loro presunzione che la politica sia tutto uno show.

Ben venga quindi un confronto costruttivo per cercare alternative sostenibili ma prima… “Sciò” allo show a tutti i costi perché quei costi ambientali, sociali ed economici poi li pagheremo noi cittadini.

Mi auguro che l’amministrazione e gli organizzatori riescano ad ‘imparare dalle cose della vita’ quindi dal passato, dall’esperienza. e non debbano fare le cose solo per dimostrare, a tutti i costi, di essere diversi dall’amministrazione precedente.

A noi cittadini basterebbe che dimostrassero, nei fatti, di avere a cuore la nostra città, di agire per il suo meglio e per un suo futuro sostenibile.

La scelta del Parco Urbano per il concerto di Bruce Springsteen e della E Street Band crea “Darkness on the edge of town” (Oscurità ai margini della città) noi invece stiamo “aspettando una giornata di sole” (Waiting on a sunny day).

Su questo quotidiano:
– per sapere qualcosa di più sul Parco Urbano Bassani leggi l’articolo di Gian Gaetano Pinnavaia [Qui]
– per leggere e firmare la petizione popolare SAVE THE PARK [Qui]

Cover: elaborazione grafica di Ambra Simeone

PRESTO DI MATTINA
Fronte d’onda

 

Il Vangelo nelle periferie

«Perché la vera trasformazione viene dalla periferia?»: è la domanda posta a papa Francesco in una recente intervista rilasciata all’agenzia di stampa argentina Télam.

Una domanda suggerita alla giornalista Bernarda LLorente dal fatto che più volte Papa Bergoglio parla delle periferie; un’idea, maturata in lui grazie al pensiero della filosofa argentina Amelia Podetti [Qui], che cioè le periferie siano un osservatorio privilegiato dal quale cogliere le spinte generative di cambiamento e riforma, anche ecclesiale.

«Mi colpì in particolare una conferenza della Podetti − è la risposta di Francesco − in cui essa diceva: “L’Europa ha visto l’Universo quando Magellano è arrivato al Sud”. In altre parole, dalla periferia più ampia, ha capito sé stessa.

La periferia ci fa capire il centro. Si può essere d’accordo o meno, ma se vuoi sapere cosa prova un popolo, vai in periferia. Le periferie esistenziali, non solo quelle sociali.

Vai dagli anziani, pensionati, dai bambini, vai nei quartieri, nelle fabbriche, nelle università, dove si gioca il quotidiano. Ed è lì che si mostra il popolo. I luoghi in cui il popolo può esprimersi più liberamente. Per me questo è fondamentale», (Dalla crisi non si esce da soli si esce correndo rischi e prendendo l’altro per mano, in L’Osservatore Romano, 01/07/2022, 11).

È un’indicazione metodologica preziosa. Della quale dovremmo far tesoro anche per comprendere la nostra esperienza di cittadinanza; ma anche quella ecclesiale, delle parrocchie, delle nostre unità pastorali: contesti e istituzioni che meglio si comprendono a partire dalle periferie.

Del resto, il vangelo in periferia è quello che ti pone in ascolto e in relazione con le differenze. Dimorando nella distanza e nella diversità, ti chiede di correre dei rischi, di provare e riprovare a prendere per mano gli altri, non meno che a lasciarti condurre da loro.

L’annuncio e la pratica del vangelo comportano infatti la necessità di assumere le situazioni e la realtà in cui si vive, per provare ad addentrarsi in esse, come la prua nell’onda.

Solo così quel vangelo, posto al centro dell’ambone nelle assemblee liturgiche domenicali, diventerà benedizione e lievito in noi e tra la gente.

La chiesa comprenderà il vangelo letto la domenica e si convertirà ad esso, praticandolo nelle periferie sociali, culturali, religiose, esistenziali: quelle in cui essa è chiamata a vivere portando avanti quella trasformazione strutturale e di riforma missionaria auspicate da papa Francesco.

C’è nell’Evangelii nuntiandi di Paolo VI del 1975 un testo ripreso più volte anche da Francesco, sia in Evangelii gaudium sia in Querida Amazonia, che invita a riconoscere proprio dal vangelo − anzi dal suo cuore − «l’intima connessione tra evangelizzazione e promozione umana», tra centro e periferia, tra gli inviati e i destinatari dell’annuncio.

Alla base v’è un indissolubile legame tra l’accoglienza dell’annuncio salvifico e un effettivo amore fraterno. Perché è proprio nel fratello che si prolunga, per ognuno di noi, l’Incarnazione divina: “Dal cuore del Vangelo riconosciamo l’intima connessione tra evangelizzazione e promozione umana, che deve necessariamente esprimersi e svilupparsi in tutta l’azione evangelizzatrice”». (EG 178- 179).

Si legge ancora in Querida Amazonia: «Questa inculturazione, [del vangelo nella vita] dovrà necessariamente avere un timbro fortemente sociale ed essere caratterizzata da una ferma difesa dei diritti umani, facendo risplendere il volto di Cristo che ha voluto identificarsi con speciale tenerezza con i più deboli e i più poveri.

Perché “dal cuore del Vangelo riconosciamo l’intima connessione tra evangelizzazione e promozione umana”, (EG 178) e ciò implica per le comunità cristiane un chiaro impegno per il Regno di giustizia nella promozione delle persone scartate.

A tale scopo è di estrema importanza un’adeguata formazione degli operatori pastorali nella dottrina sociale della Chiesa. Allo stesso tempo, l’inculturazione del Vangelo in Amazzonia deve integrare meglio la dimensione sociale con quella spirituale, così che i più poveri non abbiano bisogno di andare a cercare fuori dalla Chiesa una spiritualità che risponda al desiderio della loro dimensione trascendente.

Pertanto, non si tratta di una religiosità alienante e individualista, che mette a tacere le esigenze sociali di una vita più dignitosa, ma nemmeno si tratta di tagliare la dimensione trascendente e spirituale, come se all’essere umano bastasse lo sviluppo materiale.

Questo ci chiama non solo a combinare le due cose, ma a collegarle intimamente. Così risplenderà la vera bellezza del Vangelo, che è pienamente umanizzante, che dà piena dignità alle persone e ai popoli, che riempie il cuore e la vita intera» (QA 75-76).

 

Le periferie: il fronte dell’onda

Nel 2006 si iniziava a parlare delle unità pastorali anche in diocesi; ma era appena un’increspatura d’onda. Nel linguaggio del vescovo Rabitti [Qui] erano nominate presidi pastorali:

«La centralità della parrocchia non le impedisce di aprirsi ad uno slancio di pastorale d’insieme sull’ipotesi del presidio pastorale”; è dunque chiesto alle parrocchie per cominciare a mettersi ‘in rete’, un tirocinio che postula l’atteggiamento interiore di ‘convinzione’, senza del quale ogni tentativo è destinato a fallire».

Forse allora si era carenti proprio di convinzione circa il fatto che la vita spirituale e la vita pastorale dovessero coinvolgersi in quel processo nel quale si raccolgono insieme i frammenti al fine di superare dispersioni ed esclusioni.

Lo stesso che si concretizzò dopo la moltiplicazione dei pani, quando i resti furono così abbondanti da riempire 12 ceste. Con simile metodo bisognava essere motivati e decisi per istruire rapporti nuovi ed ri-accogliersi gli uni gli altri. Del resto, rimettere i remi in mare è esercizio di corresponsabilità, segno della volontà di prendere il largo insieme per passare all’altra riva.

Quell’espressione “presidio pastorale” mi suonava ostica. Cercai allora di spiegarla, non come un baluardo per difendersi da quelli di fuori, ma come un avamposto, un’opportunità di novità, di incontri creativi, di integrazione, scoperta e condivisione del vivere la diversità, quella del tipo Balla coi lupi, nello stile Kevin Kostner.

Fuor di metafora, la compresi come il porsi “in prima linea” delle nostre comunità, nella loro forma missionaria, che è essenzialmente uno “stare davanti”, con quella carità ospitale che tra i cristiani ha nome agape, attinta al Cristo risorto, che manda a dire ai suoi discepoli anche oggi che egli li ha già preceduti nelle periferie e lì attende.

In questi ultimi anni ho condiviso il cammino con le persone del Centro di ascolto dell’unità pastorale di Borgovado. Non solo vicini alle famiglie durante la pandemia, ma poi già dallo scorso autunno nell’emergenza abitativa dei senza tetto.

Strada facendo, siamo cresciuti con adesioni di persone di differenti competenze e sensibilità. Alcuni di loro erano già operativi su quel fronte dell’onda, costituito geograficamente da via Borgovado e via Brasavola, sino alla sede Caritas diocesana.

Ritengo che i centri di ascolto costituiscano per le nostre comunità lo stimolo ad essere una chiesa in uscita, che parla alla città, di qui la necessità di fare rete tra di loro.

Di più sono la frontiera stessa dell’evangelizzazione, in grado di risvegliare la coscienza cristiana, richiamandola alla necessità di attraversare il vado per andare oltre. Poiché l’oltre della fede e dell’annuncio è proprio la carità pastorale verso tutti, specie verso le periferie, senza dimenticare le persone a noi più vicine.

È una frontiera tumultuosa quella che ci è chiesto attraversare, che apre una strada al vangelo tra la gente; “un orizzonte in movimento”, direbbe Teilhard de Chardin [Qui], un fronte d’onda, simbolo per lui del risvegliarsi della coscienza, che senza abbandonare il dentro di sé (dedans) il proprio centro, è protesa fuori di sé (dehors) verso le periferie.

Un movimento di trascendenza caratterizzato da un duplice slancio, in avanti (en avant) e in alto (en haut). Nell’immagine della linea del fronte, Teilhard riconosceva il milieu, il limite estremo, e il superamento di ciò che si prova e di ciò che si fa, il passare oltre: il punto più profondo della coscienza nella decisione della libertà che si rischia per gli altri.

Ed è pure come attraversare acque invadenti e rumorose, affrontando il turbinio del vento, come il fronte dell’onda quando il fiume entra nel mare. Ma occorre, è necessario ‘passare’ per divenire alfine da discepoli apostoli, da stanziali a inviati.

Ricordo ancora la fine della veglia di Pentecoste in cattedrale molti anni fa. Eravamo incanalati come un piccolo fiume lungo la navata verso l’uscita, come una placida onda sospinta dalla rinnovata brezza dello Spirito; la quiete di quella notte non ci avrebbe di certo spaventato.

Ed invece, spalancate le porte della cattedrale, un muro, una marea di gente vociante sin sulla soglia della Cattedrale, la gente del Palio, con i loro tamburi e trombe, e la gente della città, mescolati sulla piazza, come un mare rumoroso e ondeggiante che attendeva, sorprendendolo, quel placido fiume di fedeli.

Ci fu come un attimo di smarrimento. Sembrò quell’onda fermarsi, anzi ritornare indietro, almeno nel desiderio, quasi a cercare una quiete – nostalgia di Cenacolo − che si doveva tuttavia lasciare: come quando un fiume entra nel mare e le acque dell’uno si scontrano con quelle dell’altro, contrastano, ribollono, crescono fronteggiandosi tra loro per un attimo lunghissimo, che fa tenere il fiato sospeso e poi, un’onda è abbracciata, stretta dentro all’altra.

Infine, come il lievito nella pasta, il vangelo dentro di te, la trasformazione continua, quel fronte diventa tutto interiore, “una prova di amore”. Tu e lui soli, − direbbe Romano Guardini [Qui] − come nella lotta di Giacobbe con l’angelo al guado dello Iabbok: una lotta ogni volta, ferita d’anca pure, ma alla fine, non senza benedizione sugellata da un nome nuovo.

 

Un giornale di strada

Chi l’avrebbe mai detto che L’Osservatore Romano sarebbe diventato il quotidiano delle periferie del mondo, l’eco della stampa sulle piccole e grandi riforme che danno senso, incoraggiano e fanno vivere piccole e grandi chiese. Ma anche un grido per le svariate ingiustizie che affliggono gli angoli più remoti e dimenticati del pianeta.

Da nove anni l’OR lavora come servizio di informazione e formazione per una chiesa ‘in uscita’, facendo luce su quelle realtà che altri si affannano a nascondere e silenziare.

Ma tutto questo non è bastato ai suoi redattori, desiderosi di attuare ancora di più l’invito rivolto da papa Francesco a tutti i giornalisti di «tornare a consumarsi le scarpe, ad uscire dalle redazioni e camminare per le città, a incontrare le persone, a verificare le situazioni in cui si vive nel nostro tempo».

In questa prospettiva va letta l’iniziativa della redazione, inaugurata il 30 giugno, di un mensile online, distribuito gratuitamente anche in cartaceo la domenica all’Angelus del papa, dal titolo L’Osservatore di Strada [Qui].

Nelle intenzioni: «un giornale che esce dalle stanze della redazione per andare lungo le strade, dove vive chi non ha un tetto né ‘dove posare il capo’, per incontrarlo e provare a renderlo protagonista».

«Perché un giornale di strada? Si domanda uno dei redattori. La risposta a darla sarà la voce di chi solitamente non è ascoltato, quella dei poveri, dei fragili, delle persone ferite dalla vita, di chi è messo alla porta ed escluso.

Perché gli ‘scartati’ hanno qualcosa da dire e da insegnare sul serio. In strada per alimentare – come recita il sottotitolo alla testata – l’amicizia sociale e la fraternità.

Creare relazioni” è l’obiettivo del mensile, dando così piena dignità e valore alla storia di ciascuno. Non limitandosi a un seppur importante, doloroso, racconto di denuncia che rischia – tragicamente – persino di assuefare… Non è un giornale pensato ‘per’ i poveri ma ‘con’ i poveri» – e in quel ‘con’ c’è tutto», (OdS, luglio-agosto, 1/2022, 1;8).

 

In strada la notte

Vorrei che il prossimo inverno non ci prendesse alla sprovvista. Per questo chiedo già ora, a molti mesi di distanza, di non sottovalutare l’emergenza cittadina dei senza tetto e dei senza dimora. Possibile fare di più? Proviamoci insieme.

Racconta Luigi:

«La cosa più brutta del vivere per strada? Per me è la notte.

Non c’è un nascondiglio veramente sicuro nella città e dormire per strada, o sotto un ponte, espone a tutti i rischi che si possono immaginare.

Si dorme sempre con un occhio solo, mai tranquilli. Ti puoi svegliare che ti hanno rubato le scarpe o lo zaino in cui avevi i documenti, che senza quelli non sei nessuno.

Oppure qualche ragazzaccio in vena di bravate ti mena solo perché si annoia, o deve fare il ‘fico’ davanti agli amici.

E poi il freddo…

Uno non se lo può immaginare il freddo di certe notti d’inverno, quando il vento urla e tu puoi avere pure dieci coperte, ma il freddo passa lo stesso, e tremi… e se poi si aggiunge la pioggia…

Sì, perché tutti sono convinti che a trovare un riparo dalla pioggia non ci vuole niente. Ma mica è vero.

Negli ultimi anni un sacco di posti sono stati chiusi con le inferriate, pure davanti alle chiese certe volte. E se ti fradici, e stai per strada, non è che poi vai a casa e ti cambi. No!

Ti si asciuga tutto addosso, la mattina dopo, al sole. Se c’è il sole.

Qualche volta per la disperazione ho preso a dormire su un autobus… da capolinea a capolinea. L’avevo scelto col percorso bello lungo così potevo dormire un po’ di più, e al caldo, senza stare sotto la pioggia. Però, per quanto lungo, dopo 45 minuti arrivi all’altro capolinea e devi scendere. Poi aspetti, risali, fai altri 45 minuti e riscendi…

E così via.

Per fortuna ogni tanto l’autista capisce e ti lascia dormire sopra anche al capolinea. Una volta uno mi ha pure portato un caffè. Certi so’ bravi.

E poi c’è da trovarsi dove ci si può lavare, prendere dei vestiti puliti…

Per mangiare? Lì per fortuna ci sono tanti aiuti perché nelle mense della Comunità di Sant’Egidio o della Caritas o in tante parrocchie si mangia e si trovano tante brave persone che ti ascoltano e ti danno una mano concreta.

Il problema per me… insomma, l’avete capito, è quando arriva la sera… e poi la notte.

Ecco, quella è proprio la cosa che non sopporto» (OdS, 1)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Cerniere che non tengono

 

Il capitalismo, l’ondata cinese, il commercio per nulla equo e sostenibile, lo sfruttamento dei bambini indiani per la produzione delocalizzata, la vendita sulle bancarelle del mercato nero dei prodotti finti griffati, la bassa qualità degli oggetti prodotti, insomma la lavatrice che ho comprato 20 anni fa che è durata di più di quella comprata 2 anni fa. Stessa cosa per le scarpe e per i vestiti.

Non c’è dubbio che i dubbi aumentano, di anno in anno. La guerra delle religioni, quella delle pandemie, quella del mercato che regna su tutte. Quella dei diritti umani sempre in prima linea, ma non abbastanza quando si scontra con le istituzioni, di sicuro non sempre al passo con i tempi. E ci sono giudici lungimiranti in Slovenia che cancellano il divieto a coppie dello stesso sesso di sposarsi e adottare figli. Quando in Jugoslavia negli anni Ottanta l’omosessualità veniva punita per legge; ora vengono cancellate due discriminazioni evidenti, e una terza che prevede la fecondazione assistita per le coppie dello stesso sesso e per i single.

Poi ci sono sentenze Torinesi che cancellano i diritti di una ragazza di vent’anni di potersi “sbronzare” o portare indumenti più corti o con cerniere non abbastanza resistenti da evitare uno stupro. A detta di questi signori e signore, il diritto ad “osare” di un ragazzo di venticinque anni è maggiormente tutelabile che non quello di una ragazza di vent’anni di dire “no” e di poter lasciare aperta (per sbaglio) la porta di un bagno; senza che questo possa costituire un fraintendimento o un’aggressione.

In tutto ciò non è la punizione data, gli anni o meno da scontare per un grave errore commesso; ma le scuse, le leggerezze, le motivazioni a sostegno di certi comportamenti, portate come prove durante il processo. Un revival degli anni 50? O del medioevo?

Ci chiediamo se dopo la sentenza di ieri, le donne possano finalmente ritornare a portare la cintura di castità per poter meglio ovviare a queste spiacevoli equivocazioni. Intanto io inviterei i maggiori produttori di jeans a cucire cerniere più resistenti che tengano in questi momenti critici. Sperando non facciano tendenza!

Caos Capitale

 

Il grillo parlante oggi si è svegliato di malumore. Non ha dormito, di nuovo. Non tanto per i pensieri legati alle vicissitudini lavorative, che, grazie al cielo, sembrano filare lisce, quanto per i consueti schiamazzi notturni e la solita musica assordante di chi non sa davvero cosa significhi regolare un volume a livello umano nelle ore notturne (né tantomeno conosce il significato della parola rispetto). Se poi un motorino s’incastra in una perfida buca (perfida perché ti inganna, si vede solo quando è ormai tardi…), ripartendo a tutto gas, il quadretto è completo. Dicono che ci vuole pazienza e tolleranza, ma il grillo parlante ormai le ha perse entrambe da tempo. Lui lascia pure vivere ma chi lascia vivere lui?

Se, in passato, l’assessore all’urbanistica di Roma, aveva altro a cui pensare (lo stadio della Roma di Tor di Valle, preoccupato dal vincolo culturale di un luogo avvolto da spazzatura e degrado, le torri stile Dubai che non si fanno più, incurante del rischio esondazione dell’area o della mancanza di piano trasporti per arrivarci), oggi i numeri del Covid non preoccupano più, così come non allarma la saturazione degli ospedali, con le loro lunghe code al caldo afoso sotto tettoie improvvisate e il loro scarso personale che fa turni impossibili a ritmi insostenibili.

Il teatro Valle non riapre, i cinema storici di quartiere chiudono (salvo qualche eccezione legata a grandi nomi o padrini illustri) e annaspano fra i topi, il Teatro Eliseo ha chiuso, pur con un ottimo cartellone e un tutto esaurito. Inerzie su inerzie oltre che totale noncuranza e disinteresse. Il cinema Sacher di Nanni Moretti, a Trastevere, sembra una vecchia sala di periferia, l’accesso è decadente e i graffiti sui muri non si contano più; il vecchio cinema Alcazar doveva rinascere dalle ceneri, come una vecchia e stanca fenice, ma ancora nulla. Un tempo questa città era la Hollywood sul Tevere, oggi tutto questo è in lontano e sfuocato ricordo, nonostante qualche sforzo di pochi che cadono nel vuoto cosmico.

E poi le scuole aprono e chiudono quando credono, senza tenere contro delle esigenze dei genitori che lavorano. I riscaldamenti invernali sono un optional, ma per fortuna il clima è sempre mite…Ci pensa il microclima dell’autobus a fare il resto, dove poveri passeggeri aggrappati si passano, stretti come sardine, virus, nervosismi, tic e urti. D’altra parte, gli sbalzi fuori cabina sono la normalità, visti i necessari slalom fra macchine parcheggiate in doppia e terza fila. Se poi scendendo dal tram (perché quello su rotaie resta il più affidabile) non stai particolarmente attento a dove metti i piedi, ecco lì ad attenderti al varco, calma calma, silente, una bella cacca di cane, quella che nessuno raccoglie, tanto chi dice nulla, chi obietta, chi multa. Lo stesso warning che va dato ai bambini al parco, quei parchi immensi pieni di storia non curati e senza fiori, perché anche qui bisogna fare attenzione, la stessa da prestare se si attraversa per arrivare all’oasi di gioco, quando il semaforo rotto non garantisce il passaggio sicuro. D’altra parte, il semaforo a che serve, è ben coperto dai camioncini degli ambulanti che caricano e scaricano liberamente  le merci per le loro bancarelle tutt’altro che abusive. Paccottiglia docet.

Se poi si decide di fare una passeggiata un po’ più lunga, i cassonetti della spazzatura non regolarmente svuotati o, se lo sono stati, i sacchetti lasciati di fianco a cestini poco capienti per quelle borse tristemente abbandonate, occhieggiano qua e là. Non parliamo di cassonetti di raccolta settimanale con sistema porta a porta per zone periferiche della città dove un solo condominio basta per riempirli in una giornata. Labirinti autorizzativi.

E intanto pullman giganteschi pieni di turisti attraversano bellamente le strade del centro storico (non li avevano interdetti?), con i loro tubi di scappamento che non perdonano, con gli autisti innervositi dal traffico romano e dai parcheggi in doppia-tripla fila. Con la loro sfacciatezza di parcheggiare dove credono, incuranti di quanto sta intorno.

Dai vetri delle carrozze della metropolitana non vedi più nulla, i graffiti hanno avuto la meglio. Molti sono orribili. Sono scarabocchi, come quelli informi che da bambini, incapaci ancora di disegnare, facevamo, con un pennarello blu-nero, su pezzi di carta o fogli volanti.

In tutto questo, oggi, a riscaldare il clima, nel vero senso della parola, arrivano gli incendi. Prima la discarica di Malagrotta e un tratto dell’Aurelia in cenere, poi la Pineta Sacchetti, il parco del Pineto e Montespaccato. Palazzi evacuati e metropolitana bloccata, inneschi multipli. Anche il Gianicolo è stato sfiorato. Ma non solo. L’incuria regna sovrana. Il manto erbose delle periferie non può essere tagliato, mancano soldi, personale e soprattutto pianificazione e visione. Tanto vale dargli fuoco. E poi ci sono i noti cinghiali. Il tutto mentre il Covid galoppa nuovamente al superamento dei 38 gradi e la guerra non fa più notizia.

Non è un lamento tanto per fare o per dire, tanto per denunciare o raccontare tutto quello che va male, ma un appello accorato, un allarme per tanta bellezza che non viene compresa, la città e i suoi cittadini chiedono aiuto, ascolto, rispetto, cura e attenzione. Dedizione. Quella dovuta alla Città Eterna, a un patrimonio di tutti unico al mondo. Non c’è più tempo.

E mentre la valle dei templi di Agrigento dimostra che lo splendore del paesaggio e gli interventi giusti esistono, qui si aspetta. Sempre. Un sogno metropolitano che non si realizza. Magari qualcuno un giorno si accorgerà di tanta bellezza. Spero.