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Giorno: 18 Luglio 2022

CONTRO L’IMBROGLIO DEL PIANO FERIS DEL COMUNE DI FERRARA:
inaccettabile, assurdo, pericoloso, contro tutti i vincoli di legge

Ospito con particolare piacere la durissima nota della sezione ferrarese di Italia Nostra dedicata al piano Fe.ris., già da più parti contestato. Parliamo dei famigerati 3 progetti ‘ammazzaverde’ che il Comune ha commissionato a un pool di aziende private e di cui il Consiglio Comunale ha appena approvato con una risicata maggioranza la prima delibera di indirizzo. Come sempre, le contestazioni e le accuse di Italia Nostra sono precise e documentate, senza appello. Sono perciò curioso di leggere, se avrà la compiacenza e il senso civico per farlo, cosa riuscirà a controbattere il sindaco Alan Fabbri.
Devo dire che questo intervento ha un valore tutto particolare, almeno per me, e credo per tanti ferraresi con un po’ di memoria. Se oggi, almeno urbanisticamente, “Ferrara è bella”, se abbiamo l’Addizione verde, lo straordinario patrimonio delle Mura, della grande cerchia verde del Sottomura, del Parco Urbano Bassani, lo dobbiamo soprattutto al lavoro di Italia Nostra e all’impegno e alla perseveranza dei suoi uomini migliori, come l’avvocato Paolo Ravenna, storico presidente e animatore della sezione ferrarese della associazione, l’architetto Carlo Bassi, l’Ingegner Serafino Monini.
I ferraresi, e chiunque ami questa meravigliosa città, hanno quindi un debito storico con Italia Nostra. Leggere in questa nota che scende in campo aperto e promette battaglia contro un inaccettabile vulnus al patrimonio pubblico – di ogni singolo cittadino e di tutti i cittadini che diventano città – mi sembra un buon auspicio. Non sarà facile fermare il cemento, vincere sopra i grandi interessi degli speculatori, ma possiamo e dobbiamo provarci.
Francesco Monini

Contro il progetto Fe.ris.
Per la difesa del patrimonio ambientale ed urbanistico di Ferrara

Italia Nostra fu tra le poche voci contrarie al testo della nuova legge urbanistica della regione Emilia Romagna, varato nel dicembre del 2017, perché, dopo l’enunciato positivo del limite al consumo di suolo, rinunciava a stabilire a priori a favore dell’interesse collettivo le regole di trasformazione del territorio, demandando di fatto ogni decisione alla contrattazione tra pubblico e privato.

Il voto dei giorni scorsi del Consiglio Comunale di Ferrara, che dà il via all’iter di approvazione del progetto Fe.ris., rende evidente quali possono essere gli effetti nefasti di una legge che lascia alla discrezionalità delle singole amministrazioni comunali la valutazione dell’interesse pubblico nella contrattazione coi privati.

Nella bozza di accordo una società privata si impegna ad intervenire per la “rigenerazione” del comparto delle caserme di via Cisterna del Follo, irrisolto da decenni, recuperandolo ad usi privati (studentato, abitazioni e attività commerciali) con un consistente aumento della capacità edificatoria sull’area di sedime dell’antico convento di San Vito.

Chiede di realizzare la quota di parcheggi pubblici di pertinenza non in loco ma in area extra mura, divenuta nel frattempo di sua proprietà, lungo la via Volano, vincolata a verde nel vigente piano regolatore, nel rispetto delle indicazioni del Progetto Mura.

Condiziona i punti precedenti alla costruzione di un nuovo ipermercato con superficie di vendita di oltre 3.700 metri quadri in area privata  lungo la via Caldirolo, anch’essa destinata a verde nel vigente piano regolatore, quindi inedificabile.
Il Piano Regolatore vigente, come quelli precedenti almeno dal 1975, considerava patrimonio intangibile le aree verdi residue, alcune ancora ad uso agricolo, in prossimità del lato est della cerchia muraria.

In altre parole: io privato mi impegno ad acquistare e sistemare il comparto della ex caserma, per gli usi che fanno comodo a me, ma tu, comune, mi autorizzi a realizzare i parcheggi in area di mia proprietà fronte mura, dove non potrei in ogni caso costruire, ma soprattutto mi concedi di costruire una grande struttura commerciale in area prossima alle mura, anch’essa inedificabile, cedendoti la quota di verde pubblico che dovrei comunque cederti se costruissi in qualsiasi altra parte della città.
Delle “rilevanti ragioni di interesse pubblico” richieste dalla legge per accordi con privati in assenza di PUG ed in deroga al piano vigente, neanche l’ombra.

Inaccettabile, oltre che puerile, dal punto di vista paesaggistico, la proposta di mascherare l’ipermercato all’interno di una sorta di collinetta verde, proposta che si innesta nella corrente architettonica, ultimamente sempre più diffusa, del “So che qui non potrei farlo, lo faccio lo stesso, ma lo nascondo”. E’ tra l’altro evidente che un rilevato “verde” a poche decine di metri dalle mura entrerebbe in contrasto col rilevato storico delle mura stesse. 

Sull’ assurdità di un nuovo ipermercato, dichiaratamente voluto non per motivi di necessità per la città, che già sovrabbonda di tali strutture, ma di concorrenza territoriale tra marchi commerciali, già si sono levate numerose e qualificate voci contrarie e sembra quindi inutile dilungarsi.

Il recupero del comparto della caserma Pozzuolo del Friuli è argomento serio, di enorme importanza per la città, che non può prescindere da un investimento pubblico diretto e massiccio capace di coinvolgere la partecipazione di privati.
Esigenze delle strutture civiche di arte antica, dell’università e anche dei residenti in quella parte della città (perché la storia insegna che una città resta viva finché anche il suo centro storico rimane abitato da ogni strato sociale della popolazione) possono trovare risposte attraverso il recupero di quello straordinario comparto-risorsa.
E’ ad esempio impensabile che il bellissimo edificio della Cavallerizza non diventi in futuro struttura pubblica per convegni al servizio dei vicini musei e dell’ università.
La Caserma è uno dei casi emblematici in cui una previdente progettualità pubblica avrebbe potuto cogliere la straordinaria opportunità offerta dal PNRR.

Italia Nostra, che tanto in passato ha contribuito alla realizzazione del patrimonio urbanistico costituito dal parco delle mura e dal parco urbano, si batterà perché le aree salvate dall’edificazione in prossimità delle mura rimangano tali e perché nel parco Bassani, protetto dal Piano Paesaggistico Regionale come “zona di particolare interesse paesaggistico ambientale”, non si organizzino eventi potenzialmente devastanti per un ambiente tanto bello quanto delicato.

ITALIA NOSTRA – sezione di Ferrara
Ferrara, 18 luglio 2022

Cover il Parco delle Mura di Ferrara, Baluardo dell’Amore. 

LO STESSO GIORNO
Gino Bartali, tra il Tour de France e l’olocausto

18 luglio 1914
nasce Gino Bartali, il ciclista che salvò 800 ebrei dall’olocausto

Oggi, a cent’anni di differenza, il ciclista professionista viene ancora ricordato da tutti per le sue numerose imprese. L’intramontabile, chiamato così per la sua capacità di tornare in pista a metà anni ’40, durante gli anni della sua carriera vinse tre Giri d’Italia (1936, 1937, 1946) e due Tour de France (1938, 1948), oltre a numerose altre competizioni.  Gino viene anche ricordato per la staffetta partigiana, l’aiuto che diede agli ebrei durante la seconda guerra mondiale.
Il ciclista dalla fortissima fede religiosa, dopo la guerra non si staccò mai dalla propria tessera dell’Azione Cattolica, aiutò centinaia di ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Allo scoppio della guerra Gino era già un ciclista professionista, e questo gli permise di avere molta più libertà di spostamento dovendo continuare ad allenarsi. Dal 1943, in seguito all’occupazione tedesca dell’Italia, Bartali che era già un corriere della resistenza, giocò un ruolo fondamentale nel soccorso degli ebrei.

Gino Bartali nacque in provincia di Firenze, a Ponte a Ema, questo stesso giorno, il 18 luglio 1914. A nove anni fu mandato garzone nel negozio di biciclette dell’ex corridore Oscar Casamonti, e qui per la prima volta Bartali scoprì il suo amore per la bicicletta. Nel giro di due anni si costruì da solo la prima bicicletta. Nonostante la bici rudimentale e la poca forza nelle gambe ancora da bambino, Bartali sfrecciava tra le vie toscane sognando un giorno di poter competere con i più grandi.
Vinse la sua prima corsa il 19 luglio 1930, gareggiando con la bici da lui costruita alla corsa locale Rovezzano-Rosano. Purtroppo venne squalificato perchè aveva superato di un giorno il limite massimo di età. Ciò nonostante quella vittoria, quella primissima vittoria, segnò Bartali a vita, regalandoci il campione che oggi tutti conosciamo.
Da allora il Ginettaccio corse numerose competizioni come ciclista dilettante, fino a quando, nel 1934, vinse la sua quinta Coppa di Bologna, e decise di passare al professionismo. Solo due anni dopo, nel ’36, vinse il suo primo giro d’Italia, dimostrandosi per la prima volta uno dei migliori ciclisti presenti in Italia. Per quattro anni il dominio del toscano fu indiscusso, vinceva tutte le competizioni presenti. Tra una vittoria e l’altra non rinunciò mai a una vita fatta di mangiate e bevute, era conosciuto nell’ambiente come uno dei pochi atleti che non seguiva una dieta ferrea e fatta di privazioni.
Nel 1940 incontrò per la volta quello che sarebbe diventato il suo più grande rivale: Fausto Coppi. Si conobbero come amici e compagni di squadra, fu infatti Bartali ad insistere per avere Coppi come gregario, ma subito tra i due nacque una rivalità in sella alla bici. La loro rivalità ebbe però vita breve, perchè con l’entrata in guerra dell’Italia, i campionati e i giri vennero sospesi.

Durante la guerra Bartali indossò la divisa della GNR, la guardia nazionale repubblicana, una forza armata con compiti di polizia interna e militare. In realtà durante quegli anni Gino fu un perno fondamentale dell‘organizzazione clandestina DELASEMDurante i suoi allenamenti Bartali nascondeva foto e documenti nel cannone della sua bicicletta, portandoli ad Assisi dove venivano stampati documenti falsi che lo stesso Bartali portava agli ebrei nascosti. Nel 2006, quando gli fu conferita la medaglia d’oro al merito civile si stimò che con la sua staffetta salvò la vita a quasi 800 ebrei.
Per questo suo impegno durante la guerra, tenuto nascosto quasi a tutti per molti anni, ebbe numerose riconoscenze. Al ciclista non interessavano i titoli o le riconoscenze, lo si evince anche dalle parole che pronunciò durante una delle numerose cerimonie:
«Il bene si fa, ma non si dice. E certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca.».

Finita la guerra Bartali tornò a gareggiare nonostante in molti, giudicandolo troppo vecchio e fuori forma, si scagliarono contro la sua scelta. Nel ’46 vinse il Giro d’Italia, e a seguirlo di soli 47′ il suo ex compagno di squadra, Coppi.
Nasce in questa occasione una delle rivalità più storiche del ciclismo: Bartali vs. Coppi, il primo cattolico e simbolo della democrazia cristiana, il secondo iscritto al Partito Comunista. La rivalità tra due amici che era di più di semplice competizione sportiva, era un simbolo della polarizzazione della società, della spaccatura tra le due grandi correnti. É comprovato che lo stesso De Gasperi, fondatore della DC, chiamò l’amico e conoscente per incitarlo a vincere e a compiere un’impresa epica così da rasserenare gli animi.

Bartali morì per un attacco di cuore nel primo pomeriggio del 5 maggio 2000, all’età di 85 anni, nella sua casa di piazza cardinal Dalla Costa a Firenze. Fu sepolto però nel suo paese natale, Ponte a Ema, dove tutto il suo viaggio cominciò. Ginettaccio insegnò a tanti il rispetto e l’amore. Il suo insegnamento ancora oggi non è stato dimenticato, i suoi valori cristiani divennero giustizia sociale. Piccoli gesti, come il famoso passaggio della borraccia al rivale Coppi, sono il simbolo di un uomo che credeva nel rispetto e nella dignità e aveva fatto di questi i suoi valori guida.

“Io sono un povero stradino ignorante, con scarsa educazione, però rispetto tutte le opinioni e intendo essere rispettato”’. 

 

Il giardino delle artemisie giganti
…un racconto

Il giardino delle artemisie giganti
Un racconto di Carlo Tassi

Dei ricordi fanciulleschi che affollano la mia mente, mai come adesso tormentata da tanta nostalgia, uno più di tutti ha sempre stuzzicato la mia fantasia. Parlo di uno strano episodio mai del tutto risolto.
Mi trovavo in vacanza in un pittoresco paesello sulle rive di un lago, di cui per mia riservatezza non farò il nome, cintato da montagne poderose con pendici aguzze come lance a grattar nuvole perennemente di passaggio. Le giornate ombrose e insolitamente fresche costringevano spesso me e mio cugino a rinunciare a giocare nelle acque fredde del lago, in alternativa non rimaneva che avventurarsi nei dintorni campestri oltre il caseggiato.

Stavamo con le nostre famiglie in una grande villa presa in affitto per tutto il mese d’agosto. Il proprietario era un vecchio insegnante di musica a riposo, tal Brunamonti, un tipo solitario ma cordiale, che ci aveva preso in simpatia e ci raccontava puntualmente storie curiose e bizzarre che spacciava per vere e sacrosante. Una di queste riguardava un bellissimo giardino dell’entroterra a nemmeno mezzora di cammino da dove alloggiavamo. Bastava percorrere la via maestra del paese e, passata l’ultima casupola prima della campagna, prendere a sinistra un largo sentiero sterrato e circondato da rovi impenetrabili che saliva su una collinetta irta di cipressi. Una volta in cima, appariva una vecchia villa in stile liberty e un maestoso giardino con tanto di serre, camminamenti, aiuole, fontane e laghetti.
Ebbene, un pomeriggio plumbeo di fine agosto, ad appena due giorni dalla fine di quell’indimenticabile vacanza, decidemmo di raggiungere quel posto e vedere coi nostri occhi se ciò che ci aveva raccontato il nostro padrone di casa era vero oppure no.
A dire la verità il tragitto ci parve subito più impegnativo di quanto ci eravamo immaginati. Non eravamo ancora usciti dal paese che avevamo imboccato la strada sbagliata, e ci volle una buona mezzora solo per raggiungere il bivio ai piedi della collina. La salita poi si rivelò più ardua del previsto e, quando fummo giunti in cima, non c’era l’ombra di nessuna villa e tantomeno di un giardino.
Fu mio cugino che, avendo intravisto la porzione di un tetto che spuntava tra gli alberi in lontananza, mi chiamò dicendomi che forse quel tetto apparteneva proprio alla villa che stavamo cercando. E fu così.

Per raggiungere la villa descritta da Brunamonti dovemmo attraversare un fitto boschetto di cipressi e, una volta arrivati, ci rendemmo conto che il suo racconto aveva trascurato diversi particolari che fin da subito ci fecero venir voglia di tornarcene a casa.
La villa c’era, ma quel tetto, avvistato da mio cugino tra le cime appuntite dei cipressi, altro non era che la cuspide del campanile di una pieve gotica che affiancava un piccolo cimitero diroccato le cui lapidi erano quasi sommerse dalla vegetazione. La villa, effettivamente liberty, era poco distante sulla destra, ai margini di una fitta boscaglia di cipressi e grossi abeti la cui ombra oscurava qualsiasi cosa si celasse al suo interno.
Tutte le costruzioni apparivano disabitate da chissà quanto tempo e delle spesse tavole di legno inchiodate agli ingressi stavano a testimoniarlo.
Anche il giardino era lì, proprio come aveva detto Brunamonti, e la cosa più incredibile viene adesso!

Secondo Brunamonti il giardino era posto dietro la villa. Io e mio cugino ci guardammo in faccia titubanti, ma alla fine decidemmo di aggirare il fabbricato e di vedere cosa c’era dall’altra parte. Camminammo cauti e tesi più che mai, avevamo dieci anni io e dodici lui, e tutto quello scenario che si era rivelato intorno a noi si prestava benissimo a far correre le nostre fantasie in luoghi ben più oscuri e terribili di quanto avremmo voluto.
Ricordo ancora adesso – e la sensazione che riaffiora è tuttora viva e pulsante come di cosa appena successa – ciò che provai quando finalmente vidi quel giardino: meraviglia, estasi e terrore!

Il giardino era maestoso, lussureggiante, qualcosa che non avevamo mai visto. Innumerevoli varietà esotiche di piante fiorite creavano un arcobaleno di colori e stordivano coi loro profumi. Poi alberi enormi e sconosciuti e siepi dalle incredibili geometrie.
Ma la domanda che causava tanta meraviglia era: come poteva esistere un giardino come quello se il posto era isolato e abbandonato da tanti anni quanti noi non potevamo nemmeno immaginare? Poi una seconda domanda: dov’erano e com’erano fatte le artemisie giganti raccontate da Brunamonti?
In fondo era stata proprio quella seconda curiosità a spingerci ad affrontare quel viaggio: le artemisie giganti.

Il vecchio maestro ci aveva detto che in quel giardino esisteva una rara specie di artemisia carnivora che un giorno di tanti anni prima aveva divorato un ignaro fattore che si era addormentato all’ombra di una di esse. Successe che durante il sonno venne paralizzato dal suo profumo tossico, che i suoi rami gli si strinsero intorno, che le sue foglie lo avvolsero come in un sudario e che, rilasciando sul poveretto la sua linfa corrosiva, iniziò a digerirlo come nella più tremenda delle storie dell’orrore.
Brunamonti raccontò che quell’incidente indusse il vecchio proprietario della villa, un ricco barone, a liberarsi di quelle piante tanto pericolose distruggendole e sostituendole con altre artemisie, del tutto identiche alle prime ma innocue. In verità Brunamonti ci confidò che il sospetto della gente del tempo era che il barone non distrusse affatto le sue artemisie carnivore, ma più semplicemente lo lasciò credere. Il nobile non fece proprio niente e le artemisie carnivore rimasero al loro posto come prima, e ci restarono per tutti gli anni a venire.
Per questa ragione, il giardino divenne via via un luogo evitato da tutti quelli che ne conoscevano la storia. La morte dell’ultimo discendente del barone ne decretò poi il definitivo abbandono e la caduta in rovina.
Quel giardino in cui ci trovavamo però era tutt’altro che in rovina.

Restammo assorti parecchi minuti a ripensare alla storia che il maestro Brunamonti ci aveva raccontato, e intanto ammiravamo estasiati e perplessi l’insolito stato di grazia di quell’immenso giardino. Poi qualcosa ci distolse dai nostri pensieri.
Era uno strano rumore sommesso, come qualcosa di pesante che strisciava sul terreno. Ci guardammo attorno ma non vedemmo nessun movimento, tranne l’ondeggiare delle piante e dei rami mossi dal vento. Eppure quel rumore continuava, e pareva farsi più forte.
Ricordo come quel vago senso di inquietudine che ci aveva accolto appena arrivati sul posto divenne improvvisamente una paura profonda. Paura che si trasformò in terrore appena avemmo l’impressione che erano stati gli stessi alberi a muoversi nella nostra direzione. Alberi splendidi e maestosi che, con movimenti impercettibili, si avvicinavano a noi trasformandosi ai nostri occhi in giganteschi mostri terrificanti.

In una manciata di secondi eravamo già sul sentiero sterrato.
Correndo come due lepri scendemmo rapidamente verso il paese e poi nella casa delle vacanze, dove alla fine giungemmo entrambi col cuore in gola.
Era tardi e i nostri genitori stavano sistemando la tavola per la cena sotto il portico di fronte all’ampio cortile. Vedendoci arrivare, ci venne incontro mio padre tutto accigliato che ci rimproverò di aver messo in ansia tutti quanti per essere stati via oltre quattro ore senza avvisare nessuno.
Quattro ore? Tanto tempo era passato?
A quel punto arrivò un aiuto inaspettato proprio dal maestro Brunamonti.
L’anziano padrone di casa s’avvicinò a mio padre e gli disse, scusandosi, che sapeva della nostra visita nel giardino in cima alla collina e che si era dimenticato di informare e rassicurare le nostre famiglie che non avremmo corso alcun pericolo.
Tanto bastò per rasserenare tutti quanti ed evitarci una sicura punizione.

Più tardi, il vecchio maestro ci prese in disparte e ci confidò che aveva immaginato dove fossimo andati perché si ricordava le nostre facce dopo che avevamo ascoltato il suo racconto del giorno prima sul giardino di artemisie.
Ci chiese poi se avevamo trovato il giardino.
Entrambi gli eravamo grati che avesse mentito a mio padre salvandoci dal castigo – in effetti, sicuri che non saremmo stati via a lungo, non avevamo informato nessuno della nostra escursione, tantomeno lui – così gli raccontammo tutto quello che avevamo visto. L’unica cosa che evitammo di dire fu la causa del nostro repentino ritorno a casa.
Lui ascoltò tutto con estremo interesse poi ci chiese: “Avete detto che il giardino era ancora in perfetto stato?”
“Certo!” rispondemmo noi in coro.
Sulle labbra di Brunamonti spuntò un leggero sorriso: “Allora, ragazzi miei, quello che immaginavo è vero: le artemisie carnivore sono ancora lassù e – il sorriso si fece strano – a quanto pare sono diventate degli ottimi giardinieri…”

Firth Of Fifth (Genesis, 1973)

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Le storie di Costanza /
Luglio 1959 – La Violetta di Parma

 

In luglio la maturità di mia madre Anna terminò e lei si diplomò. Allora il diploma dell’Istituto magistrale era abilitante e permetteva alle neo-maestre di iniziare subito la carriera di insegnante.

In settembre, posti disponibili permettendo, avrebbe potuto cominciare ad insegnare alla scuola primaria di primo grado (che allora si chiamava semplicemente scuola elementare).

Intanto era luglio e a scuola non andava nessuno. Mia madre passò quell’afoso mese estivo nel negozio della nonna Adelina, vendendo spagnolette, bottoni e passamaneria.

Il negozio era fresco e aveva un profumo intenso dato dagli oggetti là stipati pronti per essere venduti e dall’umidità che trasudava dai muri. Il connubio era interessante, l’umidità tratteneva gli odori del negozio e in parte li trasformava, rendendo quel posto inconfondibile.

È proprio l’odore che rende i luoghi unici. Basti pensare all’odore di polvere, fiori e incenso che caratterizza le Chiese, all’odore di disinfettante, medicinali e minestra che caratterizza gli ospedali, all’odore di carta e gesso che caratterizza le scuole.

Esistono poi luoghi particolari che hanno odori unici e riconoscibili solo per ciascuno di noi. Mi viene in mente il ‘cantinetto’ della vecchia casa della nonna Adelina, che aveva un odore forte di umidità mischiata all’odore morbido dell’olio e a quello fortissimo delle botti di vino, o all’odore riconoscibile e festaiolo della mia cucina quando è appena stato fatto il ripieno di zucca per i tortelli natalizi (ingredienti: zucca, cotognata, amaretti, noce moscata, formaggio e scorza di limone). Quell’odore di zucca sa per me di ritorno a casa, di festa, di parenti, amici, ricordi, di sospensione del tempo ordinario per assaporare il momento dell’incontro.

Sa di punto d’arrivo in cui si fa la somma degli eventi successi e si cerca di tirare un rigo per vedere se il totale è positivo o negativo. Sa anche di attesa per il futuro, per una una ripartenza inevitabile, piena di insidie e sfide, perché così è il rientro nel tempo quotidiano, nel mondo di tutti dove si consuma buona parte della nostra vita su questa imprevedibile e tumultuosa terra.

Nel negozio della nonna, nella parte posteriore del banco di vendita, c’era un reparto con le boccette di profumo. Il banco aveva due grandi cassettoni laterali e uno piccolo centrale. In quello centrale c’era la cassa, in quello più vicino alla stanza chiamata stufa c’erano i profumi e in quello dalla parte verso l’ingresso del negozio c’erano elastici, bottoni e cerniere variopinte.

Le boccette di profumo erano tutte di vetro col tappo di metallo. Le più belle avevano la scatola di cartone mentre le altre erano nude. Il vetro era pesante e a volte colorato.

Tra i profumi più venduti c’era la Violetta di Parma che aveva la bottiglietta trasparente, il tappo viola e un’etichetta con disegnate le violette. Una fragranza apprezzata ancora oggi, soprattutto dalle nonne. Un profumo che a me ricorda la primavera e Adelina.

Fu Maria Luigia D’Asburgo, seconda moglie di Napoleone Bonaparte, amante delle violette che a Parma fioriscono in molti giardini, a battezzare la nascita di questa fragranza.

Proprio lei sostenne le ricerche dei frati del Convento dell’Annunciata che lavoravano sui distillati vegetali. I frati, dopo un lungo e paziente lavoro, riuscirono ad ottenere dalle violette e dalle loro foglie un’essenza molto simile a quella dei fiori appena sbocciati.

Nel 1870 Ludovico Borsari [Qui] acquistò dai canonici la formula segreta per la preparazione di quel profumo. Borsari ebbe per primo la coraggiosa idea di farne una produzione da offrire ad un pubblico vasto. Fu un grande successo.

Il secondo, e più prezioso, profumo venduto dalla nonna Adelina e da mia madre era la Lavanda Coldinava.  Aveva la bottiglietta di vetro trasparente, leggermente bombata e il tappo viola. Sull’etichetta, anch’essa viola, era disegnata una contadina con un cesto di lavanda appena raccolta sulla schiena.

La sua formula è rimasta immutata nei decenni. Nel 1932, la ditta Niggi [Qui] diede vita ad una larga produzione di colonia alla lavanda, raccogliendo una tradizione artigianale diffusa fin dal primo dopoguerra nell’entroterra ligure, al di là del colle di Nava. Da qui il nome.

Questo secondo profumo era più costoso e, poche delle clienti del negozio della nonna, potevano permetterselo. La vendita aumentava in occasione di qualche evento particolarmente significativo per la comunità: un matrimonio, l’arrivo del Vescovo, la festa della Madonna d’ottobre e qualche viaggio particolarmente lungo per andare al funerale di un parente defunto, le cui spoglie erano deposte in un cimitero lontano.

Il viola usato per dipingere l’etichetta della Violetta di Parma e quello usato per la Lavanda Coldinava erano uguali, la stessa tonalità di colore e lo stesso potere evocativo legato al ricordo dei fiori che, in campagna, tutti avevano visto sbocciare.

Quel bel viola chiaro, caratterizzava le etichette delle boccette di profumo e abbelliva di colore il cassetto della nonna Adelina. Ogni volta che si apriva il cassetto, il profumo si diffondeva per tutto il negozio.

Le essenze si mescolavano all’aroma degli altri prodotti allineati sugli scaffali del negozio e diventavano un tutt’uno che comprendeva l’odore dei fili di cotone, del sapone, dello shampoo sintetico in busta, del dentifricio al fluoro in tubetto, della cipria e del talco, della crema per le mani alla glicerina e della pasta Biancardi.

pasta biancardi pomataLa Biancardi era una poltiglia bianca che si metteva sulla pella per non abbronzarsi. Nel 1959 era molto ricercata perché nessuna donna voleva avere la pelle scurita dal sole. La pelle scura era un segno di appartenenza ad un ceto sociale ‘basso’, rivelava chi d’estate passava il suo tempo lavorando nei campi.

Nel negozio della nonna si vendeva anche la Leocrema che ha mantenuto la stessa composizione e la stessa confezione fino ad oggi.

C’era poi il reparto cartoleria con i quaderni che servivano ai bambini per andare a scuola. Le copertine dei quaderni erano mono-colore e non esistevano figure disegnate che potessero indirizzare la vendita verso un prodotto piuttosto che un altro.

Nel negozio erano inoltre esposti altri articoli non molto richiesti. Stavano lì più per riempiere tutti gli scaffali che per rispondere alle esigenze delle persone di Cremantello che frequentavano il negozio.

Una merceria con alcuni scaffali vuoti non era bella da vedere, per questo la nonna Adelina aveva sapientemente posizionato vasetti, imbuti e piccoli attrezzi da giardinaggio che non comprava quasi nessuno, ma che completavano l’estetica di quel negozio rendendolo vivo e bellissimo.

Per incartare i prodotti acquistati dai clienti, mia nonna e mia madre usavano fogli di vecchia carta.

Poco distante da casa loro abitava un signore che faceva il venditore di giornali. Andava sempre in giro con una bicicletta arrugginita sui cui erano sistemate due sacche di cuoio piene di quotidiani e riviste da vendere. Se qualcuno voleva acquistare un giornale, doveva uscire per strada e urlare ad alta voce: “Pinara fermati! fermati! fermatiiiii!!! Voglio comprare un giornale”.

A quel punto Pinara tornava indietro e ti dava il giornale che volevi o, in alternativa, quello che era disponibile quel giorno. Tantè, qualche notizia la si capiva comunque. A volta te lo consegnava in mano, mentre altre, se aveva fretta, te lo lanciava con una certa precisione.

Pinara e sua moglie Carolina vivevano ina una casa fatiscente, una specie di catapecchia piena di mobili e suppellettili preistoriche ed erano degli antesignani giornalai.

Marito e moglie facevano inoltre parte di quella curiosa e non troppo diffusa categoria di persone che dicono “pioverà”, quando vedono dei nuvoli neri in cielo e “si vedranno le stelle cadenti”, quando è agosto e fa molto caldo. Dei profeti nostrani che sapevano propinare oracoli efficaci e facevano promesse molto veritiere, anche se inutili.

Vivevano al limite del decoroso, erano poverissimi, senza contratto di lavoro, ferie, pensione e sanità gratuita. Senza niente da ereditare e senza figli a cui lasciare tutta la loro carta. Questi erano i giornalai del 1959, queste le loro condizioni di vita considerate allora normali.

Pinara e Carolina regalavano alla nonna Adelina vecchi giornali in cambio di un quaderno all’anno che usavano per la gestione domestica. Con quei fogli tutti pieni di scritte, in negozio, si incartavano i prodotti da consegnare ai novelli proprietari. A volte erano quotidiani e a volte riviste.

Mia madre e mia nonna tagliavano i giornali in quadrati, che impilavano nel cassone centrale stando attente a mettere i più vecchi sopra la pila. Mia nonna era inflessibile, bisognava usare sempre i più vecchi, perché la carta si deteriora facilmente e l’incartamento con fogli molto rovinati non fa un bel vedere.

Mia madre Anna, a cui è sempre piaciuto leggere, appena poteva, estraeva dei fogli impilati per l’imballaggio e leggeva le notizie documentate sui pezzi di carta. Così, tra un cliente l’altro, in quel luglio caldissimo del 1959, mia madre costruì una sua visione del mondo grazie ai ritagli che metteva insieme e a cui attribuiva un significato, aiutata da un personalissimo senso di causalità.

Sperava sempre di riuscire a finire l’articolo che stava leggendo prima che entrasse il cliente successivo. La rigorosità procedurale della nonna Adelina era infatti inalienabile e non si poteva cambiare il modo con cui venivano utilizzati i ritagli di giornale. Se entrava un cliente bisognava usare il foglio più sopra. Se conteneva un articolo potenzialmente interessante o letto solo a metà, non faceva nessuna differenza.

Un giorno Pinara chiese a mia nonna se poteva regalargli una boccetta di Violetta di Parma da donare a sua moglie per il suo settantaduesimo compleanno. Per mia nonna non era un regalo da poco ma, mossa a compassione dalla povertà di quella gente, regalò a Pinara una boccettina di profumo.

Pinara andò a casa tutto contento, ma purtroppo non poté regalare a sua moglie la Violetta di Parma. Carolina era morta mentre lui era in giro in bicicletta.

N.d.A.

I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore.