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Giorno: 24 Luglio 2022

La Russia di Dibba e le scimmiette bianche


Antonio Indelli, giovanissimo e talentuoso storico, inizia oggi la sua collaborazione a
periscopio. Devo dire che, quando ci incontriamo, de visu o da remoto, 8 volte su 10 non ci troviamo d’accordo. Anche per questo tengo particolarmente ad avere la sua voce nel coro polifonico di questo quotidiano. Siamo d’accordo, ad esempio, sulla condanna a Putin e al suo regime, mentre litighiamo sulla Nato e le sue scelte espansionistiche (che lui difende e io trovo sbagliate e pericolose), sull’invio di armi all’Ucraina (lui favorevole, io contrario) e in generale sul giudizio sulla genesi e gli sviluppi della guerra in Donbass.  Nel caso presente, nel mirino di Indelli c’è il tour ‘giornalistico’ (si fa per dire) in Russia di Alessandro Di Battista, il quale Dibba (così il suo popolo ama chiamarlo) esce letteralmente sbriciolato dalla documentata analisi e dall’ironia di Indelli. Ho controllato, su Facebook Dibba ha superato 1,5 milioni di followers; spesso sposa cause nobilissime, ma la sua ignoranza unita a un tot di mala fede (complice Travaglio e il suo il Fatto quotidiano) gli fanno dire una montagna di castronerie. Giusto quindi ‘castigarlo’. Anche se ad Antonio, tanto per litigare, contesterò che “sparare su Dibba é come sparare sulla Croce Rossa”. Buona lettura.
Effe Emme

I noti dispacci dalla Russia di Alessandro Di Battista c’entrano con le trappole per turisti cinesi?
Per capire ciò che intendo è necessario introdurre il concetto di “white monkey” (scimmietta bianca). Si tratta di una pratica di marketing diffusa in Cina da decenni, che prevede l’ingaggio di un ‘bianco’ a fini pubblicitari.
Una sua declinazione comune consiste nell’invitare un influencer occidentale (la ‘white monkey’, preferibilmente un blogger di viaggi) per un tour indimenticabile in una particolare località, secondo una tabella di marcia serratissima che prevede attività ricreative (balletti, sport bizzarri, visite a lunapark…), gastronomiche e culturali (tra cui la partecipazione a conversazioni e cene con i locali, meglio se con minoranze dai costumi pittoreschi, tutti ovviamente istruiti a dovere). L’influencer di turno paga poco o nulla (anzi, spesso è pagato a sua volta): tutto ciò che deve fare è rispettare la tabella di marcia, fare quello che gli è detto e sprizzare da tutti i social felicità e stupore di fronte alle meraviglie locali.

Il gioco è il seguente: da una parte, attirare il ricco turismo occidentale e promuovere all’estero la propria immagine, dall’altra attirare il turismo interno, che considera di particolare prestigio ciò che è gradito ai ‘bianchi’” (i ‘neri’ invece sono spesso sgraditi in Cina).

La formula ha avuto un successo tale da attirare l’attenzione del governo cinese, che prontamente ha deciso di farla sua. In particolare nello Xinjiang, pittoresca patria degli Uyghuri. Ivi si è recato sotto la ferrea sorveglianza degli agenti in borghese un profluvio di influencer occidentali che, visitando sempre gli stessi luoghi turistici secondo le medesime tappe e con annessa la stessa cena presso la medesima ridente famigliola locale, dimostravano al loro seguito adorante come i ristoranti fossero sempre aperti, le persone felici e il governo cinese non vi stesse assolutamente attuando un genocidio.
Ovviamente, le prove schiaccianti che testimoniavano e testimoniano ben altro (raccolte in buona parte da eroici attivisti cinesi con ovvi e notevoli rischi personali) erano tacciate di essere “falsità sinofobe dell’Occidente ignorante e cattivo”.

Per quanto tale iniziativa a dir poco grottesca non sembri aver sortito gli effetti sperati sui governi occidentali, ciò non ha impedito a Bashar al-Assad di importarla in Siria, come documentato da un recente report di Al-Jazeera che vi invito a vedere.

Veniamo dunque al nostro Dibba. Il quale, come è noto, da ormai un mese gira la Russia cercando di mostrarci ‘l’altra parte’ (#laltraparte).
Concretamente, posta su instagram, su tiktok, twitter e  facebook, su youtube ci comunica le sue impressioni (il suo ‘diario’) e risponde ai commenti (con occasionale uscita sulla politica italiana), mentre invia i suoi reportage al Fatto Quotidiano e raccoglie materiale per i documentari che saranno pubblicato su TVLoft, di proprietà del Fatto medesimo.

il risultato è quello che ci aspetteremmo da Di Battista, improvvisatissimo reporter allo sbaraglio: banalità per turisti e luoghi comuni sulla politica russa, che dimostrano gravissime lacune nell’ambito (si veda il commento a un suo video da parte di Marta Ottaviani, che invece la Russia la conosce sul serio).
Si badi, ciò non significa che non sappia nulla di Russia, ma che l’immagine che l’appassionato Di Battista ne ha è mitica, fortemente parziale e superficiale. Dibba non sarà putiniano, ma è sicuramente estremamente filorusso. È per l’allontanamento e la condanna dall’America (e perché no, l’Europa) e la comprensione e la vicinanza alla Russia. Sostiene che Putin strangoli l’opposizione, ma che sia ciò che la stragrande maggioranza dei russi vuole (sulla base del fatto che “pochissimi gli dicono il contrario”; non spiega poi come mai allora strangoli l’opposizione), poiché ha risollevato, riequilibrato e reso forte il paese dopo il caos dell’era Eltsin (vecchio cavallo di battaglia del regime, non serviva andare in Russia per sentire queste cose; ovviamente Dibba non mette minimamente in discussione tale narrazione, né a dire il vero la grandissima parte della narrazione del regime russo, presunto colpo di Stato in Ucraina compreso).

Tralasciamo la validità dei giudizi sulle “sanzioni che non funzionano” (smentito dagli stessi organi ufficiali del Cremlino) e sullo “sfondamento in Donbass” (arenatosi di lì a breve). Non stupisce che ripeta senza riportare un solo dato “quel che sente in giro”, senza dire cosa dicano gli organi di propaganda russi o  come e perché tali opinioni si siano formate, o dare adeguato conto del contesto al di là di basilari notazioni storiche (perlopiù manualistiche).
Gli intervistati, di nessuno dei quali è riportato il cognome, non sono verificabili, e non paiono pressoché mai contraddire il quadro già pensato e più volte espresso da Dibba, che trascrive di solito poche frasi isolate per intervista. Gli elementi da cui trae le conclusioni non possono che essere impressionistici. Così le sanzioni non funzionano perché le burrate autarchiche vanno a gonfie vele mentre la Russia commercia coi fantomatici BRICS , e dove invece funzionano alimentano il patriottismo (non riporta ovviamente la fonte, né come fosse la situazione prima della guerra, né cosa ne pensino gli oppositori a Putin più in vista e seguiti). Degli ucraini si insiste sulla percezione che li vede come nazisti che bombardano e hanno compiuto atrocità che sono alla base della guerra perché i profughi che gli han lasciato intervistare glielo han detto.

Non fa mai una domanda scomoda. Nulla sulla corruzione dilagante o sul processo a Navalny. Nulla sulla chiusura dei giornali. Nulla sui campi di filtrazione, eredità della guerra Cecena, attraverso i quali passano gli Ucraini che vengono deportati in massa in Siberia. Nulla sui bombardamenti dei civili e la distruzione delle città. Nulla sulle perdite e sui coscritti, mandati a morire in condizioni disumane malgrado il governo russo affermasse di non averne mandati affatto. Nulla sulla Wagner, palese eppure illegale, o sui crimini di guerra. Chiede (e a quanto pare, talvolta ripete) ai suoi interlocutori solo le cose che già sosteneva e si sostengono diffusamente in Italia, e che dunque non si capisce perché sia dovuto andare in Russia per riscoprirle, tanto più dato che già l’agenzia TASS (di fatto fonte quantomeno secondaria del Nostro) dice più o meno le stesse cose.

Le fonti riportate esplicitamente con coerente cherry picking, del resto, sono perlopiù giornali della stampa generalista (con ovvio plauso al Fatto Quotidiano e a Travaglio, il ché dovrebbe farci riflettere), Barbero, e almeno in un caso il Papa, di chiara risonanza presso il pubblico italiano.

Più interessanti sono le informazioni accidentali. Un esempio è quando si reca in gita in un campo profughi presso Belgorod, ove è seguito da vicino dal responsabile del campo “che sembra un militare più che un operatore sociale”, il quale tenta insistentemente di fargli il lavaggio del cervello sulla giustizia della ben nota ”Operazione Speciale” contro il nazismo ucraino. Si tratta di un raro caso di dissenso da parte del Nostro, che tuttavia è incapace di riconoscere le palesi falsità espresse dal suo interlocutore sulla mancata presenza di militari a Belgorod (centro logistico importantissimo per le offensive su Kharkiv e nel Donbass) o di commentare l’identificazione dei nazisti con gli europei.

La scimmietta bianca Dibba ci racconta dalla Russia cose che sono già diffuse in lungo e in largo nei media italiani, impegnato a dare conferma alle proprie opinioni, piuttosto che a riportare qualcosa di nuovo. Sorgono allora diverse domande. Chi organizza il viaggio di Alessandro Di Battista? Chi gli fa da guida e da interprete? Chi è di preciso la gente che incontra e lo ospita? Chi è che viaggia con lui e che talvolta compare nelle foto? Chi gestisce e inoltra i contatti?

Nonostante tutto ciò che condivide sui social, del viaggio di Dibba sappiamo in realtà assai meno di quanto vorremmo.
Nulla di grave per un privato cittadino, ma Di Battista è un personaggio pubblico che esercita influenza nella politica italiana, tanto più in questo momento e ancor più con l’enorme visibilità che questi “dispacci” gli danno.

In conclusione, è Alessandro Di Battista la white monkey più amata d’Italia?
Ciascuno lo giudichi in cuor suo. Se anche lo fosse, credo che sarebbe una white monkey straordinariamente sincera e “innocente”. Dibba riporta palate di propaganda russa perché ci crede, non perché ne tragga un diretto vantaggio (indirettamente sì, vista la recente visibilità), e voglio credere che si sforzi di essere distaccato, ma le sue simpatie e convinzioni glielo rendano manifestamente impossibile.
Non desidero infierire oltre su un uomo che probabilmente non si rende conto di quello che fa davvero, in fin dei conti è una vittima della disinformazione anche lui, e va detto che comunque risulta simpatico per il suo temperamento sornione, ironico e travolgente (cosa che però lo rende potenzialmente assai pericoloso).
Di certo Di Battista non riceve supporto e sovraesposizione dai russi, ma dal Fatto Quotidiano, il cui direttore ha deciso promuovere i post di Dibbaloqui in ogni modo possibile dando ad essi la dignità di “notizia”, nel tentativo forse di eterodirigere qualcosa della fumosa e rissosa ex entità politica che sostiene e difende a spada tratta (e di far due soldi dopo i minimi storici toccati dal suo giornale). Così Marco Travaglio procede con testardaggine su una via discendente segnata da traduzioni dall’inglese volutamente sbagliate, telefonate inventate, distorsioni e opposizioni per partito preso e promozione di propagandisti impresentabili. È solo naturale che in molti già l’abbiano abbandonato, esattamente come accaduto al suo coccolato protegé, il professor avvocato Giuseppe Conte.

STORIE IN PELLICOLA /
Salinger-Jerry: Rebel in the rye

 

Jerry il ribelle, ovvero la passione smisurata per la scrittura, perché una cosa è scrivere, altra è pubblicare.
Il credo di Jerome David Salinger, schivo e riservato, celebre per aver scritto Il giovane Holden (The Catcher in the Rye) nel 1951, divenuto un classico della letteratura americana, romanzo di formazione per molte generazioni (ricordo il libro edito da Einaudi, un po’ stropicciato, su cui mamma aveva annotato la data del 1954, passato per le mie mani di liceale e oggi per quelle di mio nipote…).
Il grande schermo ne ha raccontato la storia varie volte, noi vogliamo presentarvi la pellicola del 2017 di Danny Strong, Rebel in the Rye, adattamento della biografia J.D. Salinger: A Life, scritta da Kenneth Slawenski (2011).

Il film, il cui titolo è un chiaro riferimento a quello inglese del suo celebre romanzo, The Catcher in the Rye (Il giovane Holden), è ambientato nella metà del XX secolo in una colorata New York, e segue il giovane Salinger (Nicholas Hoult) mentre lotta per trovare la sua voce, si innamora della famosa, bellissima e mondana Oona O’Neill (Zoey Deutch) – che sposerà Charlie Chaplin – e, poco più che ventenne, combatte in prima linea durante la Seconda guerra mondiale. Quel conflitto che lo cambierà e segnerà profondamente anche per aver partecipato allo sbarco in Normandia ed essere stato uno dei primi soldati americani a entrare in un lager nazista.

Tutto il film racconta della difficoltà di Jerry, come lo chiamavano amici e familiari, di adattarsi alle luci della ribalta cui Il giovane Holden lo aveva improvvisamente portato, un libro bellissimo che racconta i pensieri e le azioni di molti giovani disadattati, adolescenti silenziosi che faticano a esprimere ciò che pensano, ribellioni silenti che redimono, il disgusto per la società borghese e convenzionale che fanno diventare Salinger uno degli ispiratori della Beat Generation ma che, allo stesso tempo, lo portano a una vita di isolamento e di reclusione fin dal 1980. Disagio di un’intera generazione.

Il biopic di Strong – che ha per co-protagonisti Kevin Spacey (nel ruolo del mentore Whit Burnett, insegnante di scrittura creativa, incontrato alla Columbia University) e Sarah Paulson (Dorothy Olding, la fedele agente che ha sostenuto il giovane Salinger per tutta la sua carriera) – ricorda anche come Salinger in cinquant’anni avesse rilasciato pochissime interviste: nel 1953, a una studentessa per la pagina scolastica The Daily Eagle di Cornish, e nel 1974, a The New York Times la sua ultima intervista.

Non effettuò apparizioni pubbliche, né pubblicò nulla di nuovo dal 1965 (anno in cui apparve sul New Yorker un ultimo racconto) fino alla morte, avvenuta nel 2010 (all’età di 91 anni), benché avesse continuato a scrivere.
Perché per lui, una cosa era scrivere, passione pura, altra pubblicare.

 

 

 

 

Rebel in the Rye, di Danny Strong, con Nicholas Hoult, Kevin Spacey, Sarah Paulson, Zoey Deutch, Hope Davis, Victor Garber. USA, 2017, 106 minuti.

Trailer del film

Per certi versi /
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