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4 Novembre 2016

Decadenza di una nazione

Tempo di lettura: 5 minuti


L’Italia, un paese che spreca le proprie risorse intellettuali e professionali costringendole a trasferirsi all’estero, mentre accoglie indiscriminatamente manovalanza priva di specializzazioni e senza un progetto occupazionale. E’ il sintomo di una crisi irreversibile?

Non è possibile ridurre la complessità del fenomeno migratorio ad una ideologica apertura o ad un altrettanto ideologica chiusura senza considerare la sua straordinaria complessità. Per iniziare a capirci qualcosa è indispensabile “smontare” questa complessità ed analizzarne le variabili costitutive senza mai perdere di vita l’insieme. Diamo dunque un’occhiata rapida a qualche numero, selezionando tra le fonti più attendibili: secondo l’ISTAT la popolazione complessiva residente in Italia al primo gennaio 2016 è pari a 60.665.551 (51,44% femmine) di cui 5.026.153 stranieri (8,29%). Indicativamente è straniero 1 soggetto su 12. Sono circa 200 le nazionalità presenti nel nostro Paese; per oltre il 50% (oltre 2,6 milioni di individui) si tratta di cittadini di un Paese europeo in particolare rumeni (22,9%) ed albanesi (9,3%).
Per completezza va tuttavia segnalato che negli ultimi cinque anni è più che triplicato il numero di cittadini non comunitari diventati italiani (che hanno cioè acquisito la cittadinanza e il passaporto italiano) e sono dunque usciti dal computo del numero totale degli stranieri residenti: sono passati da meno di 50.000 nel 2011 a quasi 130.000 del 2014 per superare i 160.000 nel 2015. Negli ultimi 5 anni si può stimare con una certa prudenza in almeno 600.000 il numero di questi nuovi italiani.

Oltre a questi dati ragionevolmente assodati la situazione appare ampiamente fuori controllo: se si limita l’attenzione al fenomeno più eclatante, quello degli sbarchi (che non sono tuttavia l’unica modalità di accesso in Italia), i dati pubblicati dal Ministero dell’Interno e reperibili in rete, indicano un numero pari 69.692 nel 2011, 13.267 nel 2012, 42.925 nel 2013, 170.100 nel 2014, 153.842 nel 2015; sempre secondo il Viminale gli sbarchi a fine settembre 2016 hanno già superato quota 153.000; si tratta complessivamente di oltre 600.000 esseri umani che sono approdati sulle coste italiane. Quanti di questi fuggano da guerre e carestia, seguano rotte che li portino verso nord o siano attratti da improbabili opportunità di lavoro in Italia è tema di accanite polemiche. Quanti tra i migranti sbarcati abbiano diritto di asilo e vengano definiti ufficialmente come rifugiati, dopo un periodo che può arrivare a due anni di attesa, è altrettanto dubbio. Secondo la onlus CIR – consiglio italiano per i rifugiati – nel 2015 solo il 5% delle domande è stata accolta positivamente, mentre il 58% si è risolta con un diniego e le rimanenti hanno portato ad un esito di protezione umanitaria e sussidiaria.

Questi dati vanno inquadrati e letti nel più vasto contesto mondiale che vede una crescita demografica inesorabile: 1,64 miliardi nel 1900, 1,88 nel 1925, 2,51 miliardi nel 1950, 3,86 nel 1975, 5,99 miliardi nel 2000, 7,44 oggi ed una stima di almeno 8,5 miliardi di persone nel 2030. Questi dati in se inquietanti sono resi drammaticamente più acuti dalle clamorose differenze nel tasso di natalità delle popolazioni, degli stati, delle etnie e dei gruppi religiosi; queste dinamiche da sole, sono in grado di portare alla rottura in tempi molto rapidi di equilibri sociali che potrebbero apparire a prima vista sicuri. Diventano esplosive quando si intersecano con altre variabili di tipo ambientale, sociale, economico e finanziario. C’è chi vede in tutto questo il fallimento totale sia del modello capitalistico finanziario che delle politiche umanitarie e di natalità, della cooperazione internazionale e dei cosiddetti aiuti ai paesi in via di sviluppo.

L’italia però non è solo un paese di accoglienza e di transito dei migranti provenienti dai paesi ad alta tensione demografica, più poveri o meno sicuri. Accanto a questo flusso crescente vi è un massiccio flusso che si rivolge in direzione contraria: quello degli italiani che emigrano verso paesi che sembrano offrire più opportunità. Dal confronto tra questi due flussi emerge un quadro davvero inquietante.

Nel periodo 2006 – 2015 gli italiani residenti all’estero sono passati da 3,1 milioni a 4,7 milioni con un incremento di quasi il 50%.
Dall’Italia emigrano spesso persone, soprattutto giovani (20-45 anni), che non riescono a trovare nel Belpaese né soddisfazione né lavoro. Secondo i dati dell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire), nel 2013 sono uscite 94.126 persone, mentre nel 2014 sono stati 101.297 i connazionali emigrati. Nel 2015 secondo il rapporto Migrantes il numero di italiani espatriati ha superato le 107.000 unità, un dato che quasi raddoppia se si osservano i dati direttamente dai paesi di destinazione: solo nel 2014 ad esempio sono emigrati in Germania 70.000 persone. Oltre il 60% degli italiani migranti è costituito da laureati e diplomati, medici, ricercatori, ingegneri, tecnici. Miliardi di euro spesi per la formazione di persone che portano all’estero le loro capacità e competenze per arricchire altri paesi come Regno Unito, Svizzera e Stati Uniti. Aumenta anche il numero di immigrati di seconda generazione che lasciano l’Italia non più in grado di offrire lavoro.

Il confronto con il flusso in entrata è impietoso: quest’ultimo è composto per la stragrande maggioranza da persone di cultura e lingua diversa, con bassa specializzazione e scarsa competenza, che possono coprire solo posizioni non di interesse per gli italiani, su piccola scala e in settori non strategici come il piccolo commercio, l’edilizia e i servizi più elementari.

L’Italia non è dunque solo un paese con gravissimi problemi di immigrazione ma anche un paese dove l’emigrazione è diventata un grave problema; un paese dal quale escono o propriamente fuggono cervelli e competenze che il sistema Italia è ancora in grado di costruire ma non è in grado di valorizzare; un paese nel quale entrano mediamente, persone di dubbia identità, di scarse competenze, di ignote capacità, in cerca di qualsiasi tipo di lavoro o dei benefici di quel che è rimasto dello stato sociale.

Per alcuni osservatori è questa la fotografia di una nazione e di uno stato ormai allo sfascio, incapace di regolare i flussi in entrata, incapace di dare speranza ai propri cittadini, incapace di trattenere i propri talenti, incapace di formare ed indirizzare i migranti verso occupazioni di cui ci sarebbe grande bisogno (ad esempio la produzione alimentare di qualità legata al territorio) e perfino di impiegare i migranti in lavori socialmente utili; un posto dove troppe persone non riescono più a vivere con l’orgoglio di sentirsi italiani o con la speranza di diventare nuovi italiani. E’ la testimonianza di un duplice e drammatico fallimento dell’intera classe dirigente italiana.
Ma non solo: ai loro occhi esiste il dubbio drammatico che si stia attuando una strategia assolutamente suicida e fallimentare che nello scacchiere internazionale porta a collocare l’Italia tra i paesi a bassa specializzazione, dal quale i talenti fuggono per andare a rafforzare con le loro competenze paesi, come la Germania, che hanno deciso di fronteggiare il loro calo demografico attirando talenti e manodopera specializzata ed investendo sulla loro qualificazione.

Per altri osservatori questa fotografia rappresenta il chiaro trionfo dell’ideale neoliberista dove ognuno, fatto imprenditore di se stesso, gira per il mondo alla ricerca della propria opportunità all’interno di un mercato sostanzialmente infinito e privo di barriere. Ecco gli eroi nomadi della classe creativa globale descritti dal sociologo Richard Florida, ed ecco i miserabili dell’esercito industriale di riserva attratti dalla chimera del lavoro e del consumo. C’è chi lo fa a suo rischio e pericolo sui barconi che attraversano il Mediterraneo e chi lo fa, assai già comodamente in business class.

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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