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di don Roberto Rondanina*

Può essere banale osservare che nel mondo ci sono sofferenze, ingiustizie, violenze e morte. La cosa non stupisce perché sempre è stato così. Potrebbe essere diversamente? Anche al di là del problema della morte e della sofferenza legata a malattie o cataclismi, potrebbe già esserci una coscienza di umanità e di felicità maggiore di quello attuale? (anche se ovviamente non si danno misurazioni della felicità).
Una umanità afflitta dai bisogni vitali concernenti la quotidiana lotta per la sopravvivenza, difficilmente, riesce a porsi il problema di come essere felici e di come dare senso alla propria esistenza. L’urgenza della quotidiana lotta per la vita tende a orientare, infatti, il desiderio verso la soddisfazione di quei bisogni (per esempio mangiare) da cui dipende la vita e i cui oggetti si impongono con forza a chi si trova in una condizione di bisogno. Chi ha fame cerca cibo, chi ha freddo cerca di riscaldarsi… Una volta soddisfatti i bisogni primari si affaccia alla coscienza umana, con maggiore urgenza, il problema del senso del proprio esistere presente in chi deve lottare quotidianamente per sopravvivere, in maniera, per lo più invece, meno consapevole ed evidente.

La civiltà europea è stata la prima civiltà che, a partire dall’ epoca moderna, grazie soprattutto alla rivoluzione industriale, ha permesso a sempre più larghi strati di popolazione di superare un livello e una qualità di vita legati alla semplice sopravvivenza. Di conseguenza, si è trovata per prima, probabilmente senza esserne sufficientemente preparata, a dovere dare come umanità europea e occidentale un senso al proprio esistere, anche al di là di quel significato che all’esistenza deriva spontaneamente e implicitamente dalla lotta quotidiana per la vita. E questo è avvenuto proprio nel momento in cui, con la Modernità, le istituzioni tradizionalmente deputate a fornire orizzonti di senso all’essere umano (religioni, chiese…) perdevano il monopolio della formazione delle coscienze. Il sorgere delle ideologie, dalla Rivoluzione Francese in poi, ha costituito, per larghi strati di popolazione, una nuova possibilità di dare significato comune e condiviso all’esistenza; significato, spesso, vissuto come alternativo rispetto alle tradizionali proposte di senso delle diverse Chiese Cristiane.
Il crollo delle ideologie e delle speranze a esse legate ha in epoca recente, per così dire, privatizzato la speranza in un contesto, quello del cosiddetto periodo post-moderno, caratterizzato dalla ricerca individuale o a piccoli gruppi di esperienze di benessere e di senso sostanzialmente scettiche riguardo alla possibilità di cambiare in meglio le condizioni generali dell’umanità. Ciò che, soprattutto a partire dagli anni Ottanta del Novecento, si sta verificando con la cosiddetta globalizzazione, nonostante alcune forme di reazione religiosa radicale e le ricorrenti crisi economiche, è l’imporsi di un unico modello di società consumistica che, per quanto deludente, è sempre nuovamente seducente con le sue continue proposte di prodotti di qualsiasi genere nell’ambito del mercato globale. Prodotti a getto continuo che sembrano costituire il surrogato più attraente di quel nuovo autentico che stenta a nascere e che costituisce, pur sempre l’inconfessato profondo desiderio dell’essere umano.

Un momento della storia culturale dell’Occidente particolarmente significativo per comprendere la crisi (krisis, scelta) attuale, mi sembra essere l’epoca romantica. Dal punto di vista del cammino della coscienza occidentale, il Romanticismo ha rappresentato, a mio avviso, l’espressione e la legittimazione, soprattutto in ambito artistico, del desiderio umano riconosciuto nella sua inesausta tensione infinita (Streben). La conquistata legittimazione del desiderio come tensione infinita alla pienezza umana e alla felicità ha però avuto come esito, soprattutto in ambito artistico (per esempio Holderlin, Schumann, Leopardi …), l’impossibilità di una conciliazione con una realtà percepita come troppo distante e, sostanzialmente, in opposizione al proprio desiderio. Da qui la crisi, più o meno consapevole, di un desiderio finalmente legittimato sul piano della coscienza, ma disperatamente contraddetto dalla realtà. Crisi che ha avuto anche non pochi esiti di squilibrio psichico in alcuni personaggi di spicco della cultura romantica e post-romantica. Le diverse forme di ideologie, nate più o meno, nello stesso periodo, ma giunte al massimo sviluppo nel corso del Novecento (nazionalismi di vario tipo, da una parte, e varie forme di socialismo e comunismo, dall’altra) hanno anche rappresentato la possibilità di offrire una soluzione nuova alla crisi nata con la conquistata piena legittimazione del desiderio avvenuta in epoca romantica. Soluzione capace di coinvolgere e galvanizzare intere generazioni, soprattutto di giovani, attorno alla speranza di costruire un futuro all’altezza del proprio desiderio. Un futuro immaginato, da sinistra, come la nascita di una società in cui, superato il travaglio della storia, regnasse finalmente una vera giustizia; da destra, nelle diverse forme di fascismi, immaginato come l’apparire di un mondo in cui, rinnegate alcune delle conquiste più importanti della modernità, avvenisse un ritorno a non ben precisate forme di società pre-moderne debitamente idealizzate. La sconfitta, con la seconda guerra mondiale, delle ideologie e dei totalitarismi radicali di destra, e successivamente, nella seconda metà del Novecento, il crollo del blocco comunista nell’Est Europa, ha favorito l’imporsi di un unico modello di società: quello capitalistico-consumistico.

Rispetto alla retorica delle ideologie di destra e di sinistra, l’ideologia dell’attuale capitalismo di impronta neo-liberista non sembra capace e, di fatto, non intende generare speranza di un futuro di felicità da conquistare attraverso un impegno storico-politico. Sembra, al contrario, presentare l’ideale di quello che Nietzsche in ‘Così parlò Zarathustra’ ha profeticamente chiamato l’ultimo uomo. Un uomo non più disponibile a lottare per nessun ideale che non sia il solo egoistico benessere individuale di stampo edonistico: “Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte, salvo restando la salute”. Da questo punto di vista, il fenomeno della cosiddetta globalizzazione con la sua tendenza all’omologazione degli stili di vita e, nonostante le periodiche crisi economiche, con la sua forte caratterizzazione consumistica, non sembra costituire soltanto il prodotto di strategie di potere e di scelte di politica economica, ma appare anche come l’espressione dell’attuale coscienza dell’umanità occidentale ancora, inconsapevolmente, ferma nel luogo critico inaugurato, con la legittimazione della tensione infinita del desiderio, dalla cultura romantica. Una volta intuita ed espressa, soprattutto in ambito artistico, la dimensione infinita del desiderio di pienezza umana e di felicità, non solo non si è riusciti a realizzare, ma nemmeno a immaginare, un mondo che vi possa corrispondere. D’altra parte, l’urgenza di eliminare quelle forme di ingiustizia sociale che maggiormente contraddicono il desiderio umano di felicità se per un verso ha consentito di migliorare, in alcune zone del mondo, la qualità della vita umana, ha peraltro illuso di poter risolvere su di un piano strettamente politico il problema della convivenza e della felicità umana. In assenza di soluzioni alla crisi apertasi in epoca romantica con la intuizione e legittimazione della dimensione infinita del desiderio, l’attuale fenomeno del consumismo globalizzato, sembra rappresentare una forma di regressione, per certi aspetti inevitabile, a una forma sofisticata di vita animale in cui la tensione infinita del desiderio viene orientata, senza mai fine, verso sempre nuovi prodotti da consumare legati più ai bisogni e alle pulsioni elementari dell’essere umano che alle espressioni più alte della persona. In aggiunta a questo, i nuovi orizzonti aperti dall’informatica tendono a ricondurre l’esercizio e la comprensione del desiderio umano verso forme di soddisfazione immediata ( fare zapping con la vita ) che, ancora una volta, sembrano nascondere il rischio di una regressione verso forme di vita umana-animale.

Se, come a me sembra, è stato proprio il Romanticismo a inaugurare, sul piano culturale, quello smarrimento della coscienza occidentale di fronte alla rivelazione della dimensione infinita del desiderio e alla sua eccedenza rispetto alla realtà (consapevolezza resa possibile dal superamento, in ampi strati della popolazione, di una qualità di vita umana legata alla lotta per la semplice sopravvivenza ), sarà, forse, proprio il tentativo di collocarsi, con nuova consapevolezza, nel luogo da cui si è originata quella crisi della coscienza europea a consentirci di scoprire strade alternative rispetto a quelle percorse dalla storia occidentale di Ottocento e Novecento con le diverse, ma in fondo profondamente legate, ideologie e ai loro diversi ‘-ismi’ (fascismo, comunismo, neo – liberismo, consumismo… ). E’ mia convinzione che le risposte fallimentari o, parzialmente tali, che i vari ‘-ismi’ hanno dato e continuano a dare al problema centrale della cultura e della società moderna e post-moderna, quello della sproporzione tra infinità del desiderio e realtà, derivi, sostanzialmente, dal fraintendimento e dalla mancanza di comprensione della enorme portata di quel problema e delle sue ricadute in ogni ambito del vivere umano. Da una nuova comprensione di quella crisi occorre, dunque, ripartire per scoprire strade nuove e nuove risposte, personali e comunitarie, che consentano di cogliere in quella crisi una preziosa opportunità di crescita o, forse meglio, di salto nella coscienza dell’umanità.

*Sacerdote, filosofo e teologo. Responsabile dell’associazione I Ricostruttori nella Preghiera

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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