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Per quanto sia poco chiara, definita in modi diversi, criticata, la nozione di bisogno fa parte del lessico comune. Il termine bisogno è definito in modo diverso all’interno di differenti ambiti disciplinari: per molti, seguendo le indicazioni semplificatrici dell’economia, è diventato sinonimo di domanda aggregata espressa dall’insieme dei consumatori. Se si assume per buona questa definizione tra le tante possibili, ne derivano una serie di conseguenze che possono illuminare certi processi e certi esiti inattesi che stanno avvelenando qua e là il contesto sociale. Se è vero, infatti, che l’economia dominante basata su questo assunto ha consentito una produzione quantitativa di beni e servizi senza precedenti; è vero anche che le esternalità che genera sono diventate ormai assolutamente insostenibili a livello ambientale e sempre più spesso anche a livello sociale. Superata da tempo la capacità produttiva necessaria a coprire i bisogni essenziali, ovvero a garantire potenzialmente una vita dignitosa a tutti, non è mai stato risolto invece il problema della redistribuzione e dell’equa ripartizione dei benefici generati. Problema che si è anzi drammaticamente acuito nel nuovo millennio. La ricchezza, infatti, si è trasferita in modo impressionante dalle classi più povere e dalla classe media verso la ristretta classe capitalista dominante, riproponendo in modo drammatico il tema del bisogno, proprio nel mezzo di un’abbondanza materiale che non ha precedenti nella storia.

In un contesto che è mutato radicalmente nell’ultimo secolo, l’interpretazione del bisogno come domanda aggregata, ampiamente orientata dalla pubblicità e dal marketing – che si è rivelato in grado di modificare drasticamente le aspettative dei cittadini diventati ormai consumatori – ha finito con lo spostare il concetto stesso di bisogno verso quello di desiderio, che per sua natura non è mai soddisfacibile completamente. Questa trasformazione sta alla base del consumismo che ha contraddistinto l’ultima fase del periodo industriale, protraendosi fino ad oggi con nuove forme e nuovi linguaggi. L’adozione di un percorso di vita centrato sul desiderio costante, pone però le basi soggettive della dipendenza: mette le persone nella situazione di dover consumare ininterrottamente nel vano tentativo di raggiungere una felicità che, così posta, diventa di fatto irraggiungibile, se non attraverso piccole gratificazioni che devono essere replicate senza posa. Tra il polo del bisogno e quello della dipendenza si colloca dunque un possibile circolo vizioso, che rischia di far diventare un numero crescente di persone sempre più dipendente dal consumo di beni materiali e immateriali prodotti dal sistema economico.
Il meccanismo bisogno – desiderio – consumo – dipendenza può spiegare gran parte degli accadimenti sociali che stanno drasticamente modificando l’intero pianeta: esso attrae irresistibilmente quanti nel bisogno vivono davvero poiché i loro paesi di provenienza sono devastati dalla guerra, da carestie ed epidemie, o da un’insicurezza spesse volte unita a una estrema povertà. Esso può essere considerato la spinta fondamentale che ha messo in crisi l’intero equilibrio ecologico, accelerando lo sfruttamento intensivo della natura, che viene messa in crisi dai rifiuti e dalla crescente massa di sottoprodotti ed esternalità generati da questo tipo di economia. Il meccanismo sta alla base di quell’insoddisfazione strisciante che sembra caratterizzare un numero enorme di cittadini occidentali, come attesta lo spropositato consumo di droghe e psicofarmaci e il ricorso diffusissimo a varie forme di terapia psicologica e di consulenza esistenziale. Esso spinge d’altra parte in un vorticoso ciclo di innovazioni tecnologiche e sociali che ampliano sempre di più l’efficienza della produzione e l’ampiezza dell’offerta reperibile sui mercati. Infine esso indirizza le persone verso due direzioni opposte: l’una contraddistinta dalla piena dipendenza dal sistema, l’altra caratterizzata dalla possibilità di usarlo come trampolino per un possibile salto evolutivo verso una nuova consapevolezza.
D’altro canto questo semplice meccanismo, per poter funzionare, richiede tassativamente che i consumatori dispongano delle risorse finanziarie necessarie per poter continuare a consumare, ovvero che siano nella condizione di poter accedere a diverse forme di lavoro remunerato. Una condizione sempre più difficile da onorare man mano che le macchine intelligenti e i robot sostituiscono il lavoro umano.
Ferma restando l’impossibilità di risolvere il problema dei bisogni tramite la pianificazione centralizzata della produzione di beni e servizi, questo stato di cose porta a conseguenze paradossali a livello di senso comune. L’idea di risolvere definitivamente i bisogni umani, appare oggi, in questa prospettiva, decisamente impossibile: nuovi bisogni devono continuamente essere creati e alimentati per far funzionare il sistema, per garantire nuove opportunità di intrapresa e di lavoro. Appare insomma negata la possibilità di esistenza di una società in grado di dare a ciascuno secondo i suoi bisogni e di ottenere da ognuno secondo le sue possibilità.

Particolarmente sconcertanti sono le conseguenze per le organizzazioni, le istituzioni e le persone che lavorano direttamente nel mondo dei servizi alla persona che fino a poco tempo fa costituivano il sistema dello stato sociale (welfare). In maniera molto provocatoria si potrebbe affermare che un servizio sociale che fosse in grado di risolvere definitivamente il bisogno al quale la sua esistenza risponde, attestando così la sua eccellenza operativa, si metterebbe nella situazione di non essere più necessario e di non garantire più opportunità di lavoro ai suoi componenti. Proseguendo nella provocazione: di cosa vivrebbero gli operatori della salute se le persone adottassero stili di vita capaci di abbassare in modo significativo l’incidenza di patologie e malattie degenerative? Di cosa vivrebbe l’industria del cibo se le persone riducessero drasticamente lo spreco e il consumo di cibo spazzatura migliorando così la propria salute? Di cosa vivrebbero gli avvocati se non esistesse più una forte litigiosità sociale?
Forzando ulteriormente il discorso sul filo di una crescente provocazione, si può affermare che l’esistenza stessa di processi che generano patologie e drammi sociali è indispensabile per la prosperità delle organizzazioni che erogano servizi sociali e sanitari. Osservati con gli occhiali del circuito perverso bisogno-dipendenza, i danni prodotti dal gioco d’azzardo, dalla alimentazione scorretta, dall’abuso di farmaci, dall’inquinamento, dagli incidenti, dalle violenze risultano necessari tanto quanto l’esistenza di organizzazioni che a quelli intendono porre rimedio. Una situazione che la privatizzazione dei servizi rischia di aggravare ulteriormente, poiché in un ambiente fortemente competitivo, ogni attore è spinto a individuare e costruire i bisogni sui quali esercitare la propria competenza.
Continuando nella provocazione si potrebbe affermare che, malgrado gli sforzi dei singoli e gli impegni degli imprenditori morali, nessuna organizzazione può davvero essere impegnata a risolvere definitivamente il bisogno delle persone poiché, paradossalmente, la sua utilità sociale (creare lavoro) ed economica (creare profitto) ne verrebbe compromessa.

Questi possibili paradossi possono essere rifiutati come inconsistenti o accettati come prezzi necessari da pagare allo sviluppo e al progresso; possono essere considerati come vincoli della imperfetta commedia umana da prendere con una dose di leggerezza e sense of humor o essere vissuti come drammi derivanti dall’egoismo e dalla brama di possesso e potere.
Certo è che i vecchi modelli non funzionano più, anzi la loro applicazione causa sempre più problemi; ed è anche vero che si intravvedono qua e la soluzioni su scala locale, ma all’orizzonte non si vede ancora un’alternativa realmente sostenibile capace di dare speranza al futuro. La diffusione capillare delle tecnologie digitali apre scenari esaltanti quanto inquietanti e potrebbe offrire dimensioni inattese per una riorganizzazione sociale del bisogno. Allo stesso modo uno dei tanti nuovi paradossi emergenti, quello della crescita economica con diminuzione dell’occupazione, potrebbe forse avviare nuove opportunità tutte da esplorare. Ne deriva, infatti, una situazione che di per sé obbligherebbe a una rilettura radicale del significato del lavoro e dei modi stessi su cui si fonda la convivenza civile: un cambiamento tale da mettere in discussione la concettualizzazione dominante dell’idea di bisogno, cambiamento di cui si ignora la direzione, ma che diventa quanto mai necessario man mano che viene evidente l’impossibilità di affrontare i problemi con le vecchie ricette. Intanto, in assenza di soluzioni definitive e in carenza di proposte da parte della politica viene richiamata urgentemente in gioco la responsabilità delle persone e la capacità di discernimento dei decisori pubblici e privati ai quali si chiede lungimiranza e capacità di visione sistemica. Una nuova consapevolezza diventa essenziale per affrontare in modo creativo difficoltà che sembrano essere diventate ormai insormontabili se affrontate con i vecchi strumenti.

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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