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Vite di carta. Io resto qui

Di mercoledì al mio paese c’è il mercato, ma non oggi. Non nelle prossime settimane, fino a quando durerà questa situazione di emergenza sanitaria.

È un giorno caratterizzato dalla assenza: l’assenza delle bancarelle e della gente in piazza, della scuola che è la mia vita quotidiana da 35 anni, della vita di prima. Sto configurando giornate azzardate, piene di tentativi nuovi per imparare a fare scuola a distanza, piene di nuove difficoltà.

Mi do poco tempo per pensare. Un po’ di televisione la sera, ma poca: un tg che trasmette cifre su cifre relative a nuovi contagiati, a ricoveri; mezzo film durante il quale mi assopisco, e così nemmeno una storia completa mi entra in testa e me ne varia il contenuto monocorde. Il lavoro si è preso tutta la materia grigia.

Non so ancora cosa penso della immobilità. Mi salvano il giardino che ho intorno alla mia casetta, e questo correggere continuo le cose scritte e inviate in decine di mail dai ragazzi. Deve essere dura, e lo sarà sicuramente anche per me.

Leggo. Leggo come prima, o forse un po’ meno. Riprendo in mano dagli scaffali più a portata di mano i libri che ho messo in fila negli ultimi due o tre anni; alcuni piuttosto vissuti, altri ancora con il cellophane e dunque pronti a farmi sentire il loro profumo non appena sarà il loro turno e deciderò di aprirli.

Ho riposto giorni fa il romanzo di Alice Cappagli, Niente caffè per Spinoza: un romanzo di cui ho parlato nel numero precedente di questa rubrica e che ho dovuto consultare allo scopo. Il gesto è breve, prendi il volume e lo riponi dove trovi posto nello scaffale degli autori italiani contemporanei.

Il libro in questione, però, vuole dirti ancora qualcosa. Guardo infatti la copertina un solo attimo e rivedo la piccola frase stampata a lato della ragazza che è salita sopra una pila di libri per slanciarsi verso l’alto (a salutare una nuvola di chiavi volanti che lei stessa ha lanciato, o che stanno cadendo da lassù, chissà). La frase dice “Dai libri che amiamo è possibile ripartire sempre”.

Ce l’ho. Ce l’ho un libro sul quale appoggiare il peso del corpo con fiducia, come la ragazza che di lì si spinge in alto. Un altro Spinoza, un libro di cui ho voluto trattenere alcune riflessioni, verso la fine, ammirata per la semplicità con cui esprimono quello che anch’io provo, una radiografia fatta di parole.

Non lo trovo. Sullo scaffale dove vado a cercarlo, c’è l’altro romanzo dello stesso autore, Marco Balzano. L’ultimo arrivato. E’ in edizione tascabile ed è colorato. No, sto cercando Io resto qui, che ha la copertina rigida ed è bianco. La foto sul davanti riporta il campanile di Curon che esce dall’acqua.

Un’altra mancanza. Un corto circuito fra letteratura e vita: risulta assente il romanzo che vorrei consultare in questo momento, il cui titolo è una dichiarazione di resilienza allo stato puro: “Io resto qui”. A casa, dico subito pensando al virus.

La narratrice si chiama Trina, fa la maestra in un piccolo paese della Val Venosta in Sudtirolo. Trina è anche moglie di Erich, un uomo tenace e attaccato alla propria terra, e madre di Michael e Marica. Il libro contiene il racconto della sua vita ed è una lunga lettera scritta per la figlia che da tempo ha lasciato la famiglia, portata senza preavviso in Germania dalla sorella di Erich, che forse ha voluto darle una vita migliore.

La vita a Curon è dura, le famiglie campano allevando animali e lavorando la terra. Quando la Storia viene a travolgere gli abitanti con i suoi cambiamenti, è ancora più difficile resistere. Durante il ventennio fascista Mussolini mette al bando la cultura del luogo, impedendo di parlare il tedesco agli abitanti di tutto il Tirolo e mandando ad occupare i posti negli uffici pubblici impiegati venuti dal resto d’Italia.

Trina allora difende la propria cultura e continua a fare la maestra di nascosto, per poter usare il tedesco con i suoi scolari. Quando arriva la guerra, resiste da sola alle difficoltà mentre il suo Erich è soldato, ma quando egli torna a casa ferito e decide di disertare, fugge con lui sui monti e resiste al freddo e alla fame scappando da un rifugio all’altro a rischio della vita.

Infine la diga. Da molti anni, anche prima della guerra erano cominciati i lavori di una diga voluta dal Duce per produrre energia elettrica, che avrebbe allagato i paesi di Resia e di Curon. Ora col dopoguerra i lavori riprendono, con i rumori delle ruspe che spezzano il silenzio antico delle montagne e col progetto di cambiare radicalmente il territorio. A nulla valgono le proteste degli abitanti, che Erich cerca instancabilmente di tenere viva.

Trina ha già sopportato la dittatura, la guerra, la solitudine e la povertà. Rimasta sola dopo la morte di Erich, accetta di vivere in un minuscolo appartamento prefabbricato che le viene dato in cambio del suo maso, finito sott’acqua come l’intero paese dove è sempre vissuta. Ferma come una radice.

Non ricordo con sicurezza le parole e le frasi che avevo sottolineato due anni fa, alla prima lettura del libro. Ricordo il senso di una frase bellissima che riguarda Erich. Erich alla fine della sua vita è fiaccato dalle fatiche e dai dolori che lo hanno consumato: ha dovuto perdere l’unica figlia, ha visto il figlio tradire le sue idee e arruolarsi nell’esercito del Führer e ha fatto il soldato, pur avendo in odio la guerra.

Di recente ha incassato la sconfitta della diga che gli ha tolto la sua casa e i pascoli. Non è la malattia a portarlo via, Trina ne è convinta. E’ stata la stanchezza, quella portata dai suoi pensieri. I pensieri stancano, che bella verità mi dicono queste parole.

Balzano ha uno stile semplice ma molto intenso. È piaciuto anche agli studenti, che quando l’hanno incontrato gli hanno rivolto domande su domande anche su singole parole del libro. L’incontro è avvenuto nella splendida cornice del Museo di Spina; lui è partito un po’ rigido, con aspettative non esaltanti.

Credeva, ha ammesso alla fine della conversazione, di avere davanti una platea un po’ svogliata. E invece si è ammorbidito domanda dopo domanda, si è lasciato andare vedendo il book trailer preparato dai ragazzi, si è commosso con la musica originale della colonna sonora. Secondo me gli è servito tempo semplicemente per smettere gli abiti dell’insegnante (insegna in un liceo milanese) e indossare i panni dello scrittore, di uno che ha lasciato il segno.

Nota bibliografica: Marco Balzano, Io resto qui, Einaudi Supercoralli, 2018

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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