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Vite di carta. Il carcere, il gorgo e la seconda voce dell’anima

Di mercoledì ho fatto la spesa al mercato del mio paese, come sempre. Anche oggi ho avuto incontri brevi, saluti frettolosi, la visione istantanea di altri passanti: è il massimo della socialità nel periodo Covid color arancione in cui ci troviamo.

Tutti mascherati, tutti intenti a fare acquisti con le solite frasi fatte, pronte a scattare per tenere un po’ di conversazione: il virus di qua e di là, avete sentito quanti stavolta e via dicendo. Sono parole che dimentico in fretta, ormai le sento come abusate e consumo la minaccia che è in loro proprio ripetendole. Non so se accada anche agli altri, a me la paura così esternata e tante volte esibita fa meno effetto.

La novità è che oggi, tornando a casa con il grappolo delle sporte appeso alle mani, ho parlato per la prima volta con uno che il virus se l’è preso. La prima volta. Mentre lui nel giardino di casa sua, a cinquanta metri dal mio, camminava a zig zag per scaricare la tensione e doveva dirlo a qualcuno che l’esito del tampone era arrivato pochi minuti prima ed era finalmente negativo. Sono passata io e ho condiviso la sua gioia. Mi ha detto che non è stato male e che i sintomi sono stati pochi e leggeri, però si è sentito isolato dal mondo, bloccato e recalcitrante tra le mura di casa per dieci giorni.

Ho pensato al gorgo. Il male che il mio malcapitato vicino di casa percepiva come esteso in orizzontale, come una espulsione all’estrema periferia della sua vita, lontano dalla quotidianità e dal lavoro a cui è tanto attaccato, a me è sembrato esteso in verticale, come un gorgo che l’ha portato giù verso la solitudine e il buio. Ora, ha ragione nel dire che il virus gli ha ridotto lo spazio vitale e lo ha fatto rimanere in casa come in un carcere.

Credo tuttavia che lo svilupparsi del male e del bene lungo una linea verticale resti una dimensione costante nella percezione di ciò che ci accade: “Sono un po’ giù  in questo periodo” ti dice il tuo interlocutore e tu per dargli coraggio gli rispondi con un “Cerca di stare su, vedrai che le cose miglioreranno”, che è frase usuale, ma la dici con sbrigativa sincerità.

Alle spalle ci sono le coordinate dell’educazione che abbiamo ricevuto, di matrice cattolica per la stragrande maggioranza di noi; poi siamo andati  alla scuola superiore, abbiamo aperto la Divina Commedia e ci siamo messi a imparare a memoria le dieci parti in cui è diviso l’Inferno, una voragine a forma di cono, che sprofonda sotto il suolo di Gerusalemme, fino al centro della terra.

Le dieci parti che formano la montagna del Purgatorio, altissima e isolata nell’opposto emisfero delle acque; infine siamo saliti nei nove cieli che ruotano intorno alla terra, raggiungendo il decimo  infinito spazio dell’Empireo, che è pura luce divina. Dal basso verso l’alto. Dal buio alla luce.

Nel racconto Il gorgo di Beppe Fenoglio, apparso per la prima volta in rivista nel 1954, il male è nell’acqua del fiume Belbo in un punto preciso, “dietro un fitto di felci”, lucido come “la pelle di un serpente”. In quel punto il narratore, che ha nove anni ed è il più piccolo dei suoi fratelli, ha capito che il padre vuole andare a morire, per la disperazione di essere povero e disgraziato, con la penultima figlia morente. In quel punto l’acqua tira giù e annega.

Questo testo di Fenoglio l’ho cercato e letto di recente, con le aspettative al massimo. Perché? Perché lo ha ripreso Sandro Veronesi nel suo recente romanzo Il colibrì, che ha vinto il Premio Strega 2020. Lo ha ripreso in un toccante capitolo alla metà del libro, poi ha citato apertamente Fenoglio nei Debiti finali, le pagine in cui riporta i testi a cui ha fatto riferimento, quindi ringrazia le persone che lo hanno sostenuto.

Ora io cito lui e dei Debiti riporto proprio le righe iniziali: “Innanzitutto, il capitolo intitolato Ai mulinelli: non è semplicemente ispirato al racconto Il gorgo di Beppe Fenoglio, ne è una cover vera e propria. C’è una perfezione in quel racconto, probabilmente il più bello che sia mai stato scritto in lingua italiana, che sarebbe scomparsa limitandosi ad appropriarsi dell’idea che lo ha generato, senza riprodurne anche lo schema”.

Il più bel racconto che sia stato scritto nella nostra letteratura: meglio tardi che mai, me lo procuro e lo leggo. E’ piuttosto breve, non arriva a due pagine. Poi vado a cercare nel capitolo Ai mulinelli di Veronesi e scopro che è davvero stato fatto un calco.

Prima di tutto è stata ripresa l’idea: nel Gorgo il figlio più piccolo salva il proprio padre, che ha deciso di suicidarsi. Negli anni della guerra di Abissinia, anni di miseria, la famiglia del narratore aggiunge agli stenti la disgrazia della malattia della figlia:

“Deperivamo anche noi accanto a lei, e la sua febbre ci scaldava come un braciere, quando ci chinavamo su di lei per cercar di capire a che punto era. Fra quello che soffriva e le spese, nostra madre arrivò a comandarci di pregare il signore che ce la portasse via; ma lei durava, solo più grossa un dito e lamentandosi sempre come un’agnella”.

Quando il padre dice che scende al fiume Belbo per voltare le fascine che hanno preso la pioggia, solo il figlio piccolo capisce “che andava a finirsi nell’acqua” e allora lo segue, e la sua presenza cocciuta spinge il padre a mettersi al lavoro col forcone, abbandonando colpo dopo colpo il proposito di gettarsi nel fiume.

Nel romanzo di Veronesi è il protagonista a seguire la sorella, decisa a gettarsi in mare in una sera d’estate, e così a salvarla con la sua presenza piena di amore fraterno. In secondo luogo Veronesi ha mantenuto lo schema compositivo del racconto: un personaggio si avvia a piedi per andare a morire e uno della famiglia gli si attacca alle costole per impedirglielo.

Ci sono un’andata e un ritorno: all’andata l’aiutante viene scacciato più di una volta; al ritorno, quando il tentativo di suicidio è ormai fallito, la coppia ritrova il proprio atavico legame di affetto. “E’ la combinazione di candore e di disperazione che…rende così naturale” il racconto. L’immagine conclusiva in entrambi i testi è quella altrettanto naturale del pollice che gratta la testa al bambino salvatore “tra i due nervi che abbiamo dietro il collo”.

Anche le parole sono le stesse.
Dopo il cammino in discesa verso il gorgo della morte, ecco la risalita insieme verso casa.

Poi, aggiungo io, c’è la scrittura di Fenoglio. L’ho trovata ancora una volta di una bellezza! Così scabra, così piena di realismo e insieme vibrante di emozione. La concentrazione dei significati nelle frasi brevi, l’innocenza del parlato hanno superato ogni mia aspettativa. E’ un bambino che racconta col suo linguaggio ingenuo, così distillato da ricordare le poche parole che sa dire Rosso Malpelo. E’ una lingua tenace, che esprime la fatica della vita e insieme la sua comprensione. E’ compatta in modo totale: non una sola parola si potrebbe togliere dal testo, non ne occorre una in più.

Lo dico con le parole che ha usato Andrea Zerbini nel suo articolo La seconda voce dell’anima uscito su questo giornale il 21 novembre 2020: “la lettura non è mai un monologo, ma l’incontro con un altro uomo, che nel libro ci rivela qualcosa della sua storia più profonda e al quale ci rivolgiamo in uno slancio intimo della coscienza affettiva, che può valere anche un atto d’amore…Un libro può diventare così la seconda voce della propria anima”.

Comprendo leggendo Zerbini che “l’intera Bibbia può considerarsi allora una conversazione in itinere. L’invito permanente all’ascolto, all’incontro e al dialogo: per tentare alleanze; per formare amicizie; per ricercare quel santo Graal di quell’ultima cena, che ha visto nella condivisione del pane e del calice, un comunicare nell’agire e nel patire, il simbolo reale di quell’amore così grande da spingersi a dare la vita per gli amici”.

Comprendo che nella “biblioteca interiore” di cui parla Zerbini, i libri siano voci di un unico grande libro, in cui “Dio impiega diversi traduttori” per il dialogo con i suoi figli.
Accolgo queste bellissime parole nella mia visione laica della biblioteca del mondo e mi faccio piccola ancora di più. Ancora mi basta avere trovato le parole da dire sulla piazza, mi bastano quelle che il mio vicino di casa ha ricevuto da me e quelle che ho ascoltato da Fenoglio e da Veronesi per gioire insieme.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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