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Vite di carta. Quando verrà di Cesare Manservigi

Quando verrà. Cronache, racconti, pensieri è il penultimo libro che Cesare Manservigi ha pubblicato e poi donato ai tanti compaesani che lo conoscono e lo stimano, come chi scrive. Il paese è Poggio Renatico, lo stesso che di mercoledì nella grande piazza ospita il mercato, a cui si ispirano alcuni articoli di questa rubrica. Il nostro paese, vera monade di un mondo sempre più grande, composito e in continuo cambiamento..

Ho conosciuto Cesare in anni recenti e ne sono felice. E’ una conoscenza fatta di letture: sono io che ho letto i suoi libri e gli articoli che pubblica da anni sui Quaderni Poggesi. E’ una conoscenza cresciuta in occasioni più pubbliche che private: alla presentazione dei Quaderni ogni dicembre, davanti ai soci che vengono a rinnovare l’iscrizione alla Associazione Storico-Culturale Poggese; in biblioteca, mentre si conversa sui suoi racconti e lui, modesto, risponde a frasi brevi e intense. Credo però che condividiamo molto, a partire dal gusto delle parole, dialettali e non, come veicoli del pensiero e del cuore.

Ne riporto alcune dalla prefazione al libro: “Quando vado a prendere a casa dalla scuola i miei nipoti, talvolta mi capita di rimanere stordito nel vedere bambini i cui genitori provengono da chissà dove mescolarsi con naturalezza con quelli di qui. E’ l’alba del mondo di domani. Il mondo di quasi tutte le storie qui raccontate è una realtà che è esistita, una realtà che non scomparirà del tutto perché qualcosa di ciò che è stato sempre rimane nel flusso del tempo che va, rimane nelle cose e in chi vive. E’ una realtà che il tempo non può cancellare del tutto ma che non tornerà”.

La realtà che Cesare ha alle spalle si muove da lontano: nel 1943 la sua famiglia si trasferisce da Bologna, dove c’è il pericolo dei bombardamenti, a Poggio Renatico nella grande casa rossa del nonno Zanen. Cesare ha pochi anni ma i ricordi della grande famiglia che si è radunata presso i nonni sono vivaci e hanno lasciato il segno in lui. In fondo il piccolo cosmo del nostro paese che compare nella sua scrittura, così pieno di individui e delle loro storie, è come quella grande casa che si è allargata a ospitare tutti.

Si ritrova, infatti, nei racconti di questo libro come negli altri una galleria di persone che sono frutto della fantasia ma sempre verosimili, oppure che sono vissute qui e la penna gentile dello scrittore le fissa per noi con tratti decisi. Sono padri di famiglia e madri, giovani coppie di fidanzati, bambini dall’infanzia vissuta in povertà ma che hanno conosciuto il gioco e l’amicizia, giovani che si sono impegnati in politica negli anni della ricostruzione dopo la seconda guerra.

Cesare ricorda di avere incontrato queste figure, di età e condizioni diverse, mentre era bambino, poi da ragazzo durante gli anni dell’università. Altre storie le racconta con gli occhi dell’adulto, negli anni in cui è stato docente alle superiori; infine questi ultimi racconti – come dice nella prefazione – sono la nuova stesura di “cose vecchie che il mio vizio di scrivere aveva prodotto”.

Di alcuni compaesani tratteggiati da lui conoscevo le vicende per sentito dire o dalle conversazioni della mia famiglia. Trasferiti sulla carta, hanno acquistato una sostanza umana direi paradigmatica: le parole hanno cristallizzato le loro convinzioni, le abitudini o qualche loro stranezza fissandole per sempre, con i tratti di un carattere umano.

Ma c’è di più nelle pagine dei libri di Cesare: ci sono le persone con addosso la parabola della vita che hanno vissuto su questa terra e c’è la fede che tutti loro fluiscano in un tempo eterno che li riassorbe nelle braccia del Signore.
Prendiamo lo zio Pino, vero personaggio da Oscar del cinema, quello che viene assegnato agli attori non protagonisti e magari rivela dei talenti straordinari.

La cifra della sua vita viene svelata in almeno due racconti: Lo zio Pino, il primo della raccolta Un picchetto, un’osteria uscita nel 2016 e La comunione di Pino, contenuto nel volume in oggetto, uscito nel 2020, in cui si legge: “Lo zio Pino era il capofamiglia, come allora si diceva, della famiglia dei fratelli della mamma. Era calzolaio come Amedeo e aveva ereditato il mestiere dal padre…Era mite e laborioso.

Dato che i genitori erano morti ancora abbastanza giovani, aveva affrontato sacrifici per tirare su meglio che poteva i fratelli più giovani, spesso levandosi letteralmente il pane dalla bocca. Non aveva figli ma voleva bene ai nipoti come un padre”. Mi fermo qui e dico: che uomo esce da un cameo come questo? Un lavoratore, un padre di famiglia anche se non è sposato, modesto e riservato, umbratile nella sola storia d’amore che di lui si ricorda.

Nell’altro racconto viene narrata con maggiore respiro la storia del suo breve fidanzamento: una sera Pino esce per “andare a morosacon la sua solita aria serena, torna però molto prima del solito e non sembra più lui. “Lo sguardo era perso. I lineamenti erano tirati. La schiena curva. Sembrava invecchiato di vent’anni”. Non dice nulla, anche se le sorelle preoccupate cercano di sapere cosa sia accaduto. Devono passare molti anni prima che racconti loro di quella sera, della morosa vista con i suoi occhi mentre baciava un altro.

Il testo conclude: ”Non toccò la porta a cui un attimo dopo avrebbe dovuto bussare. Né allora né mai più. Non ebbe mai più un’altra morosa e non si sposò mai. Il suo fu un trauma insuperabile. Ma la cosa più curiosa nello zio fu che quella delusione che ne cambiò la vita, nello stesso tempo in certo qual senso non lo mutò neppure di un nulla…

Era stato buono e continuò a esserlo per tutta la vita”. Mi fermo di nuovo per dare spazio alla stima che Pino mi suscita, verso il suo equilibrio straordinario. Ora leggo l’ultima frase: “Continuò a godere delle fortune altrui” e idealmente gli consegno la statuetta dell’Oscar alla magnanimità. Lo vedo salire sul palco e ricevere il prezioso premio, è un uomo “magro, piccolo e agile”: una sorta di legge del contrappasso lo ha dotato di una interna grandezza.

Nel racconto La comunione di Pino  l’autore lo ricorda tormentato da questioni metafisiche. L’episodio è ordinario ma mette di nuovo in luce una sensibilità non comune. Pino fa da testimone di nozze a una coppia di conoscenti che glielo hanno chiesto con calore e lui che “non era uomo da dire di no a chi gli chiedeva un favore” è  puntualmente all’altare accanto a loro.

“Quando giunse il momento della comunione, sia i due sposi che l’altro testimone la fecero. Rimaneva lui che non ebbe il coraggio di comportarsi in modo diverso dagli altri e si comunicò come loro. Solo che lui non si confessava da diversi anni e subito il pensiero di avere fatto una cosa moralmente illecita cominciò dapprima a fargli ombra e poi a tormentarlo. Lui era uomo scrupoloso in tutto”.

Occorrono molti interventi delle sorelle e dell’autore, allora adolescente, per alleviare la sua coscienza, e la pagina finale del testo indugia sulle ragioni di principio e sulla sensibilità con cui la famiglia riesce a dirimere i suoi scrupoli.

Anche l’autore è uomo che si interroga. Il titolo del libro contiene una affermazione – quando verrà – che è priva di soggetto: si tratta di Gesù e il tempo del suo arrivo tra gli uomini è un tempo del futuro. Quante domande si pongono i protagonisti dell’ultimo racconto, che dà il titolo alla raccolta. Una su tutte viene ripresa  dal vangelo di Luca: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” E ognuno prova a dare la propria risposta.

Torno a Cesare che prende i suoi nipoti da scuola e intanto osserva l’alba di un nuovo futuro nei bambini del mondo, quelli che sua madre, la Dirce, ha tanto amato e ancora amerebbe se fosse qui. Cesare ha fede nel futuro, ha fede.

Nelle righe che concludono il libro, prima della bella foto in cui è ritratto con la sua famiglia, risponde così a tutte le domande:” C’è chi ritiene che una sana filosofia possa aiutare a vivere anche avendo perduto le consolazioni e le speranze che vengono dalla religione. Per me è illusione. Se si perde la religione, per noi quella cristiana, si chiude il futuro per tanti uomini. E con il futuro si spegne il senso della vita. L’oggi ha un significato pieno se esiste anche il domani”.

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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