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Rovesci di pioggia mi accolgono all’arrivo a Firenze: grigio, nuvolo, umido, ma ‘l’odiosamata’, città del cuore, è lì a sbranarmi di ricordi. Rivedo quelle strade tante volte percorse e immediatamente scatta la trappola e mi soccorre Montale: “Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio./Il mio dura tuttora, né più mi occorrono/le coincidenze, le prenotazioni,/le trappole, gli scorni di chi crede/che la realtà sia quella che si vede”.
Prefiguro che l’incontro pomeridiano con Claudio Magris, in occasione del convegno a lui dedicato ‘Firenze per Claudio Magris‘ – promosso dal dipartimento di Formazione, Lingue, Intercultura, Letterature e Psicologia dell’Università di Firenze – verterà sul dato fondamentale della sua poetica cioè sulla constatazione che la realtà non sia quella che si vede, ma sia quella che le parole costruiscono.

E sotto la pioggia varco il portone del Rettorato all’angolo di piazza San Marco. Non mi volto a sinistra dove, da lontano, s’intravvede la nostra casa, ma mi lascio prendere dal tappeto di rose bianche che ora ricopre la piazza. E salgo lo scalone in attesa che aprano le porte dell’Aula magna tra i festosi ritrovamenti dei colleghi e l’arrivo di Lino Pertile dal suo buen retiro a Fiesole, che doverosamente viene omaggiato dal grande libro fotografico su Bassani. Giunge Dora Liscia, la nipote del grande scrittore ferrarese e collega per anni. Poi Enza Biagini, dolcissima amica, che presiederà la seduta del pomeriggio, e infine Ernestina Pellegrini, la massima studiosa di Magris responsabile del convegno. Sono naturalmente ansioso. Veloci scambi di vedute sull’aspetto fisico dei colleghi di un tempo e degli allievi ‘antiqui’ quindi entriamo nell’aula maestosa che mi ricorda altri tempi, altre situazioni tutto nella contemporaneità del ricordo.

All’arrivo di Magris sono chiamato a esporre succintamente ciò che poi potrò ampliare negli Atti del Convegno. Dichiarandomi totalmente d’accordo con l’interpretazione della Pellegrini ad assumere come elemento tematico da cui partire questa dichiarazione, che ritorna ossessivamente nell’opera di Magris e in tutta la produzione-saggistica, narrativa, teatrale, come “un’ininterrotta meditazione sulla vita e sulla storia”. In tal modo la sua si conforma come “arte di testimonianza”.

Commenta la Pellegrini nell’introduzione al primo volume del Meridiano da lei curato e dedicato all’opera di Magris: “A cosa rimanere fedeli? Ai propri demoni con tutte le laceranti contraddizioni che ciò implica o ai propri doveri verso la causa pubblica, in un ineludibile confronto col mondo e la necessità di mutarlo?”. Risuonano scanditi dalla enumerazione dei temi le domande che rivolgo al grande scrittore e che si confrontano con le mie versioni del fatto critico in esame. Così alla ‘triestinità’, uno dei capisaldi dell’indagine critica e letteraria di Magris, accosto ‘fiorentinità’ e ‘ferraresità’, due momenti della costruzione culturale che hanno determinato il mio iter di studioso quando ho cominciato a insegnare. E m’imbatto in questo lemma, ‘fiorentinità’, in cui il mito di una città – come Trieste per Magris – diventa la base complessa di un riferimento ormai classico a ciò che ha creato i fondamenti della novità novecentesca di un pensiero che si esprimeva anche nei luoghi frequentati dagli intellettuali che, come i Caffè di Trieste, il ‘Caffè degli Specchi’, o il ‘Garibaldi’, o il ‘Tergesteo’ , il ‘San Marco’ frequentato dallo stesso Magris, a Firenze si connotano come ‘Le giubbe rosse’, ‘Paszkowski’, ‘Gilli’, ‘Giacosa’, ‘Rivoire’, dove al seguito dei Maestri negli anni Settanta ci recavamo in devota peregrinazione, affollando, prima, la Libreria Seeber allora in via Tornabuoni. Ai giovanetti studiosi dava in visione i libri avidamente letti in due giorni; quelli poi che tenevamo, li potevamo pagare a rate mensili. Ma erano gli anni in cui Ferrara andava alla conquista della città del Giglio. Sulle cattedre di Letteratura italiana sedevano Lanfranco Caretti e il sardo ormai ferrarese Claudio Varese, poi, negli anni, Guido Fink, Carla Molinari, chi scrive queste note e altri giovani destinati a ricoprire importanti incarichi nell’accademia come Monica Farnetti.

Ferraresità a differenza di triestinità, significa poi nella storia del secolo breve la nascita della metafisica, la partecipazione degli agrari ferraresi alla marcia su Roma, i federali potentissimi tra cui il Maresciallo dell’aria Italo Balbo, il podestà ebreo Ravenna, protetto dallo stesso Balbo fino alla sua morte e la conseguente fuga in Svizzera, l’ eccidio del Castello e la testimonianza di Giorgio Bassani, affidata alle sue storie ferraresi e al romanzo di Ferrara, il ritorno alla ‘normalità’ ovvero a una tranquilla convivenza per settant’anni di una amministrazione sempre di sinistra che non infierisce sulla classe politica antecedente, ma la ingloba in una apparentemente pacifica convivenza. Ora, la famiglia Balbo ha donato gran parte del suo archivio all’Istituto di storia contemporanea di Ferrara; ma a seguito di questa iniziativa si è parlato dell’eventualità di intitolare una via o una piazza a Italo Balbo. E questo ha suscitato la mia reazione. Un conto è che la storia rimanga tale, un conto che un’eventuale reminiscenza di un’adesione a un tempo proibito diventi la suggestione per rimuovere umori che le cronache di questi giorni confermano. I giovani presenti applaudono convinti. Magris mi ringrazia.

Il problema, per me forse il più affascinante, riguarda Magris germanista che viene a coincidere con l’amico sconosciuto, ovvero una tra le persone che più di ogni altre hanno inciso nella mia formazione umana e culturale: Furio Jesi. Ho narrato molte volte il mio rapporto con questo straordinario personaggio, autodidatta, che a 16 anni s’imbarca su un peschereccio e sbarca ad Alessandria d’Egitto, dove traduce il libro dei morti e diventa l’allievo prediletto di Kerényi, il grande studioso delle religioni e amico di Thomas Mann. Le lettere che ci siamo scambiati per una vita raccontano il difficile rapporto tra Cesare Pavese e Thomas Mann e nello stesso tempo il concretizzarsi di un concetto, espresso da Jesi nel suo ‘Germania segreta’, tra mito, inconoscibile, e mitologema: cioè la raccontabilità del mito e quindi la conoscenza di ciò che in sé è impossibile conoscere. Qui rientra un altro ‘mito’ di cui ho fatto parte. Quello dei tre ‘pavesini’ Lino Pertile, Anco Marzio Mutterle, Gianni Venturi, a cui si aggiungerà Marziano Guglielminetti: coloro cioè che negli anni Settanta del secolo scorso scoprirono in Pavese un grande autore europeo che principalmente andava studiato nel suo rapporto con Thomas Mann. Due di questi erano presenti al convegno per Magris: Lino Pertile ed io.

C’è una lettera che Furio Jesi mi scrive nel 1968 che definisce quello che per lui è il prototipo dell’autentico germanista:

“[…]Le sono grato per l’interesse verso il mio lavoro. L’estate scorsa ho pubblicato dall’editore Silva un saggio intitolato ‘Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del ‘900’ (è il primo volume di una collezione che ora dirigo: ‘Miti e simboli della Germania moderna’. E qualche giorno fa è uscita da Einaudi una mia raccolta di saggi – compresi quelli pavesiani – : si intitola ‘Letteratura e mito’ […] Lei si occupa anche di germanistica? (dato l’interesse per Jung…) Mi permetto di chiederglielo perché sto cercando autori per la mia collezione presso Silva (e non vorrei dei germanisti troppo “filologi” o soltanto “filologi). Con molti cordiali saluti, suo Furio Jesi”.

Evidentemente il germanista Jesi che otterrà una cattedra in questa materia senza avere mai frequentato corsi di studio regolari propone un’idea dei germanisti – curiosamente implicando anche le mie conoscenze – “non troppo filologici”. Una esigenza che in qualche modo, a mio parere Magris ha compartecipato.

Un altro tema è posto all’attenzione dello scrittore: il mito asburgico. Ne racconto la mia esperienza personale. Nel 1962 vengo invitato ad Alpbach, sede estiva dell’Università austriaca a partecipare un convegno organizzato da Rosario Assunto e Paolo Volponi su ‘Industria e letteratura’. Il minuscolo paese aveva un solo luogo di ritrovo serale dove si poteva bere un bicchier di vino, ma i proprietari eredi della tradizione asburgica si rifiutavano di servire i discendenti degli antichi nemici italiani. E già avevo potuto vedere al di fuori delle toilettes della stazione di Monaco un cartello che recitava: “Locali proibiti ai lavoratori turchi e italiani”. Di fronte alla testarda protesta dei vinattieri austriaci intervenne un signore che fermamente li convinse a servire l’antico nemico! Divenimmo amici per la pelle. Il suo nome András Szöllösy. Scoprii che era un famoso musicista allievo di Béla Bartók e di Luigi Dallapiccola. Da allora almeno una o due volte all’anno mi recavo a Budapest dove eravamo ricevuti come fratelli da lui e da sua moglie Eva, famosa storica dell’arte nell’Accademia cinematografica ungherese. I luoghi erano ancora quelli lussuosi del mito asburgico, il Gellert, l’isola Margherita, il ristorante Hungaria: sotto le colonne dorate e berniniane di quel celeberrimo ritrovo mangiarono il pesce fogash Thomas Mann, Franz Kafka e i grandi scrittori ungheresi. Era l’immagine classica del mito asburgico rivisitata nel tempo del comunismo. Eppure il potente Szöllösy non poteva venire in Italia assieme alla moglie e alla fine, per potersi curare gli inviavo di nascosto le medicine. Un mito asburgico declassato, che sempre più dimostrava la sua falsa apparenza anche presso le sedi universitarie dove s’insegnava lingua e letteratura italiana: a Budapest o a Pesch.

Mi accorgo che la chiaccherata con Magris mi ha portato a rivisitare i miei miti. Ma questo è forse il privilegio di chi svolge questo prezioso e amatissimo (almeno da me) mestiere.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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