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Cosa può testimoniare chi il 25 aprile 1945 aveva esattamente 7 anni e 44 giorni?
Eppure da quella data comincia la consapevolezza, una consapevolezza che diventa storia della mia vita e delle mie scelte etiche, culturali, politiche.

In breve. Mio nonno materno, munito di una scolarizzazione che si è fermata alla terza elementare, dalla natia Porotto si reca in città a far fortuna. Nel frattempo mette al mondo sette figli, ultima mia madre, la più bella, che si avviano a diversi destini e scelte: uno militare, l’altro pezzo grosso del fascismo locale, il terzo soccombe negli scontri del 1924 tra fascisti e sinistra. Questo zio rimane ucciso e alla sua memoria il nonno innalza un tempio funebre alla Certosa dove ai lati del timpano sono scolpiti due enormi fasci. Qui, da allora, ogni domenica il nonno si recava portandoci con lui e raccontandoci all’andata la storia della ‘Divina Commedia’ come un semi-analfabeta poteva recepirla, mentre la nonna si chiude in casa e non fa più nulla: legge solo. Di tutto. Nel bombardamento di Ferrara del 1943 il nonno perde il suo patrimonio edile; perfino la bellissima casa natale verrà alienata. Ci ritiriamo in una piccola casa in via Saraceno, a pochi passi dalla via dei Sabbioni e dall’ex ghetto ebraico. La mamma, abbandonata dal marito, diventa ‘la tabacara dal Liston’, ovvero vende sigarette in un negozietto costruito allora sul Listone, la lunga striscia di terreno che costeggia il lato lungo della Cattedrale. L’esperienza della guerra è stata terribile: vivevamo in due stanze in cinque in una bellissima villa – la Villa delle Statue – a pochi chilometri dalla città. Nella stalla erano radunate le armi e gli esplosivi dei tedeschi che per impedire ai bambini di avvicinarsi distribuivano caramelle amare come il fiele. L’unica consolazione fu ammaestrare un tacchino tenuto al guinzaglio che inevitabilmente nella Pasqua del 1944 è finito sul tavolo.

La mattina del 25 aprile il nonno ci prende per mano, mentre trascino faticosamente il mio cane di legno snodato mio fratello fa i rumori di un auto in corsa. Arriviamo al cimitero. Il nonno prende una lunga scala e furiosamente scalpella dal timpano i fasci che vi erano scolpiti; poi, rivolgendosi a mio fratello che come secondo nome porta quello dello zio ucciso, gli impone di rispondere solo quando lo si chiamerà col suo primo nome: Umberto. Torniamo di fretta a casa. Dopo un poco cominciano a passare gli alleati tra gli applausi della folla e io eccitatissimo frugo nell’armadio della mamma: trovo un foulard e mi metto a sventolare. Due sonori schiaffi e la cacciata in bagno segnano il mio entusiasmo. Perché? Mi domando. Solo dopo anni l’ho saputo. Il foulard era di un rosso acceso! Frattanto in casa la parola fascista è abolita. Si parla solo di monarchia e di democrazia cristiana. Mi piaceva sentirmi monarchico. Una specie di nobiltà farlocca. Nel frattempo mio fratello è a scuola con Guido Fink. Diventiamo amici – e mai avrei pensato che sarei diventato suo collega a Firenze – mentre pian piano si snodano i piccoli avvenimenti quotidiani. La razione di legna da portare a scuola per scaldarci, le stoffe Unra, il difficile compito che mi era affidato (l’età dell’innocenza): andare dal panettiere a chiedere di segnare il conto che avremmo pagato a fine mese. Frattanto vengo praticamente adottato da amici carissimi e facoltosi che diverranno i miei nonni adottivi. E pian piano questa famiglia piccolissimo borghese che si lavava il sabato nel mastello comune in cucina comincia a rivelare il suo destino. Gian Antonio, il genietto, è destinato alle lettere, ma comunque la mia scelta è la lettura! Lo zio amico dei federali ferraresi ritorna dall’esilio sardo, gestirà la tabaccheria.

La moglie erede di una dinastia di grandi vinai trasferita in Canada se ne va. Si scoprirà che era una spia inglese. Sposerà due miliardari uno dopo l’altro. Torna lo zio militare dall’India e ci prende sotto la sua protezione. Niente politica, solo dovere e dovere di essere bravi figlioli. Mio fratello tenta invano di entrare in accademia militare. Non può perché figlio di separati. Leggo, leggo sempre di più, assistito da un vero maestro: Claudio Varese. Ma rimango monarchico e mi commuovo sul re di maggio… e sul destino di Sciaboletta. Poi l’Università e l’incontro con l’altro grande maestro: Walter Binni. Al primo colloquio mi domanda subito: ‘Come la pensa politicamente?’ Non ho esitazione. Monarchico rispondo. Nel pomeriggio ricevo una telefonata da Claudio Varese che mi domanda se ero impazzito, riferendomi lo sdegno di Binni. E da allora angosciato di aver deluso un tale studioso, uomo della Costituente, mi metto a riflettere ‘politicamente’; finché ho trovato la mia via: quella di sinistra.
Mentre rivedo ‘Roma città aperta’ per l’ennesima volta mi domando angosciato: sarà vero che cambieremo così totalmente? Che l’anima populista e sovranista vincerà?

Si snoda il tempo. Nel mio campo ricevo fiducia e forse consenso; poi la politica s’impone e si scontra col mio spirito libero e vengo, come a 7 anni, trascinato per mano per demolire ciò che non vorrei fare. Ho dato tanto a questa città,’Ferara’, forse troppo, per amore di un luogo, di una patria che mio padre mi aveva negato. Ora aspetto la fine del corridoio della vita nel Centro Studi bassaniani o nella Bassano di Canova. Ma è giunto il momento (un carissimo amico mi dice che si tratta di rivendicare la competenza) di alzare la voce. Riconoscere gli errori. Ammetterli e tentare di ricostruire ciò che noi stessi abbiamo purtroppo dimenticato. La liberazione. La liberazione di qualsiasi accostamento con tutto ciò che si chiama e si chiamerà fascismo.

Siamo stati una famiglia dove il fascismo era una condizione ‘naturale’. Ora è con orgoglio che ricordo come lo zio militare è stato insignito della medaglia d’oro e pure la zia ‘Leia’ (così pronunciavamo il nome della zia maestra che ci portava al mare) anch’ella medaglia d’oro. E tutto questo perché del fascismo ci siamo liberati.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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