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E dopo alcuni mesi ritorno a F. – effe puntato – non la città indicata da Giorgio Bassani con questo monogramma, Ferrara, ma a quella ideale, in cui ho passato esattamente metà della mia vita (1954-2017), Firenze.
Già all’uscita dalla stazione (avevo chiuso gli occhi per non vedere e non ricordare le dolci colline di Castello che il treno sfiorava) sono accolto dalla completa distruzione di uno dei luoghi più noti dell’architettura novecentesca, cioè la stazione di Santa Maria Novella, ormai Gotham City, dove il cataclisma provocato dai mostri non ha un Batman che la salvi. Percorro via Cerretani tra tripudi di scarpe e borse. I vecchi ristoranti hanno ceduto il posto a esoteriche gelaterie e uno di essi porta l’insegna di un luogo dove ho studiato per anni: “la Dantesca”! Fendo folle sudaticce e non certo odoranti di mughetto, il fiore di maggio; ascolto scalpiccii di piedi che sortono dalle più impensabili “scarp da tennis” direbbe Jannacci. Come in un ritratto ricordo vecchi alberghi, negozi raffinati che s’accalcavano attorno alla svolta per via Tornabuoni e poi e poi la marea vociante si confonde in un unico balenare di teste e di selfie attorno al Battistero irriconoscibile.

In questo confuso accavallarsi di arte, ‘magnate’, compere si rispecchia non a caso la confusa situazione della politica italiana che non riesce e non vuole organizzarsi in un serio progetto di salvezza nazionale. Il panciuto e affannato mister s’adopera a condurre le sue greggi nei luoghi sacri dell’arte: chissà se ancora potrà risuonare attuale l’invito alla salvezza del mondo proposto da Giotto o da Brunelleschi o dal ‘Devid’, che sovranamente indifferente spalanca l’occhio a guardare con aria perplessa le folle adoranti che gli scrutano i cabasisi per valutarne la virile qualità non capacitandosi della loro piccolezza.
L’arte viene dunque mangiata. A morsi. A bocconi. Come una pizza d’asporto senza nemmeno più il decoro di un buon ristorante. E se si fa giustamente un caso della perdita di un dito nello spostamento della Santa Bibiana del Bernini che dire dei fiati, degli umori, dei vapori comprese le puzzette (una fragorosa mi riporta all’oggi transitando in Piazza della Repubblica) che lentamente come le fibre dell’eternit mangiano il nostro patrimonio artistico? Firenze è dunque sulla via del non ritorno? Penso proprio di sì. E l’ombra di questa minacciosa lebbra sta invadendo poco a poco anche le città di provincia, come la nostra. Le mostre inutili, gli ‘eventi’ che servono ormai a diffondere la sbrigativa consapevolezza che un nome di un artista può produrre economia. L’arte a tutti, per tutti, di tutti e senza difese cancella l’arte. Che fare? Ritirarsi sull’Aventino e attendere? Oppure denunciare, riflettere, organizzarsi? Gli amici fiorentini preoccupatissimi assistono allo sgretolarsi dell’influenza dell’associazionismo culturale che pur combattendo perde sempre più terreno.
Del nostro ferrarese non sono più al corrente.

Mi siedo all’antico caffè in piazza del Battistero, che per decenni zuccherava il mio spleen con pasterelle deliziose. L’espresso sbattuto lì con malagrazia da un cameriere nervoso (a Firenze una condizione immutata nel tempo) è un’acqua tinta – direbbe Dante – mentre il conto ovviamente è all’altezza del luogo. M’intenerisce una coppia non giovanissima, forse della mia stessa età. Lei si china sul quadernuccio e annota le sue riflessioni: un raggio di sole nel caos infernale di una piazza degna del Paradiso.
Passo da Seeber, ormai Ibs-Libraccio, e mi rifugio per un attimo tra i bambini-libri mentre attorno e di lontano lo strascinamento dei piedi fa da coro muto (o quasi) al lento sfaldarsi della bellezza.
E’ un atteggiamento da radical-chic? Forse. Ma è pur vero che la denuncia può e deve essere l’ultima difesa contro l’immagine del degrado. Nel suo bellissimo libro Chaim Potok, ‘Il mio nome è Asher Lev’, l’artista che insegna il senso della pittura al ragazzino Asher afferma: “ La pittura di un uomo riflette la sua cultura o è un commento ad essa, oppure è semplice decorazione o una fotografia.” Ecco. In questo mondo infelice è necessario indicare di nuovo come meta ultima la connessione dell’arte con il suo contesto. Oppure contentarci di vivere nel mondo irreale dei social.
Vedo in tv la nipote della mia dea: Laura Morante. E’ spronata dalla Gruber a dire qualcosa sulla politica del Pd. La dice col suo bellissimo e mobile viso. Si vede che è tesa; infatti nella trasmissione sarà annunciata l’uscita del suo primo libro di racconti.
Questo è sì vero coraggio. Non temere l’inevitabile confronto con lei nonostante sia inevitabile. E dopo due bruttissime biografie uscite in questo mesi sulla Morante, una francese di René de Ceccatty, l’altra italiana di Anna Folli, la sfida o l’amore per la parola e nella parola riporta di nuovo un filo di speranza a contrastare l’Altro Mondo: quello della bruttezza e del caos.
Salviamo Firenze, salviamo Venezia e pure Roma se potrà essere possibile.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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