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Pasqua di grandi manovre. Sembra che all’universo mondo scada una festschrift, ovvero scritto per festeggiare ogni ora, perciò m’affanno a scrivere, scrivere, scrivere, mentre scompaiono magicamente saggi composti in tempi passati, il cellulare s’impenna e la Spal rimonta tra cori e trionfi sofferti. Ma qualcosa rimane e arricchisce la mia cultura linguistico-retorica.
Secondo ormai una prassi sperimentata negli ozi festivi, attendendo di recuperare le forze per sbattermi di fronte al malvagio specchio-deskstop – specchio delle mie brame chi scriverà il saggio più bello del reame? – leggo come finale di giornale la cronaca sportiva e ne vengo premiato con straordinarie scoperte. Oggi ad esempio m’imbatto in questa prosa ungarettiana di vivace sapore ermetico: “… a non farsi male con il gollonzo da cineteca degli orrori con cui i neroverdi hanno impattato sui titoli di coda”. Diligentemente mi metto alla ricerca del significato lessicale e trovo una spettacolare descrizione: “Deformazione in tono divertente della parola ‘gol’, il lemma gollonzo fu introdotto da una popolare trasmissione comico-sportiva ideata dalla Gialappa’s Band in onda a partire dagli anni Novanta: ‘Mai dire gol’. Nel gergo colloquiale tipico della trasmissione i conduttori cominciarono a definire “gollonzi” alcune reti piuttosto sorprendenti e ridicole: da allora il termine è stato adottato dai commentatori sportivi. Ormai sdoganato dal gergo sportivo, il gollonzo è comunemente inteso come gol fortunoso e improbabile, quasi incidentale e imprevedibile, frutto di una serie di coincidenze, rimpalli fortunati o movimenti scomposti”. Poi si dice che noi vecchietti non stiamo sul pezzo. Così nel mio privato vocabolario in perpetua trasformazione in tre righe s’affollano parole che mai avrei osato adoperare: ‘gollonzo’,’impattato’, e quello da me sprezzantemente usato “stare sul pezzo”.

Percorro trionfalmente la via Mazzini e ai conoscenti e amici col sorrisetto sarcastico proprio del radical –chic propongo il gollonzo. Nessuno fa una piega e su di me s’abbatte l’infamia del Ritirato dal mondo, di colui che andrebbe Rottamato e mai più Riusato. Un’orgia di ‘erre’ che s’accoppia con lo stridere della consonante meticolosamente pronunciata dagli speakers della più nota stazione televisiva locale.
Ormai la ‘zeta’ che sibila come una frusta specie nelle giovani ragazze del loco natio e la erre ferrigna m’inducono a capire d’aver fatto un gollonzo spettacolarmente impreciso.
Un po’ abbattuto e stranito dalle folle festive che sbattono contro i teli misteriosi in cui è avvolta, come un’enorme colomba pasquale, la Cattedrale o s’infibbiano nei meandri del Castello tra corsette dei ritardatari che seguono le eroiche guide o giù per la via dei Diamanti a far code per gli Stati d’animo, mi rifugio a religiosamente seguire i commenti politici delle più note trasmissioni politico-culturali. Trovo sempre gli stessi che ripetono all’infinito i loro sortilegi per dipanare la stregata e misteriosa situazione politica. Ma uno mi affascina e per la mise e per il fantasioso linguaggio: il signor Giampiero Mughini. Con fare ispirato descrive la ‘palombella’ di Ronaldo e nello stesso tempo – e giustamente – sprezza e atteggia la bocca a cul di gallina sotto occhiali arancione allorché la conduttrice osa fare accenni alla situazione politica italiana. Leggo che possiede la prima edizione di ‘Canti Orfici’ di Dino Campana e provo un vero morso d’invidia pronto, per possederne uno uguale, a vestirmi come lui. In fondo tre anni soli ci separano.

Il cambiamento d’abito dalla felpetta nera di Salvini è spettacolare. Lo si ritrova avvolto nel più ovvio abito scuro d’ordinanza spiegazzato, camicia bianca e anonima cravatta azzurrognola. E tutte le centinaia di parlamentari, dalla prima esperienza all’ultima, si presentano affettando il disprezzo per la notizia da mollare lì tra caos di trolleys e zaini imbottiti di strepitosi gonfiori (il pranzo da consumarsi alla buvette?). Il Di Maio in corretto e ancor più anonimo completino da laurea anni Ottanta. Perfetto come sempre Gianni Cuperlo. Le ragazze o ex ragazze nulla possono contro l’eleganza strepitosa di Emma Bonino quando esce dal colloquio con il presidente Mattarella. Alcune con aria arcigna, altre con voce lamentosa a negare sempre, sempre, sempre tutto, tutto, tutto come la Santanché.
Insomma un belvedere.

Allora decido. Non mi resta che annegarmi in qualche libro ‘necessario’ e riprendo la lettura interrotta di Chaim Potok, ‘In principio’ (Garzanti, 2003) che racconta la storia dell’autore da bambino nella New York degli anni Trenta.
“Nelle settimane che seguirono la conquista tedesca della Polonia i silenzi di mia madre si fecero più lunghi e più profondi. Continuava a occuparsi delle faccende, ci preparava i pasti, lavava, stirava, cucinava, per lo Shabbat, puliva i pavimenti, cambiava le lenzuola; ma parlava pochissimo e spesso non parlava affatto. E mentre l’Europa veniva rapidamente devastata dall’esercito tedesco, mentre la Danimarca, la Norvegia, l’Olanda, il Belgio e la Francia cadevano, mentre la Battaglia d’Inghilterra infuriava e si spegneva, mentre i tedeschi cominciavano la loro corsa attraverso la Russia smise di leggere le vecchie lettere e, per periodi di tempo che a volte duravano giorni interi, semplicemente non pronunciò una sola parola” (pp.466-67).
Il silenzio contro l’orrore e il coraggio di romperlo quando la scrittura si fa necessità e testimonianza.
Perché smettiamo sempre più spesso di portare avanti questi argomenti?
Cosa ci succede?

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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