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My dad, il mio papà, il mio paparino oltre manica e oltre oceano. Detta cosi non c’è niente di più familiare e rassicurante della DAD, della didattica a distanza di casa nostra. Essere a scuola, ma sentirsi come a casa propria, circondato dal calore e dalle comodità domestiche. Chi non l’ha desiderato in vita sua? E poi, diciamo la verità, fare colazione in fretta, caricarsi dello zaino, prendere l’autobus, o sfiancarti con un chilometro di strada a piedi per raggiungere la scuola, non è proprio il massimo. A casa tua ti siedi a tavolino, accendi il computer e sei in classe. Hai già risparmiato un sacco di calorie e ciò ti rende più disponibile, più attento, meno affranto di quando arrivavi in aula già stanco e ancora assonnato. Diciamo la verità: la DAD, con il trasferimento della scuola a casa propria, è riuscita là dove hanno fallito anni di progetti ministeriali di ‘Star bene a scuola’. Anche gli insegnanti sono più disponibili, non stracciati dalla pendolarità quotidiana, dagli affanni famigliari, specie quelli mattutini, per non parlare dei rientri a casa sempre troppo tardi. Senza tenere conto del sacco di soldi risparmiati tra abbonamenti al bus, ai treni o al metró, merendine, Red Bull e caffè non consumate ai distributori nei corridoi della scuola. Siamo sinceri, tutta un’altra vita.

Raccontiamola giusta, la didattica a distanza mica l’abbiamo inventata noi dell’era digitale, l’ha inventata Gutenberg con i suoi caratteri mobili. La parola stampata è il medium di massa, che ha posto fine alla ‘didattica in presenza’, ovvero alla ‘tradizione orale’.
La formazione per generazioni è avvenuta sempre a distanza: libri, biblioteche, archivi, musei e poi i mass media. Docenti seduti in cattedra e studenti tenuti a debita distanza nei banchi, a scuola come nelle aule dell’università.

I digital learners, giovani di età compresa tra i 12 e i 25 anni, per i quali la tecnologia è qualcosa di assolutamente scontato, non dovrebbero avere problemi con la DAD. Cellulare e computer sono i loro strumenti usuali di lavoro e di divertimento. Allora non nascondiamoci dietro alla DAD o ai problemi psico-sociali dei giovani, per non vedere il naufragio di un sistema formativo che fa acqua in presenza, come a distanza.

Innanzitutto perché non puoi fare andare la DAD con lo stesso carburante della didattica in presenza, finendo col proporne una brutta copia. Se ibrido deve essere l’insegnamento che ibrido sia. Per intenderci, in una auto ibrida l’elettricità è elettricità e la benzina è benzina, entrambe muovono l’auto, ma si tratta di due energie nettamente differenti tra loro e non confondibili.

La didattica a distanza, che ripropone la copia di quella in presenza con lo zapping tra i saperi, altro non è che la negazione della tecnologia a cui i giovani sono abituati, senza considerare come il modo con cui gli insegnanti usano le tecnologie finisce per influenzare e condizionare l’apprendimento dei loro studenti.

Ci si doveva pensare prima quando c’era tutto il tempo e non è stato fatto. Si sono spacciati i banchi a rotelle come innovazione didattica, si sono spese parole nella retorica della adolescenza privata di tutta la strumentazione sociale per risolvere i conflitti di un’età che ci siamo inventati, di un’adultità ritardata, come se avessimo sottratto ad Ulisse la sua possibilità di fare ritorno al proprio “luogo delle origini”, per dirla con il grande psicoanalista inglese Donald Winnicott.

Ma di quale socializzazione scolastica stiamo parlando, quella della competizione, quella del bullismo, quella dello spinello, quella del conflitto scuola-famiglia?
Dov’è la resilienza parola tanto emblematica e consumata in questo ventunesimo secolo?
Tutti i nodi vengono al pettine, e con l’emergenza era inevitabile che esplodessero.

È esplosa una scuola che così come è non serve a nulla. Anzi ci sta rendendo sempre più poveri ed ignoranti. L’attuale sistema scolastico è semplicemente anacronistico, strutturato per essere perfetto in una situazione sociale in cui si passava dall’analfabetismo all’alfabetizzazione del nostro paese, dall’era agricola a quella industriale.

La realtà delle scuole è ancora costituita da classi formate secondo l’età degli alunni, l’orario delle lezioni è rigido, persiste la netta prevalenza della lezione frontale, l’ora di lezione è fatta di alternanza di spiegazioni e interrogazioni, le valutazioni sono affidate al voto numerico. Questo modo di essere si è preteso di riprodurlo a distanza con l’uso delle nuove tecnologie. Ora l’incongruenza di tutto ciò salta agli occhi anche del più sprovveduto.

Si levano gli appelli a invocare il ritorno alla didattica in presenza, a tornare a rinchiudere i nostri adolescenti nella gabbia ottocentesca delle nostre scuole, spacciandole per i luoghi dell’istruzione, dell’addestramento sociale, della condivisione delle crisi e dei conflitti di un’adolescenza che altrove non ha spazi.

Tutti continuiamo a fingere che si tratti di una narrazione vera, perché non disponiamo di altre trame per affrontare i numerosi segnali che ormai da tempo indicano l’invecchiamento del nostro sistema formativo, facendo presagire che manca poco al suo esaurimento.

Come continuiamo a giocare a mosca cieca con i problemi e i conflitti di adolescenze che non si risolvono col condividerli con i compagnucci di classe, i quali hanno il tuo stesso problema, quello di vivere in una società che non si mostra affatto accogliente nei confronti dei suoi giovani. Così le adolescenze bisogna relegarle nelle scuole, perché è l’unico spazio che gli resta, considerato che le prime ad abdicare e delegare sono le famiglie e intorno c’è il vuoto.

Nascondere una scuola che non funziona, una DAD che funziona peggio dietro i problemi dell’adolescenza è una solenne vigliaccata, che non aiuta né gli uni e né gli altri a ricercare la propria identità e a conquistare la propria autonomia.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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