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Le guardo pensoso mentre coloro che le detengono s’aggiustano riccioli e cernecchi. Tutti attenti al passo mentre infilano la porta delle rispettive sedi di partito o movimento: si voltano di scatto e mostrano con sapiente noncuranza facce sorprese e un po’ annoiate. Nella ‘postura’ grande importanza ha lo zainetto portato preferibilmente su una spalla, mentre per magistrati, avvocati e politici legati al diritto e alla legge i media inquadrano la borsa di pelle rigorosamente usurata e assai gonfia. In leggero calo lo sciarpone annodato in molteplici giri (immutabile al collo di Brunetta o di qualche Cinque Stelle di secondo grado). Le facce quasi sempre rigorosamente sporche di barba, che non dovrebbe superare i tre o quattro giorni, evidentissima metafora di uno sprezzo per il viso nudo ormai  appannaggio solo del Presidente della Repubblica. Inoltre si sposa con evidente simmetria al ricciolo scomposto o al cranio perfettamente lucido, antitesi della barba incolta. Ormai detentore del copyright il critico-politico che con un secco colpo della mano s’aggiusta la chioma imbiancata, ma pur sempre fluente.
E mentre corro a rileggermi nelle “Operette morali” il dialogo di Giacomo tra la Moda e la Morte entrambe “figlie della caducità” ripenso a questo straordinario pensiero che fa della moda, anche in politica, una necessità:

“Moda. Benché sia contrario alla costumatezza, e in Francia non si usi di parlare per essere uditi, pure perché siamo sorelle, e tra noi possiamo fare senza troppi rispetti, parlerò come tu vuoi. Dico che la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali.[corsivo mio] Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v’appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi che io fo che essi v’improntino per bellezza; sformare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni, mettendo per costume che tutti gli uomini del paese abbiano a portare il capo di una figura, come ho fatto in America e in Asia; storpiare la gente colle calzature snelle; chiuderle il fiato e fare che gli occhi le scoppino dalla strettura dei bustini; e cento altre cose di questo andare. Anzi generalmente parlando, io persuado e costringo tutti gli uomini gentili a sopportare ogni giorno mille fatiche e mille disagi, e spesso dolori e strazi, e qualcuno a morire gloriosamente, per l’amore che mi portano. Io non vo’ dire nulla dei mali di capo, delle infreddature, delle flussioni di ogni sorta, delle febbri quotidiane, terzane, quartane, che gli uomini si guadagnano per ubbidirmi, consentendo di tremare dal freddo o affogare dal caldo secondo che io voglio, difendersi le spalle coi panni lani e il petto con quei di tela, e fare di ogni cosa a mio modo ancorché sia con loro danno”.

Avrebbe del miracoloso questo elenco di ciò che la moda può, se non sapessimo che quasi sempre la poesia antivede la verità e la consegna al futuro.
Va da sé dunque che la faccia alla moda deve essere necessario complemento del fare del politico in quanto, specie ora nell’età del vedere, chi ti guarda deve ri-conoscersi. Una resilienza, se si vuole usare questo termine così abbondantemente frainteso, che induce il politico a dare di sé un’immagine positiva. Ecco allora che il vestirsi in un certo modo (e tutti noi sappiamo bene come l’immagine di Renzi sia stata dettata da sarti fiorentini che gli hanno ‘cucito addosso’ un’immagine positivamente corretta di un’eleganza borghese, lontana sia dal casual praticato dal suo avversario più temuto, Beppe Grillo, sia dall’uniforme ormai abusata del politico prima Repubblica) rappresenti un’idea del fare politica; perfino un’ideologia.
Certo la scoperta della camicia bianca con manica arrotolata, allegoria assai scontata del proverbio “rimbocchiamoci le maniche”, proviene da un ben più importante uomo politico: quel Barack Obama di cui si è sempre messo in luce il significato metaforico della gestualità, della postura, dell’abbigliamento.
Il gesto meccanico dei politici che quando escono dalla macchina immediatamente s’allacciano il bottone della giacca risulta negativo quando vengono ripresi sul lato B che di solito risulta stazzonato e a volte singolarmente respingente, come per Hollande dotato di una protuberanza quasi imbarazzante.
Il colpo di genio è stato però quello di Angela Merkel che si è inventata un’uniforme a cui adatta anche l’espressione del viso. La qualità dei colori delle giacchette ‘merkelliane’ è risultato vincente in qualsiasi occasione pubblica. Quasi concorrenziale all’elegantissima divisa di scena, su un’idea di Giorgio Armani, adottata dalla nostra Lilli Gruber.

Tuttavia il più condizionante adeguamento della politica alla Moda, leopardianamente concepita, si ha con l’adozione tra le più giovani signore in politica del tacco 12, che porta a ciò che il poeta di Recanati chiama “storpiare la gente colle calzature snelle”. Il durissimo adeguarsi a una moda che richiede sacrificio intenso porta sul volto delle politicanti, dopo i lunghissimi tempi di indossatura di simili strumenti, una piega di dolore, una vacuità degli occhi, un tic che rimpicciolisce le labbra e una smorfia finale che viene finalmente espressa e intesa come condanna e disprezzo accompagnati talvolta da un pensoso scuoter di capo.
E’ vero poi che nel secolo scorso l’intuizione leopardiana si sposta sul binomio moda-modernità. E al proposito si pensi al fondamentale saggio di Walter Benjamin “Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’epoca del capitalismo”, che ora è possibile leggere nell’e-book edito da Neri Pozza. In questo saggio la moda diventa il corrispettivo della modernità cioè, come è stato autorevolmente sostenuto, che attraverso la premonizione del “Dialogo della Moda e della Morte” si arriva a, cito, “una dimensione della cosa come vessazione”, un paradigma della modernità. E come tale corre e si consuma con la velocità stessa del presente.

Sarebbe dunque corretto che il discorso leopardiano si attui nella politica, nella ‘modernità’ della politica.
Tra barbe incolte, crani lucidi e boccoli scomposti s’incornicia il volto della politica al maschile. Tra fluenti capigliatura e tacco 12 quello delle signore della politica.
Comunque se ne pensi è evidente che la Moda è non solo condizionante, ma necessaria all’esercizio della politica.
Sta poi ai miei 25 lettori applicarne i paradigmi ai politici e agli amministratori che conosce.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

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