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Nel 1982 il sociologo francese Edgar Morin nel suo Science avec coscience  propone in tredici diverse proposizioni un nuovo approccio integrato, il paradigma della complessità, fondato su una causalità multifattoriale, e lo mette a confronto con quello della Scienza classica, il paradigma della semplificazione, che si fonda su una causalità lineare causa/effetto, inadeguato a comprendere lo sviluppo del sapere in una società avviata verso la terza fase della globalizzazione. Alle soglie del compimento dei suoi cento anni (è nato nel 1921) lo stesso Morin ha  interpretato, in una intervista rilasciata recentemente all’Avvenire, l’emergenza ecologica e la pandemia alla luce di una tripla crisi: biologica, economica e di civiltà [Qui].
Julia Kristeva, filosofa e psicoanalista di rilevo assoluto, riconosce tre elementi caratterizzanti la crisi dell’uomo globalizzato. Il primo è la solitudine, esaltata paradossalmente dall’iper connessione full time e dal presenzialismo sui social. Il secondo è la cancellazione dei limiti, in un delirio di onnipotenza consumistica seguita da una ricaduta depressionaria, a cui si risponde con l’invito ad ulteriore consumo. Il terzo è la rimozione del nostro essere mortali dalla programmazione inerente il personale progetto di vita. Su Internazionale[Qui] 
Dalla messa in discussione dei concetti assoluti di spazio e tempo ad opera di Albert Einstein, passando per l’introduzione da parte di Heisenberg del principio di indeterminazione, fino al premio Nobel De Broglie con la sua teoria ondulatoria della luce, i nuovi parametri della scienza e del pensiero nella società post moderna sono caratterizzati dalla dinamicità e interdipendenza, dalla complessità.
Le domande poste dalla complessità alla realtà sociale, dalla crisi sistemica e dalla crisi esistenziale all’uomo globalizzato, hanno bisogno urgente di risposte da cercare in regioni da cui trarre nuovi significati, in uno spazio dove possano riconciliarsi posizioni dualistiche non più sostenibili quali mente/corpo, cuore/ragione, spirito/materia , natura/progresso; dove sia possibile diventare “consapevoli del nostro esser parte in ogni istante, nel bene e nel male, di un invisibile e più vasto tessuto dinamico e relazionale tra umani e con altri viventi ”  (S.Manghi, in Dianoia, 23(2016).

La necessità del sacro.

Ebbene, questo spazio esiste, è sempre esistito, ed è quello del ‘sacro’, utilizzato però in questa sede assecondando il significato del suo etimo originario. Sacro è parola indoeuropea che significa ‘separato’. Scopo di queste note è chiarire da cosa. Lontano quindi dall’appiattimento, che abitualmente se ne fa, sulla dimensione religiosa tradizionalmente intesa, qui si intende accogliere la sfida della ‘necessità del sacro’, proposta da un esperto dell’arte della connessione e della flessibilità quale è stato Gregory Bateson (1904-1980). Nato in Inghilterra, figlio di un insigne genetista, sposato con la grande antropologa Margaret Mead, lui stesso antropologo e biologo, contribuì alla fondazione della cibernetica, fu ispiratore di parecchi modelli nel campo della psicoterapia, utilizzati anche dalla scuola di Palo Alto, fino ad arrivare in psichiatria alla scoperta della teoria del doppio legame.
Bateson reinterpreta in modo nuovo il rapporto tra sacro, religione e Fede:
“Due cose sono chiare: primo, che nel porre le domande non metteremo limite alla nostra hybris; secondo, che nell’accettare le risposte ci condurremo sempre con umiltà. Queste due caratteristiche ci metteranno in netto contrasto con la maggior parte delle religioni del mondo, le quali dimostrano scarsa umiltà nell’accettare le risposte, ma grande timore nel porre le domande” (G.Bateson – M.C.Bateson, Dove gli angeli esitano).
Come ricordavamo poco sopra, “accogliere la sfida della necessità del sacro non significa invitare ad una qualche fede religiosa in senso stretto, ma sapere che una qualche fede, che lo sappiamo o meno, alimenta sempre e comunque le nostre percezioni, le nostre parole, le nostre azioni, e apprendere a riconoscerla, ad assumerne la responsabilità verso noi stessi e verso gli altri” (S.Manghi, La conoscenza ecologica, Cortina).
La nostra capacità di comprendere la realtà è stata deformata dalla rappresentazione cartesiana di una separazione tra l’anima e il corpo. Il rigetto di tale posizione orienta Bateson verso un approccio monista alla realtà e lo conduce sempre più a rappresentarsi la mente e la natura come un tutto inseparabilmente unito. Tutto è unito e in relazione, e qualsiasi relazione funziona secondo criteri diversi della logica finalistica mezzi/fini con cui gli uomini vorrebbero governare i loro affari e il loro sapere. Mentre la logica finalistica governa l’agire razionale utilitaristico, determinando i mezzi più adeguati per raggiungere gli obiettivi, la logica relazionale ci svela i rapporti sottostanti (emozioni, sentimenti, dipendenza/dominanza…).
Riallacciandoci al significato di ‘separato’ del sacro, lo concepiamo quindi tale anche dalla Fede, anzi dalle fedi. Il nucleo essenziale è costituito dal valore della Vita nella sua unità. Quindi è un luogo non legato per forza alle coordinate contingenti dello spazio e del tempo, dove anche i linguaggi antichi, oasi di saggezza abbandonate dal pragmatismo dualistico, possono essere ritrovate (si pensi a quello simbolico, alla ricchezza delle immagini metaforiche offerte dal mito e dalla religione).

La costruzione della realtà.

La Fede, il credere è una precondizione del conoscere; noi crediamo in un determinato sistema di conoscenze, in quella abbiamo fede. Da ciò consegue come afferma Heinz Von Foerster che: “non credo in quello che vedo, ma vedo ciò in cui credo” (in Oikos,1,1990). Dove ‘credo’ equivale a che ‘io vedo la realtà’, orientato da credenze e conoscenze che sono in me e che mi portano a ‘costruirla’ in modo soggettivo.
Riportare le diverse Fedi nell’alveo del sacro significa evitare di affidarne ad una sola la patente della Verità, ma  riconoscere ad ognuna che è in sintonia col sacro valore della Vita, una capacità interpretativa del mondo. Il sacro così definito richiede a ciascun soggetto il dovere di assumersi la responsabilità dei propri atti di fede, poiché la religione, come la concepisce Bateson, non postula uno schieramento giusto, né offre alcuna consolazione.

La stupidità non è necessaria.

Nell’epilogo di un suo testo fondamentale, Mente e Natura (1979) ,conversando con la figlia Mary Catherine sulle motivazioni che l’hanno spinto a scrivere e sulla necessità di comprendere la reale natura della fede e della religione, Bateson dice: “Dopo aver rimuginato queste idee per cinquant’anni, ho cominciato pian piano a vedere chiaramente che la stupidità non è necessaria. Ho sempre odiato la stupidità e ho sempre pensato che fosse una condizione necessaria alla religione. Ma sembra che non sia così” (Mente e natura, Adelphi).
Animato dal desiderio di evitare ogni pericoloso ritorno al riduzionismo, ad ogni sorta di fraintendimento semplificante e per dare ragione della complessità delle domande sull’esistenza umana, Bateson negli ultimi anni della sua vita arriva a voler ridefinire più accuratamente il dominio del sacro, di una religiosità che si discosta da ciò che comunemente con essa si intende.

Il coraggio di andare dove gli angeli esitano

Di conseguenza, sempre in Mente e natura, troviamo espressa la sua intenzione di dedicare l’oggetto di un suo prossimo libro all’analisi della questione del sacro, anticipandone il titolo con una descrizione immaginifica ed evocativa: un luogo misterioso, eppure ineludibile, dove gli stolti si precipitano e dove gli angeli invece esitano a posare il piede.
Scrive Bateson: “Penso che il mio prossimo libro mi piacerebbe chiamarlo Là dove gli angeli temono di posare il piede, perché è lì che tutti vogliono che io mi precipiti. E’ volgare, sacrilego, riduzionista, chiamalo come vuoi ,arrivare a precipizio con una domanda troppo semplificata (Mente e Natura). Che è come dire: non è possibile arrivare fin sul precipizio, cioè sostare sul vertiginoso, affacciarsi sull’infinito e lasciare la risposta alla causalità del determinismo scientifico e al rozzo materialismo fisicalista. Purtroppo la malattia, che aveva già da tempo attaccato il suo corpo, impedì che una serie di manoscritti preparatori prendessero la forma di un volume compiuto. Questa opera di ricomposizione fu fatta in seguito dalla figlia e uscì col titolo Dove gli angeli esitano, di Gregory e Mary Catherine Bateson. Il titolo del libro allude ad un famoso verso dell’Essay on criticism, Where angels fear to tread, di Alexandre Pope, grande poeta inglese del 1700. E’ un aforisma la cui traduzione può essere così riportata: “ché gli stolti si precipitano là dove gli angeli tremano di posare il piede”.
Il luogo del sacro quindi corrisponde a dove gli angeli esitano a posare il piede e dove invece gli stolti si precipitano vociferanti, poichè ritengono di sapere la risposta o si accontentano di semplificazioni e riduzioni sommarie.
Il sacro invece è identificato con il silenzio, la contemplazione, l’ascolto di sé e del bisogno dell’altro.
Caratterizza il sacro il ‘non-comunicare‘, proprio nel senso che qui non interessa comunicare la propria ideologia, l’aver ragione, ma rendersi conto di ciò che non esiste per noi. Dimensione contraria a quella riguardante i fatti sociali, dove esiste solo ciò che viene comunicato. Diceva Luhmann “nessun presunto fatto oggettivo, neanche una catastrofe ecologica, ha un effetto sociale finché su di questo non si comunica” (N. Luhmann, Comunicazione ecologica, Feltrinelli). Gli angeli – scelti nella metafora quale presenza che sperimenta la vicinanza con Dio –  sono incerti , perché sono prudenti, in quanto sanno che non c’è sicurezza di sorta in territori così misteriosi. La risposta riduzionistica al contrario si affretta a costruire dogmi, decretando così la fine della Fede. Se la Fede è domanda profonda e responsabile, ricerca continua, il dogma cristallizza la risposta in una Verità unica, trasformandola in ideologia, tanto certa quanto sicura anticamera dell’intolleranza, come afferma Paul Watzlawick (La realtà inventata, Feltrinelli).

Una spanna da terra.

Mary Catherine così, con estrema dolcezza, parla del progetto del padre nella introduzione del libro sopra richiamato:
“Gregory capì di essere prossimo a quella dimensione integrale dell’esperienza cui dava il nome di sacro. Era un terreno al quale si avvicinava con grande trepidazione, sia perché era cresciuto in un ambiente familiare rigorosamente ateo sia perché ravvisava nella religione un potenziale di manipolazione, oscurantismo e divisione. (Dove gli angeli esitano).
Bateson però nella sua ricerca precedente aveva già colto nella domanda religiosa una richiesta di liberazione, che gli scettici non vogliono sussumere, spinti dalla “tendenza, dal bisogno quasi di volgarizzazione della religione, di trasformarla in spettacolo, in politica, in magia, in potere” (Mente e Natura).
Le parole evocative della figlia di Bateson chiariscono non solo lo scopo della sua opera, ma rendono bene la trepidazione del padre che, giunto al termine della sua vita, è consapevole di trovarsi oramai al di là di un confine, il confine del sacro, tra lo spirito e la materia: “Il titolo del libroscrive Mary Catherine Bateson – esprime quindi, tra l’altro, la sua esitazione davanti ad interrogativi che egli sentiva essere nuovi, perché se da un lato derivano e dipendono da suo lavoro precedente, dall’altro richiedono una saggezza diversa e un diverso coraggio. Questo libro è un testamento, ma il compito che esso trasmette non riguarda soltanto me, bensì tutti coloro che sono disposti ad affrontare di petto queste domande” (Dove gli angeli esitano).
Raccogliere la raccomandazione di esitare piuttosto che affrettarsi a dedurre, etichettare, stigmatizzare, significa allegerirci di molte ‘zavorre’, “anche se ci dispiace perché questa zavorra è fatta di saperi, strumenti, piccoli e grandi apparati vantaggiosi per la nostra personale potenza”. Sospettosi verso chi non possiede la nostra verità o verso chi non garantisce una certa ortodossia, preferiamo non entrare in relazione col sacro. Ma per ascoltare il sacro ci deve essere silenzio, bisogna aspettare la pace della sera, dobbiamo accettare di cambiare grammatica e sintassi, dobbiamo ammettere che ciò che si trasforma è, a nostro rischio, il rapporto che abbiamo con noi stessi e con il mondo” (Pier Aldo Rovatti, in Aut aut, n.251,1992).
Dice un apologo zen cheprima dell’illuminazione le montagne e i fiumi sono fiumi; che praticando lo zen le montagne non sono più montagne e i fiumi non sono più fiumi, poi con l’illuminazione le montagne tornano a essere montagne e i fiumi a essere fiumi; ma a quel punto li si vede come da una spanna da terra” [Qui]
Sembra poco una spanna da terra, ma è sufficiente per poter vedere diversamente.

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Roberto Paltrinieri


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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