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Il mondo ribolle, c’è un’importante e generalizzata escalation militare, una corsa continua a rifornirsi di armi e al dispiegamento di forze in alcuni teatri caldi che potrebbero segnare pericolosamente il nostro futuro. Gli osservatori di settore rilevano nel 2021 un aumento della spesa militare e le previsioni per il 2022 vanno nella stessa direzione, tutti dichiarano per “ammodernamento, efficientamento, al semplice fine di deterrenza” ma quando si producono armi, si ammassano truppe e si aumentano le esercitazioni, qualche semplice provocazione, un piccolo incidente, potrebbe diventare la scintilla per un fuoco difficile poi da spegnere.

C’è nel mondo anche una grande presenza di armi nucleari che i paesi più forti dichiarano di deterrenza mentre altri, in difficoltà strategica rispetto al nemico dichiarato, non ne escludono l’utilizzo. Si pensi al Pakistan opposto all’India che è in possesso di risorse offensive preponderanti rispetto allo storico avversario e che quindi in caso di conflitto non ne ha mai escluso l’utilizzo.

I leader politici, quelli affidabili (o presunti tali), non fanno nulla per evitare l’escalation, anzi continuano a lanciare messaggi fuorvianti e ultimatum inutili, buoni solo per rafforzare il potere di pochi ma che non fanno bene alla distensione di cui invece si avrebbe bisogno, in un mondo dove tutti i vecchi ed annosi problemi sono ancora irrisolti. Alle migrazioni forzate e ai respingimenti disumani, alla mancanza di cibo e acqua oppure di istruzione e sanità in larghe fette del nostro pianeta, alla disuguaglianza economica e sociale che dilaga oggi si aggiungono due anni di pandemia globale e una sua gestione a dir poco carente di risultati seriamente spendibili.

Nonostante tutto questo, leader democratici come Biden e Macron e paesi occidentali di cultura moderata come Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca fanno a gara con leader autoritari come Putin e Xi Jinping e paesi intemperanti per posizione geografica come Ungheria, Romania, Ucraina, Bielorussia o eccessivi per paura storica come Lettonia, Estonia e Lituania a chi spara la minaccia più grossa. Dire poi che l’Unione Europea, in questo marasma, ha perso la bussola diventa quasi un eufemismo.

Ma quali sono i luoghi del mondo che riflettono meglio l’euforia da quarta guerra mondiale? Il primo è nell’Indo-Pacifico dove Taiwan potrebbe rappresentare il casus belli. L’attore principale è ovviamente l’America di Biden che si oppone all’espansionismo della Cina. Taiwan è il primo produttore mondiale di semiconduttori ma è soprattutto un simbolo: come potrebbe la Cina proiettarsi verso lo status di potenza planetaria se non riesce nemmeno a controllare le acque intorno a se? Ed è proprio in funzione di questo che gli USA hanno costruito basi militari e un sistema di contenimento basato sui suoi alleati/satelliti ovvero Corea del sud, Giappone e Australia a cui ovviamente hanno aderito la Gran Bretagna e il Canada inviando uomini e mezzi navali. Anche la Francia, già normalmente presente in quell’area e nonostante lo smacco della mancata vendita dei suoi sommergibili all’Australia, ha fatto notare la sua presenza. Del resto la Francia ragiona da potenza.

L’Ucraina rappresenta il fronte caldo europeo. Protagonisti sempre gli Stati Uniti che dettano tempi e modi di opposizione alla Russia di Putin, intenzionato a non cedere altro terreno dopo gli ultimi allargamenti della Nato del 2004 ai Paesi confinanti. La Russia rappresenta il nemico storico e Biden non vuole cambiare atteggiamento, nonostante il pericolo cinese sembri a tutti più pressante e più degno di attenzione. Certo ha uomini e mezzi per poter sostenere le due sfide e soprattutto anche qui, come in estremo oriente, ha alleati pronti a combattere per lui. Politica da grande impero e quello romano ha fatto scuola, a quei tempi le legioni erano composte da barbari che combattevano altri barbari e ai confini c’erano tribù barbare che facevano da “stati cuscinetto”.

Ma mentre non stupisce che le Repubbliche Baltiche, la Polonia e la Romania facciano a gara per offrire basi logistiche e dare ospitalità ai nuovi dispiegamenti americani, sorprendono le mosse di avvicinamento alla Nato di Svezia e Finlandia. Di certo non c’è ancora una richiesta di adesione, come non c’è da parte dell’Ucraina nonostante le tensioni intorno a quella che per ora è solo una lontana possibilità, ma i movimenti navali nel Mar Baltico e le operazioni sulle isole strategiche da parte di questi stati rivieraschi lasciano pochi margini di errore nei messaggi che stanno inviando a Mosca: se difficilmente la Nato si allargherà verso l’est Europa, potrebbe essere molto più realistico un suo allargamento ai paesi nordici.

C’è poi l’Africa. I russi si sono mossi molto bene in Libia, creandosi un loro spazio senza porsi troppi problemi su dove posizionarsi e scalzando francesi e italiani. Paesi questi ultimi impegnati nel Sahel e dove persino la Danimarca aveva inviato 100 militari che hanno dovuto però subito fare dietro front, causa cambio di regime nel Mali. Ma anche in Ciad e in Burkina Faso la situazione è cambiata e i francesi sembrano non essere più desiderati dai loro ex stati coloniali che invece preferiscono i mercenari russi della Wagner. I nuovi dittatori vedono più di buon occhio i russi rispetto all’idea europea della costruzione nel Sahel di stati “democratici” fondati su un modello poco vicino alla loro idea di società.

E l’Italia? Nell’ambito della proiezione a sud, parte della politica strategica del nostro Ministro della Difesa, il cosiddetto “mediterraneo allargato”, ha nell’area del Sahel diverse unità militari, mezzi terrestri e aerei dislocati in Niger e in Mali con un impegno finanziario di poco meno di 100 milioni di euro (dati Milex). Tra i compiti quello di assistenza sanitaria, prevenire l’infiltrazione del terrorismo islamico in Libia nonché di addestramento delle forze armate maliane. Peccato però che, vista la crescente antipatia dei nuovi governi verso i francesi, questi stiano lasciando la zona, seguiti da tedeschi e danesi mentre svedesi e norvegesi stanno rivedendo le loro intenzioni di inviare soldati. Da noi ancora non si è presa una decisione in merito, e poiché non risultano discussioni per un ripensamento di queste missioni, è lecito pensare che stiamo addestrando i soldati dei colonnelli golpisti.

L’Africa comunque è un groviglio di interessi ma probabilmente, data l’assenza dell’interesse americano, non rappresenta per ora una miccia da guerra globale o atomica.

Tornando alla spesa militare, e con i dati dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), abbiamo prova che la spesa globale militare è arrivata nel 2020 a 1.981 miliardi di dollari, un incremento del 9,3% rispetto al 2011 e questo nonostante la pandemia, anzi probabilmente grazie ad essa e utilizzando la possibilità di maggiori spese a deficit precedentemente non permesse. Gli Stati Uniti risultano ovviamente il Paese che spende di più con 778 miliardi di dollari seguito dalla Cina con 252 miliardi, dall’India con 72,9 miliardi e dalla Russia con 61,7 miliardi di dollari.

Aggiungendo ai dati SIPRI quelli dell’Osservatorio sulle Spese Militari Italiane (Milex), si osserva invece che il bilancio previsionale 2022 per le spese militari dell’Italia vede un aumento del 3,4% sul 2021, si sfonda dunque il tetto dei 25 miliardi di euro. Molti fondi saranno allocati alla Marina nella speranza che vengano ben utilizzati per il controllo strategico del Mediterraneo, dove ultimamente si stanno affollando le marine Nato che conducono esercitazioni “disturbate” dal transito di diverse navi russe, anche qui in chiave provocatoria e che, visto l’affollamento, rischiano di trasformare il mare nostrum in una delle possibili micce, al pari dei cieli lettoni, del Mar Baltico o dell’Indo-Pacifico.

Il dato probabilmente più preoccupante, o che almeno dovrebbe esserlo, è la mancanza di conoscenza delle dinamiche di queste operazioni militari e di cosa muove il riarmo. Dovrebbe preoccupare la lontananza di tutto questo dalle reali esigenze dei cittadini, ci dovrebbe spaventare un mondo che si muove al ritmo dei desideri e dei bisogni di un pugno di persone che impegna il futuro inconsapevole di miliardi di esseri umani. Dovremmo essere inorriditi dal fatto che ci siano persone intente a cercare o creare nemici impegnando soldi pubblici che altrimenti potrebbero essere utilizzati per il benessere collettivo.

Illustrazione di copertina a cura di Carlo Tassi

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Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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