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di Alice Ferraresi

Salvatore Rossi ha pubblicato un volumetto – scritto a quattro mani con Anna Giunta – intitolato ‘Che cosa sa fare l’Italia’. In esso (perlomeno, nella parte nella quale dovrebbe avere maggiore competenza specifica, come scopriremo poi), Rossi scrive tra l’altro che il prezzo dei crediti deteriorati attribuito alle banche in risoluzione (tra cui Carife) fu fissato da alcuni funzionari della Commissione Europea “a un prezzo irragionevolmente basso, meno del 18% del valore di libro, utilizzando come benchmark per le poste più significative dati del mercato sloveno”. Un fatto molto grave, visto che è fondamentalmente per questa ragione – ipersvalutazione dell’attivo – che in Carife si è dovuto ipersvalutare una parte del passivo, cioè azzerare parte dei debiti verso i clienti (le famose obbligazioni subordinate, emesse a Ferrara negli anni 2006 e 2007).
Verrebbe da pensare: chi è questo Rossi giustamente indignato e così bene informato sui meccanismi che hanno portato allo scellerato bail in all’italiana? Un giornalista d’inchiesta? Un economista con fonti informative riservate? Un redattore di Report?

Niente di tutto questo. Salvatore Rossi è (da maggio 2013, attenzione) nientemeno che il Direttore generale di Banca d’Italia!
Ma Rossi l’ineffabile non si limita a questo. Scrive anche, nello stesso volumetto, che i tecnici dell’istituto da lui diretto hanno formulato obiezioni scritte al bail in retroattivo che si prospettava in Italia; ma che tali obiezioni non furono prese in considerazione dal Consiglio dei Ministri Finanziari e dal Consiglio Europeo. Ancora: “non si vedeva alcun profilo di violazione delle regole sugli aiuti di Stato” nell’intervento del Fondo Interbancario (fatto approvare dai commissari di Banca d’Italia all’assemblea dei soci Carife il 30 luglio 2015, ndr), “essendo il Fondo un ente costituito da tutte le banche del sistema e da queste finanziato, che interveniva per un interesse privato, ossia per scongiurarne l’onere sicuramente maggiore che sarebbe caduto su di esso, e dunque ancora su tutte le banche del sistema, se le banche in difficoltà fossero state liquidate e avesse dovuto rimborsare tutti i prestiti garantiti”. Purtroppo, scrive Rossi, “ci si è dovuti piegare alla volontà della Commissione per una ragione assai semplice: nel caso di contenzioso davanti alla Corte di Lussemburgo, le norme contabili internazionali prevedono che i fondi apportati dal soggetto in odore di statalità vengano coperti da appositi accantonamenti, rendendoli quindi del tutto inutili”.

Alcune osservazioni sorgono spontanee.
Primo: che cosa faceva Salvatore Rossi mentre il sistema bancario italiano, o almeno parte consistente di esso, naufragava sotto il peso della mala gestio e della crisi? Cosa faceva quando Zonin, padre padrone della Popolare di Vicenza franata sotto il peso delle operazioni baciate prestiti contro azioni, acquistava per oltre 9 milioni di euro palazzo Repeta, allora immobile prestigioso (ma vuoto) di proprietà di Bankitalia? Parliamo del 2014, non di vent’anni fa.
Secondo: se le osservazioni scritte di Banca d’Italia (peraltro non disponibili per la visione) non servono a nulla perché tanto la Commissione Europea non le considera, a cosa serve la Banca d’Italia? Se la cessione di sovranità finanziaria è talmente totale da rendere pregiudizialmente privo di ogni significato anche un ricorso alla Corte Europea, a cosa serve la Banca d’Italia? (verrebbe da aggiungere: a cosa servono il governo e lo Stato Italiano, ma allargheremmo il tema…).
Terzo: come si giustifica la remunerazione del Direttore Generale della Banca d’Italia, nella migliore delle ipotesi ente inutile secondo le stesse deduzioni del medesimo Salvatore Rossi, nella sua veste di saggista fustigatore di costumi? Parliamo di circa quattrocentomila euro.

E’ già abbastanza scandaloso quello che sta avvenendo nel sistema bancario sotto la supervisione di quello che dovrebbe esserne l’organo di vigilanza. Appare addirittura beffardo che il direttore generale di questo istituto si erga a osservatore accademico, con punte ridicolmente “pamphlettistiche” di critica sociale, di vicende delle quali porta una pesantissima corresponsabilità.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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