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Non mi sono mai piaciute le analisi politiche troppo sofisticate, forse per invidia verso chi le sa fare davvero. E ho sempre pensato che le analisi, anche se complesse, debbono portare a facili sintesi, altrimenti non servono a niente.
Per questo preferisco parlare dei risultati elettorali di Ferrara con amici che se ne intendono più di me e che guardano i valori assoluti e non le percentuali. Perché, come dicevano i nostri vecchi, “le percentuali vanno bene la sera in televisione ma, se vuoi capire quanto hai davvero guadagnato o quanto hai perso, devi guardare i numeri veri, seggio per seggio”. Da quel che ho saputo vien fuori una prima sintesi molto netta e semplice: se è vero che la destra a Ferrara ha complessivamente preso gli stessi voti che aveva ricevuto nel 2009 (quando il sindaco di centro-sinistra è stato eletto, sia pur al ballottaggio, con ampio margine), allora non è la destra che ha vinto le elezioni, è la sinistra che le ha perse. A partire dai quartieri tradizionalmente popolari e storicamente di sinistra (non dal Gad, per intenderci).
Questo un primo punto. Non l’onda lunga populista e xenofoba, quanto una marea calante a sinistra. Il “nostro” elettorato, presumibilmente deluso e forse anche peggio, non ha votato la Lega: non ha votato e basta. Se questo è vero (e i dati sembrano inconfutabili), significa che la responsabilità della sconfitta ricade soprattutto sulla sinistra e sul partito che è stato il baricentro della sinistra negli ultimi 15 anni, cioè il PD. Quel gruppo dirigente, infatti, pur avendo avuto forti avvisaglie di quel che stava per succedere nella propria città, non ha voluto o non ha saputo cambiare rotta: la differenza tra le due ipotesi è minima. E ha gestito le elezioni come se dovesse sfruttare un’antica rendita di posizione, piuttosto che fare i necessari investimenti innovativi (sulla politica e sulle persone). Un gruppo dirigente che invece di allargare il fronte del consenso fuori di sé lo ha ristretto alle burocrazie interne. Un gruppo dirigente che, pur essendo giovane, non ha intercettato i nuovi bisogni e le nuove domande della nostra comunità. Limitandosi a ripetere ciò che di buono è stato (sicuramente) fatto in questi anni, senza rispondere al “di più” che veniva richiesto.

Tuttavia, per non giocare a scaricabarile, è giusto dire che questa perdita di sensibilità politica sui bisogni delle nostre comunità non nasce negli ultimi anni. E che non è (solo) responsabilità dell’attuale gruppo dirigente del PD o di coloro che sono stati “bersaniani” la mattina, “renziani” il pomeriggio, “zingarettiani” il giorno dopo, pur di restare in pista e nascondere la loro acerba esperienza dietro l’appartenenza a una corrente. Quel che non ha funzionato è probabilmente (anche in questo caso preferisco una sintesi forte) la miscela costitutiva del PD, ove la somma di due esperienze politiche (quella ex democristiana e quella ex comunista) non ha mai prodotto una nuova cultura di sinistra più larga e più innovativa. Qui non ho dati oggettivi cui riferirmi: solo sensazioni e delusioni, lo confesso.
Io sono stato molto favorevole al progetto di costituzione del PD. A quei tempi ero sindaco in carica e pensavo: “Ma perché mai io e il mio vice sindaco, che lavoriamo bene insieme tutto il giorno, la sera dobbiamo andare in differenti sedi di partito e litigare fra noi per quattro nomine?” Ma il PD non è riuscito a superare questa separazione iniziale fra interessi delle diverse componenti costitutive ed è finito persino per amplificarla. Il PD (anche locale, non solo locale) non è diventato l’amalgama della nuova sinistra di cui c’era grande bisogno (dopo la caduta del muro e dopo tangentopoli) ma solo un luogo in cui le vecchie famiglie politiche si misuravano e dividevano il potere residuo. La mancata sintesi culturale (e organizzativa) è avvenuta prima dell’arrivo di Renzi e ne ha facilitato il successo. E anche lo sperpero delle competenze a vantaggio del criterio della “fedeltà” è iniziato prima del renzismo. Con Renzi, la supremazia dentro il PD della componente non comunista è diventata dominante: sia a Roma che in Emilia, che a Ferrara. Ed è iniziata la “rottamazione” del gruppo dirigente in carica, sostituito dai famosi “cerchi magici”, che di magico avevano ben poco.

Vorrei precisare: io non ho nulla contro il fatto che a un certo punto una generazione più giovane mandi a casa i più vecchi, specie se sono imbolsiti. Ma se i giovani non sono in grado di leggere il cambiamento e allargare il consenso allora (poche frottole!) si tratta di semplice successione dinastica, non di rinnovamento. Non dico che in politica e nelle istituzioni debbano essere introdotti i concorsi per titoli, ma quando il curriculum e l’ esperienza sono molto scarsi, allora il rinnovamento diventa un terno al lotto non un investimento sul futuro. E si lascia spazio a una concorrenza di ancor più basso livello. In molti casi, anche localmente, si è preferito puntare su apprendisti della politica benedetti dall’alto e improvvisate cordate, piuttosto che non sulle competenze dimostrate.

Ma vorrei essere più autocritico che critico. Se queste considerazioni sul PD hanno un fondamento, i nostri vecchi (che distanza tra loro e noi… di sapere, saper ascoltare e saper fare…) avrebbero detto: “inutile che ve la prendiate con chi è diventato padrone di casa, la responsabilità è vostra che gliene avete dato la possibilità senza gnanch dir bao…” E io penso che avrebbero ragione. Anche se non so dire perché questo sia accaduto: se per il declino inesorabile della cultura ex comunista (seppure nella versione riformista e democratica italiana) o per la indiscussa supremazia “gestionale” della componente ex democristiana, oppure per un diffuso opportunismo dei singoli. Sta di fatto che un buon numero di dirigenti PD di grande esperienza e intelligenza hanno preferito confondere il vecchio con il nuovo e si sono messi “al servizio” di un PD meno sociale e più “social”. Un partito in cui, come qualcuno ha detto, “sono più importanti gli elettori che gli iscritti”: ecco, appunto… Per non dire di quei dirigenti che sono scappati dal PD sperdendosi nel nulla invece che far valere all’interno le loro idee e dare battaglia.
Non soffro di nostalgia, ma se qualcuno mi chiedesse: “in cosa le due culture costitutive del PD all’inizio si differenziavano?” Io risponderei che (almeno qui in Emilia) la cultura ex-comunista ha sempre cercato di anteporre il progetto comune alla carriera del singolo, il “cosa è necessario fare” al “che vantaggio ne potrei trarre”. Questa etica, che era inizialmente dominante (malgrado tutte le battaglie e gli scontri anche personali), si è andata progressivamente annacquando e non ha mai permeato di sé il PD. Alla fine, come dicono gli economisti, la moneta cattiva ha scacciato quella buona e il progetto personale o di piccola squadra ha fatto ombra su quello politico.
Su questo punto ognuno può avere opinioni più sofisticate e ricche delle mie. Io mi limito a dire che gli ex “democratici-cristiani” (con il rispetto per molti di loro, cui mi lega vecchia e sincera amicizia) da soli non hanno mai vinto le elezioni a Ferrara. Perché avrebbero dovuto vincere le ultime? Se nemmeno il loro più alto rappresentante (uno dei migliori ministri italiani della cultura) è riuscito a vincere le sue?

Ecco allora le mie “semplici” conclusioni. Nessun rigurgito tardo comunista, no. Ma spetta a quel po’ di sinistra progressista che è rimasta in vita credere che si può rimontare la china: purché si torni a un progetto collettivo, partecipato, condiviso in cui siano gli obiettivi generali a dominare sulle ambizioni personali e non il contrario: l’etica sulla politica politicante, il bene comune sulle carriere, il disegno sulla gestione quotidiana. Che si torni al “sapere ascoltare e saper fare”, perché non è dal numero delle dimissioni che si misura la volontà di cambiamento. E non credo che sia un, seppure auspicabile, prossimo congresso del PD a risolvere il problema.

Lo confesso, anche se è difficile da costruire: sogno un congresso di “coalizione progressista” che si svolga a partire da un ascolto sociale diffuso e dalla definizione di un progetto condiviso sul futuro della città. Non saranno i probabili svarioni della nuova giunta a riconsegnarci il consenso elettorale se i cittadini non torneranno a considerarci un interlocutore attento e affidabile.

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Gaetano Sateriale


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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