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da: Ivana Abrignani

Guardiamo con ammirazione al continuo aumento dell’aspettativa di vita e di buona salute in alcune
parti del mondo, e con allarme al fallimento del miglioramento in altri.

Quest’articolo nasce da una notizia da prima pagina, che riferisce il contagio di un medico italiano
in Sierra Leone, per fortuna il paziente sta bene ci confermano, curato con un farmaco sperimentale.
Mi risuona in mente la rassicurazione da parte dei nostri politici, “Abbiamo macchine e medici
unici al mondo, abbiamo la situazione sotto controllo”, e contemporaneamente la stima di persone
contagiate e morte a “causa”dell’Ebola. Finora sono state circa venti le persone evacuate dai paesi
colpiti dall’epidemia di cui dieci in Europa, in rapporto alle sei mila persone del continente africano;
questo a sottolineare non la gara delle morti, ma l’uso inappropriato del termine “emergenza”, molto
di moda oramai (“emergenza migranti, emergenza sbarchi, emergenza Aids, emergenza Ebola”).
Viene definita emergenza ciò che riguarda gli altri e che prima o poi potrebbe venir a intaccare il
nostro territorio; va da sé che non è difficile associare le “varie emergenze”, dimostrazione di
questi facili scivoloni sono le parole di Beppe Grillo, sul suo blog: «Chi entra in Italia con i barconi
è un perfetto sconosciuto: va identificato immediatamente, i profughi vanno accolti; gli altri, i
cosiddetti clandestini rispediti da dove venivano. Chi entra in Italia sia sottoposto a visita medica
obbligatoria all’ingresso per tutelare la salute sua e degli italiani». Secondo Grillo i recenti
fenomeni globali, dalla diffusione dell’Ebola all’Isis avrebbero contribuito a “produrre flussi
migratori insostenibili”, l’Ebola sta penetrando in Europa ed è solo questione di tempo perché in
Italia ci siano i primi casi.
Così, ad esempio anche l’Australia chiude le porte ai cittadini dell’Africa occidentale per prevenire
l’arrivo di Ebola. Il governo ha infatti annunciato una serie di misure che mirano a sospendere
l’immigrazione proveniente dai paesi più colpiti dal virus, nel tentativo di impedirne l’arrivo sul
proprio territorio. La prima misura è quella dello stop temporaneo al rilascio dei visti per chi
proviene da Sierra Leone, Liberia e Guinea, paesi a cui si applicano i provvedimenti messi a punto
da Canberra.
In risposta all’epidemia di Evd (Ebola virus disease) che ha interessato diversi paesi in Africa
occidentale nel 2014, il Ministero della salute ha emanato nuove circolari per rafforzare la sorveglianza ai punti di ingresso internazionali, la segnalazione e la gestione di eventuali casi
sospetti di Evd, sono state inoltre emanate soprattutto raccomandazioni per viaggiatori
internazionali.
Silvia Testi, reponsabile dell’Ufficio Africa di Oxfam Italia, spiega: «Secondo le
stime della Banca Mondiale la diffusione dell’Ebola costerà alla Sierra Leone 163 milioni di dollari
(il 3,3% del PIL) e alla Liberia 66 milioni (il 12% del PIL). La chiusura dei confini ha ridotto
drasticamente il commercio transnazionale, mentre il lavoro agricolo è stato interrotto, ne consegue
che c’è meno cibo nei mercati locali e quello che c’è è molto più costoso. In alcune aree questo
significa che le persone stanno già fronteggiando una grave scarsità di cibo, soprattutto in Liberia e
Sierra Leone, due paesi dove l’agricoltura è più diffusa».
Indubbiamente, nel corso degli ultimi cinquant’anni si sono verificate grandi trasformazioni
tecnologiche in campo medico, e senz’altro se ne verificheranno ancora. In ogni caso, bisogna
ricordare che i maggiori progressi nella salute e nell’aspettativa di vita del ricco Occidente non
debbono molto a interventi medici ad alta tecnologia. Allo stesso modo, le malattie che affliggono
ancora oggi la maggior parte dell’umanità e continueranno a farlo, in un ipotizzabile futuro, non
richiedono soluzioni tecnologicamente raffinate- semplicemente acqua pulita, cibo a sufficienza,
stipendi decorosi e politici e burocrati moderatamente competenti- e sembra improbabile che gli
sviluppi della biomedicina migliorino significativamente tali aspetti.
A questo proposito, propongo un’intervento di Aldo Morrone, consulente dell’ OMS e del
ministero della salute, sulla questione: «L’Ebola è la punta di un iceberg, e al di sotto di questo
iceberg c’è il disinteresse del Nord del mondo per le malattie infettive che continuano a mietere vite
senza sosta. Vogliamo parlare di Ebola? Benissimo. Prima però, ricordiamo qualche numero. Finora
ci sono stati circa tremila casi di febbre emorragica. Ogni anno la diarrea infantile uccide due
milioni di bambini tra l’Africa e il sud est asiatico, mentre la tubercolosi, trasmissibile per via aerea,
ne fa morire un milione. Le cifre parlano da sole, penso».
.Questo è ciò che la Schoepf chiama “ecologia politica della malattia”, che sarà in larga misura a
determinare perché alcuni individui piuttosto che altri abbiano una maggiore probabilità di
ammalarsi. Chiaramente cattiva alimentazione, riparo inadeguato, assistenza sanitaria inefficace,
contribuiscono a una scarsa risposta immunitaria e una maggiore vulnerabilità a prendere infezioni.
Se, dunque la malattia è spesso legata alla violazione dei diritti fondamentali, allora la terapia
più adeguata è senza dubbio la promozione di quei diritti e della giustizia sociale.
Ecco che qui si inserisce il concetto di violenza strutturale, ovvero quel particolare tipo di violenza che viene esercitata in modo indiretto, che non ha bisogno di un attore per essere eseguita, che è prodotta
dall’organizzazione sociale stessa, dalle sue profonde diseguaglianze e che si traduce in patologie,
miseria, povertà, mortalità infantile, abusi sessuali.
La malattia, la violenza e la morte, sono state spiegate come effetti di inevitabili sventure
casualmente e geograficamente distribuite, come effetti di costumi locali dei paesi del terzo mondo,
più che in termini di differenze di distribuzione del potere tra paesi e gruppi sociali. Se, la violenza
strutturale affonda le sue lame attraverso la limitazione della capacità d’azione dei soggetti che
occupano le posizioni più marginali all’interno dei contesti segnati da profonde diseguaglianze
sociali, ecco che l’Ebola, l’Hiv, la Tubercolosi, la Violenza politica e di genere, le Discriminazioni
razziali vengono a configurarsi come specifiche modalità in cui la sofferenza sociale si materializza
nella vita delle persone, come incorporazione di più ampi processi sociali: la natura viene così
socializzata, il corpo emerge a processo storico, il rischio statistico e un beffardo destino si
trasformano in responsabilità politica. A questo punto si può parlare di vere e proprie “patologie del
potere”, di cui la biomedicina coglie tracce individuali, attraverso un linguaggio riduzionistico,
senza però riuscire a far luce sul processo che ne costituisce l’ampia realtà.
I toni sono di allarme e preoccupazione: “Misure di sorveglianza per contrastare la diffusione
dell’Ebola” è il titolo di una delle circolari che il Ministero della Salute ha emesso in questi giorni,
ma il problema riguarda i crescenti sbarchi di immigrati provenienti dalle coste africane che
potrebbero portare da noi malattie gravi come l’Ebola e la Tubercolosi.
In particolare si stanno prendendo misure di protezione sui punti internazionali d’ingresso: porti,
areoporti, frontiere; mari, cieli e terre di un unico universo.
Il fatto stesso che l’Ebola venga definita esclusivamente, riducendo, per questioni logistiche, ai
minimi termini lo studio antropologico al riguardo, nella sua accezione bio-medica quindi mera
patologia (disease), e neanche lontanamente individuale (illness) e sociale (sickness), dovrebbe farci
riflettere. Non tenere conto anche di questi significati, può pregiudicare gli “aiuti” che offriamo a
questi paesi, poichè del resto la malattia non è altro che un riassunto che mette insieme dei fatti
proiettandoli sul palcoscenico del corpo.

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Riceviamo e pubblichiamo


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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