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Mentre la scuola sui banchi a rotelle corre verso il collasso, a settembre tornerà in cattedra l’insegnamento dell’educazione civica dai tre ai diciott’anni. Educazione civica è un binomio che non mi piace. Non mi piace “educazione”, non mi piace “civica”. Innanzitutto perché si chiamava così già nel 1958, quando fu introdotta nell’insegnamento a partire dalle medie, lasciando fuori l’avviamento professionale e la scuola elementare, che ancora aveva la religione cattolica come “fondamento e coronamento dell’istruzione”.

Sessantadue anni dopo si presume che paese, scuola e mondo siano profondamente cambiati e con loro le categorie e i paradigmi con cui guardarsi intorno. Ci si poteva almeno preoccupare di segnare la differenza. In compenso la distanza l’ha marcata, nel frattempo, la sociologia, facendo della dimensione “materiale” della cittadinanza l’oggetto dei suoi studi.

Educazione poi richiama ‘conformismo’, ‘forgiare’ e ‘plasmare’ secondo un modello che deve rendere tutti uguali, con finalità che sono state predefinite altrove, lontano dai progetti di vita delle persone. Una dimensione da ‘educazione nazionale’, di cui la storia del secolo che ci siamo lasciati alle spalle si è già incaricata di denunciare tutti i possibili effetti deleteri.

Civica: civis, il cittadino. Il ‘civis romanus’ distingueva il cittadino romano da chi cittadino non era. La nostra Costituzione, al contrario, non compie questa discriminazione, tutela la cittadinanza anche di chi cittadino non è, perché straniero.

Cittadinanza possiede una valenza più ampia di cittadino, perché esprime l’azione dell’individuo nel contesto della comunità politica, segna la linea di demarcazione tra il cittadino passivo e il cittadino attivo. Si può essere cittadini modello, rispettosi delle leggi, delle norme e dei regolamenti e non praticare la cittadinanza, perché impedita, quella che oggi rivendichiamo come cittadinanza attiva.

Un’idea di educazione civica, dunque, troppo parente del ‘law and order’. Il sospetto è che a ispirare la legge sia stata questa preoccupazione inconfessata di fronte all’incapacità di ricomporre un tessuto sociale che si va sempre più lacerando. E poi perché tornare a irrigidire il tutto nel nozionismo e nella valutazione, come una sorta di secondo voto in condotta. Tutto era già scritto prima in Cittadinanza e Costituzione delle Indicazioni Nazionali. Una pratica alla cittadinanza da crescere e vivere con coerenza, a partire dalla organizzazione della vita scolastica e dalle relazioni al suo interno, fino alla trasversalità disciplinare e ai rapporti con il territorio e con il mondo. Non un’educazione, ma un apprendimento permanente, un modo d’ essere, di vivere da esercitare ogni giorno a scuola come in famiglia e nella società.

Non era l’educazione civica che doveva entrare a scuola, semmai era la scuola che doveva incontrare l’educazione civica fuori, nella società, nelle relazioni con il territorio, nella coerenza delle condotte, nella gerarchia dei valori, nell’organizzazione e nel modo di funzionare delle istituzioni, nel loro rapportarsi con i cittadini, a partire dai giovani. Un apprendimento diffuso nel tessuto della società e dei luoghi dell’abitare. Perché se questo manca non c’è educazione civica che possa funzionare. Mentre il cittadino è quello che rispetta le leggi, che sta alle regole, la cittadinanza è molto di più, perché la cittadinanza è anche assunzione di responsabilità.

Nella legge e nelle linee guida ministeriali per l’insegnamento dell’educazione civica non compaiono né l’etica né  il ‘bene comune’. Si parla dei “beni comuni”, ma si tace del “bene comune”, della responsabilità che ognuno porta nei confronti di sé e degli altri, il labile confine tra l’osservanza della legge e l’etica delle condotte. L’etica, terreno delicato soprattutto per il rapporto tra giovani e adulti, per la coerenza dei comportamenti di questi ultimi, la loro testimonianza, la pratica dei precetti che si intendono inculcare con l’educazione. Etica e bene comune avrebbero dovuto occupare il centro della formazione ‘civile’ dei nostri giovani. Civile in quanto educazione alla convivenza.
Ma non è così.

Forse si è trattato di un ‘lapsus freudiano’, perché avrebbero messo in imbarazzo la credibilità degli adulti e del paese. L’etica della cosa pubblica violata dalle forze dell’ordine alla magistratura, dalle istituzioni alla politica, dalla corruzione all’evasione fiscale, dove non pagare le tasse od esportare i soldi nei paradisi fiscali è da furbi. Per non parlare dei mali endemici, dai segreti di stato, alle stragi di cui ancora non si conoscono i mandanti, fino alla ‘ndrangheta, mafia e camorra e la loro connivenza con gli apparati deviati dello stato.

L’etica per Aristotele è una scienza eminentemente pratica, dove il sapere deve essere finalizzato all’agire. Il ‘sapere’. Ecco ciò che rende debole questa idea di educazione civica. Perché a fare la differenza con la società del 1958 è proprio il sapere. Quelli erano ancora gli anni della alfabetizzazione, la scuola di massa neppure era all’orizzonte.
Oggi l’educazione permanente ha superato, almeno in teoria, la scuola di massa, siamo entrati nell’epoca della “società della conoscenza”, quella che l’Europa ha proclamato vent’anni fa con il Memorandum di Lisbona, ma che legge e linee guida ministeriali ignorano.
Società della conoscenza, perché nel ventunesimo secolo il sapere è divenuto la questione centrale di ogni cittadinanza. Possedere il sapere in continua evoluzione, per essere in grado di orientarsi nella complessità che cambia rapidamente la geografia dei pensieri e del mondo, possederlo oggi è la chiave di tutte le democrazie e dell’esercizio dei diritti della persona.

Non è sufficiente ricordarsi di fare oggetto di studio l’Agenda 2030 dell’Onu, semmai citando la questione della sostenibilità ambientale per poi tacere della sostenibilità sociale, dalla parità di genere, alla lotta all’omofobia e alla transfobia, fino al fenomeno epocale delle immigrazioni. Apprendere ad essere cittadini significa innanzitutto essere culturalmente attrezzati per districarsi tra complessità e molteplicità sempre più crescenti, per governare le contraddizioni, per penetrare oltre la superficie delle cose, per essere capaci di orientare il processo di costruzione del proprio sapere.

Se la nostra scuola non sa fare questo prima di ogni altra cosa, nessuna Costituzione, per quanto robusta, come nessuna Agenda 2030 potranno colmare il vuoto di formazione, di autonomia e di libertà delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, né potranno garantire un futuro sostenibile per l’ambiente, la società e l’economia.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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