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A Francesco e Carla

La casa era grande e fatta di pietre. Anche la scala che le girava intorno era di pietra e finiva al primo piano in una vasta terrazza. Da tutte le finestre vedevi la montagna di un Appennino né dolce né aspro. Perfetto, come solo in Toscana riesce ad esserlo, quasi per vocazione. I prati, non ancora bruciati dal freddo, erano interrotti dalle ginestre, si alternavano ai castagni, alle farnie, pochi ulivi e isolati alberi da frutto. Vicini o più distanti i paesi medievali dai nomi illustri, non lontano, in mezzo alla piana, ma invisibile dalla casa, Arezzo.
La casa e gli amici erano quanto di più affettuoso si possa immaginarsi. Erano finiti lassù da non molti anni e avevano fatto come le api, avevano curato in ogni minimo dettaglio l’esterno, il prato in pendenza, il viale d’accesso, il taglio degli alberi stranieri e le nuove piantate di alberi autoctoni. E all’interno, a piano terra e al primo piano, diffondendo armoniosamente mobili, stufe, libri e oggetti familiari.
Durante il giorno avevamo vagato per campi e paesi, in macchina e a piedi, verso il crinale della montagna, seguendo il filo della Linea Gotica. A sera, vicino alla stufa economica, si mangiava e si parlava. Di ricordi e cose molto vecchie, e dei ragazzi, così confusi e spaventati, del futuro che vattelapesca cosa mai o molto poco gli potrà riservare. E naturalmente di Piero della Francesca. E della natura che qui ti circonda dai quattro lati. Dei vicini di casa simpatici o strambi, dei tanti inglesi che qui hanno scelto di metter su casa. Ma anche e inevitabilmente, perché siamo a pochi chilometri dalla Linea Gotica, dell’ultima guerra, di quando i tedeschi scappavano e gli alleati risalivano, con molta calma, un’Italia spaccata in due come una mela.
Durante l’ultimo anno di guerra fu il capitano dell’8° Armata Tony Clarke, contravvenendo agli ordini e per amore del bello, a salvare San Sepolcro e le opere di Piero della Francesca. Amava Piero e la sua Resurrezione, o semplicemente era convinto che i tedeschi si fossero già spostati un po’ più a nord, verso Pieve Santo Stefano, là avevano intenzione di attestarsi, resistendo fino a quando fosse pronto quel tratto di Linea Gotica appena qualche chilometro sopra il crinale. Così San Sepolcro si salvò, mentre Pieve Santo Stefano fu rasa al suolo, distrutta non dai bombardamenti americani o dai mortai inglesi della 43° Divisione Corazzata Falco, ma dalle mine che i tedeschi fecero brillare come se il paese fosse una cava di arenaria. Il paese si sbriciolò in ogni sua pietra. Resistere all’avanzata alleata era più facile dietro trincee di macerie piuttosto che scavando buche, e a da quella posizione, da quello che era stata Pieve Santo Stefano e ora era solo un cumulo di sassi, potevano controllare tutta la valle del Tevere. Quell’inverno e quella primavera non finivano mai, la Linea Gotica fu abbandonata solo nell’aprile del 1945. Quando gli abitanti di Pieve Santo Stefano, sfollati nei borghi vicini o nelle campagne, tornarono alle loro case, non ne trovarono in piedi nemmeno una.
Mi raccontano gli scontri a fuoco, le rappresaglie, gli eccidi di cui trovo nomi, date, croci e distratta memoria in tante lapidi, nei crocicchi, ai bordi delle strade, nelle piazzette delle contrade, nei paesi più grandi, magari accanto alle statue o ai ricordi del passaggio vero o presunto del generale Garibaldi. Gli eccidi, le rappresaglie, le hanno fatte i tedeschi ormai allo sbando e in affannosa ritirata, con i panzer senza più nafta e riadattati con rudimentali caldaie a legna, improvvisamente spaventati della loro stessa paura, per la prima volta dubbiosi di poter tornare a casa.
La strage più vicina? E’ appena dietro quel monte, a pochi chilometri, dove una volta c’era e ora non c’è più il borgo di Val Lucciole, un nome così incongruo per una storia così atroce. All’alba del 13 aprile ’44 la famigerata Divisione Hermann Goering eliminò per rappresaglia tutto il paese, 107 persone in tutto. Ma in tutta la valle, e nelle valli vicine, è morto un numero impressionante di persone. Civili, e soldati tedeschi, partigiani, inglesi, tantissimi pakistani in forza alle forze alleate e che i comandanti britannici mandavano ad aprire le vie e a prendersi le pallottole. Questa terra ha avuto sangue e concime per molti secoli a venire.
I racconti, le parole e il vino sono finiti, almeno per questa sera. I cari amici mi accompagnano nella mia stanza, con un ultimo scherzoso avvertimento: “Se questa notte senti un rumore infernale in giardino, fin sulle scale della terrazza, non spaventarti, sono solo i cinghiali che scorrazzano. Sono loro i padroni della montagna, bisogna farci l’abitudine”.
Leggo per pochi minuti, la mano che tiene il libro spunta appena dal piumino. Provo ad ascoltare le voci del bosco, un ultimo gioco fra me e me, e sento che per vincere a quel gioco mi basterebbe una sola foglia contro il vetro, un cane dalla collina di fronte, ma c’è un silenzio compatto, primitivo. Il libro fa un volo leggero dall’altra parte del lettone, mi addormento di colpo come un bambino piccolo.
Cerco con qualche affanno il cellulare seppellito nelle pieghe del piumino, buio pesto, sono le tre e mezza. Ora sono seduto ritto sul letto, perfettamente sveglio e ascolto quel rumore tremendo, sfacciato, infinito, infernale come ha detto il mio amico la sera prima. Cerco di localizzarlo nel buio. Si sta avvicinando alla casa, diventa più forte, si frange in molti suoni e toni discordanti, nemici tra loro ma che si sommano in un unico ringhioso muggito. Il branco di cinghiali padroni della montagna.
Ora sono davvero vicini, salgono la scala esterna, raspano contro la porta finestra. Ma non sono cinghiali, e neppure lupi, in un attimo ne ho la certezza. Dentro quel rumore sento cose che con i cinghiali non possono accordarsi in nessun modo. Sento una risata, un battere di mani e alcune parole, frasi concitate, altre risate. Sento gridare Schnell Schnell. E in dialetto toscano: Siamo arrivati prima noi. In uno strano inglese: Very well. come one, let’s do it again. Un’altra voce italiana ha un accento del Sud, forse calabrese: Sì, però ora tocca a noi nasconderci.
Mio dio, non sono cinghiali. Sono i civili trucidati e i fantaccini innocenti, i mille morti della valle che giocano fra loro a nascondino o a moscacieca. Possono giocare, finalmente l’orrore è finito. Mi alzo di scatto, afferro la maniglia della porta finestra, apro il vetro, ascolto ancora dietro le persiane. Ora stanno ripartendo di corsa, si allontanano, le voci sono inghiottite dal buio.
Dalle persiane della mia stanza filtra la debole luce invernale dell’alba. Mi alzo e vado in cucina. Dentro tutte le finestre c’è un muro di nebbia. Bevo un bicchiere d’acqua. Non si sente più alcun rumore.

Racconto inedito, proprietà dell’autore.

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Francesco Minimo


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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