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Secondo il rapporto Eures, nel 2019 i femminicidi in Italia sono stati 95. L’ultima vittima dello scorso anno si chiamava Elisa, strangolata in casa dal marito mentre le figlie dormivano. Oltre l’85% dei casi di femminicidio avviene tra le mura domestiche per mano di un compagno o ex compagno della vittima. Dal 2000 a oggi le donne uccise in Italia sono state 3.230, di cui 2.355 in ambito familiare e 1.564 per mano del proprio compagno. Nel 2018, le donne uccise sono state 142, una in più dell’anno precedente. Il 2019 ha registrato dunque 47 vittime in meno del 2018, ma anche  un aumento degli episodi di stalking. Una situazione davvero triste e che colpisce sempre per la sua violenza, la sua sistematicità, la sua capillarità sul territorio.

Più se ne scrive e parla e più sembra che la situazione non migliori, anzi. Credo che le cause dello scatenamento di tale violenza siano ormai conosciute e si possano riassumere in:
– una cultura sessista che perpetra l’idea del maschio ‘padrone’;
– una educazione dei bambini che (a volte) associa all’idea di maschio quella di violenza, aggressività, arrivismo;
– una interiorizzazione del ruolo maschile come soggetto dominante che poi non trova attuazione nella vita reale in quanto le donne chiedono parità, ma l’uomo educato e socializzato come prepotente (e quindi in uno stato di grande fragilità) non può accettare tale richiesta;
situazioni di grandi degrado: spazi non sufficienti, presenza di più generazioni di persone nella stessa abitazione, matrimoni spezzati e ricuciti e ricuciti ancora che creano problemi relazionali a tutti;
– il problema del lavoro come agente d’identità maschile quasi esclusivo (senza lavoro un uomo rischia di sentirsi una nullità in quanto la sua socializzazione l’ha addestrato alla esclusiva funzione di capo branco);
– l’incapacità del maschio di sopportare l’abbandono e il tradimento, da qui la conseguente vendetta piena di odio e rancore.
Ci sono poi anche dei casi limite che rasentano la follia più assoluta: rapimenti dei figli, uccisione dei figli con conseguente annientamento dei cadaveri, omicidi e suicidi in contemporanea.

Esistono centri specializzati per le donne vittima di violenza; Provincie e Commissioni sulle P.O. gestiscono centri di ascolto, counseling, sportelli di orientamento e, con il supporto del terzo settore, comunità di accoglienza. Il Ministero delle Pari Opportunità mette a disposizione ogni anno molti soldi per il contrasto al fenomeno.
Eppure la situazione non migliora. Non migliora e non si riesce a farlo emergere. Le donne che subiscono violenza sono spesso confinate all’interno delle loro mura domestiche, hanno un lavoro, ma questo non garantisce loro sufficiente autonomia decisionale, sufficiente forza per ribellarsi. La violenza subita tende a essere giustificata da una personalità femminile che si annulla nell’obbedienza a tutti i costi, nella spasmodica ricerca di un senso a una quotidianità che, di suo, sarebbe assolutamente inaccettabile. Le ‘botte’ diventano meritate e ci si tormenta sullo sbaglio commesso come causa dell’evento drammatico.
C’è una alterazione del meccanismo di causa-effetto. Siccome nessuno di noi può sopportare degli effetti senza una causa riconosciuta e soggettivamente legittima, l’attribuzione di causa diventa ‘strana’ e si orienta su predisposizioni interiori del soggetto che subisce la violenza. Per farla breve, la persona che subisce violenza arriva in molti casi a pensare di essersela meritata e che un suo comportamento diverso potrebbe cambiare la situazione. Per acquisire consapevolezza che si è vicino all’annientamento della personalità e alla traslazione soggettiva del principio di causa-effetto su oggetti non reali, ci possono volere anni, a volte non ci si riesce mai.

Ci sono anche casi in cui la donna è riuscita, dopo molte sofferenze, a ribellarsi, ad andarsene da casa, a chiedere il divorzio. Alcune di queste donne coraggiose sono state uccise. La nostra società con tutti i suoi servizi, tutti suoi esperti e le forze dell’ordine dedicate non è riuscite a proteggerle. E loro sono morte lasciando bambini e famigliari disperati.
Quindi una dei primi auspici è che si aumenti ulteriormente la tutela delle donne che hanno cercato, dopo travagli interiori indicibili, di andarsene.

Una seconda questione fondamentale è quella dei luoghi dove si può davvero intercettare il fenomeno. Bisogna conoscere e mappare i luoghi dove le donne si ‘confidano’: parrucchieri e estetisti sono molto più aggiornati dei centri preposti a tale funzione. E’ più facile che una donna con questo tipo di problema  si confidi con il suo estetista, piuttosto che con qualcuno che non conosce e di cui non si fida (anche se ha ufficialmente una funzione coerente). Le persone in forte stato di disagio sono molto diffidenti. Tendono a non fidarsi di nessuno. Hanno paura. I luoghi dove davvero si possono intercettare donne maltrattate sono quelli informali da loro abitualmente frequentati, all’interno  dei quali agiscono  soggetti di cui loro si fidano. E’ qui che si può/deve intervenire in maniera più radicale e capillare con la speranza che possa essere, almeno in alcuni casi, risolutiva. E’ il lavoro quotidiano sul territorio che, almeno in alcuni casi, paga.

L’ultima nota riguarda una esperienza di femminicidio che ho visto da vicino: una donna uccisa dal marito. L’uomo è attualmente condannato all’ergastolo. Una situazione in cui la donna si era ribellata, aveva lasciato il marito che la riempiva di ‘botte’ e  vissuto protetta per alcuni anni in una comunità di  Brescia. Poi aveva provato a ricostruirsi una vita affittando un appartamento sempre a Brescia, dove era andata a vivere con i suoi bambini. Il marito è riuscito a trovarla e l’ha uccisa. Molte persone sapevano, conoscevano la situazione, ma chi ha provato ad aiutarla non ha trovato la giusta strada, non ha saputo mettere in atto tutti sistemi di protezione necessari. Il problema è radicato in quanto riguarda il nostro tessuto sociale, il nostro stile di relazione, le nostre forme di tutela del disagio e i nostri standard istituzionali di risposta. L’intervento possibile va ripensato partendo dal coinvolgimento dei soggetti informali del territorio che davvero conoscono le situazioni drammatiche sommerse.  Siamo alle prese con un problema molto serio che necessita di ripensamento sia delle cause che delle risposte.

Secondo il CNR (indagine CNR- IRPPS su rilevazioni del 2017) sono complessivamente 338 i centri e i servizi specializzati nel sostegno alle donne vittime di violenza, ai quali si sono rivolte almeno una volta in un anno 54.706 donne; di queste il 59,6% ha poi iniziato un percorso di uscita dalla violenza. A quanto pare, questa organizzazione e questo tipo di risposta seppure ben strutturata, non basta, serve altro, serve l’aiuto di tutti coloro che davvero sanno.

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Catina Balotta

Sociologa e valutatrice indipendente. Si occupa di politiche di welfare con una particolare attenzione al tema delle Pari Opportunità. Ha lavorato per alcuni dei più importanti enti pubblici italiani.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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