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Una importante conferenza tenuta da Fiorenzo Baratelli a conclusione del ciclo “Europa, una vecchia, buona idea” programmato dall’Istituto Gramsci di Ferrara e dall’Istituto di storia contemporanea era imperniata sul testo, ormai un classico ,di Norberto Bobbio, Politica e cultura in cui il grande filosofo dialogava con gli intellettuali più rappresentativi della propria generazione, comunisti e non, e proponeva la sua idea di di politica della cultura che, commenta Baratelli, è “la politica degli uomini di cultura in difesa delle condizioni di esistenza e di sviluppo della cultura” in opposizione a ciò che Bobbio chiama la politica culturale che è sempre nelle parole di Baratelli “la politica fatta dagli uomini politici per fini politici” In altre parole, la cultura come libero dialogo la prima, mentre la seconda si presenta come cultura fatta dalla politica per fini politici. Proviamo ora ad analizzare alcune delle scelte che la politica ferrarese nelle sue istituzioni ha perseguito nel tempo in cui sono stato testimone diretto, vale a dire quella operata tra la fine degli anni Sessanta del secolo scorso e la contemporaneità. In quegli anni nasce il progetto di intervento (e il conseguente forte interesse politico culturale) sul grandissimo patrimonio che la città e il suo territorio offrivano. Un immenso patrimonio ancora non sfruttato adeguatamente ma segnalato dall’azione di un eroico gruppo di intellettuali di estrazione borghese che vanno da Luciano Chiappini a Giorgio Franceschini, dalla figura carismatica di Giuseppe Minerbi a quelle di Paolo Ravenna e Carlo Bassi, da Franco Giovannelli ad Adriano Franceschini, da Franco Farina al musicologo Adriano Cavicchi, al gruppo dei giovani artisti che all’interno dell’Istituto d’arte Dosso Dossi seguendo le scelte di Nemesio Orsatti o di Gianni Valieri elaborano una originale proposta artistica e sono Goberti, i fratelli Bonora, Sergio Zanni. In concomitanza, fuori le mura, i ferraresi “emigrati” raggiungono notorietà nazionale e internazionale: Giorgio Bassani, Michelangelo Antonioni, Florestano Vancini, Guido Fink, Roberto Pazzi o “i ferraresi” che provengono da altre terre e da altre esperienze: Giuseppe Dessì, Claudio Varese, tra gli altri, accomunati nel momento delle grandi speranze dell’immediato dopoguerra. Nel decennio di fermento tra il Sessanta e il Settanta del secolo breve Ferrara con l’aiuto determinante dell’amministrazione di sinistra che, dal dopoguerra a oggi, caso quasi unico nel panorama italiano, ha governato ininterrottamente Ferrara, si attuano progetti vincenti: il restauro del Teatro Comunale sede di sperimentazioni audaci e fondamentali dal Living Theatre a Carmelo Bene da Luca Ronconi a Claudio Abbado con la stanzialità delle giovani orchestre da lui formate. Sono gli anni dello sperimentalismo delle mostre del Palazzo dei Diamanti ideate da Franco Farina che accanto alla minuta esplorazione della cultura figurativa dei ferraresi a cominciare da Boldini propone artisti indimenticabili che hanno fatto il Novecento: Vedova, Burri, Piero Manzoni tra gli altri. Nasce il progetto del restauro delle mura e la fama mondiale di Bassani accende i fari sulla nostra città. In quegli anni sembra che le istituzioni imbocchino la strada della politica della cultura. Gli artisti di qualsiasi provenienza hanno accesso alla utopia di quel grande progetto che negli anni Ottanta-Novanta si trasforma in quello slogan fortunato “ Ferrara città d’arte e di cultura” in cui tuttavia poco alla volta la formula della politica culturale fatta da e per i politici prevale sul primo intento. Una svolta che si concretizza anche nella scelta di affidarsi quasi esclusivamente per il management economico alla banca di riferimento: la Cassa di Risparmio di Ferrara e in seguito alla Fondazione Carife. Ecco allora che due istituzioni molto forti e motivate investono nella cultura senza un dialogo con altre realtà. Il sostanziale disinteresse dell’industria privata alla esigenze della cultura, la conflittualità dei commercianti che non vedono alcun riscontro economico nell’investire in cultura sono tra i principali se non unici motivi della sclerotizzazione in politica culturale del primitivo progetto. La ricchissima e meritoria schiera delle associazioni culturali che si danno da fare in modo commovente e degno di rispetto e di plauso si adoperano in modo esemplare a svolgere il loro compito. Chiedono tavoli di confronto, sinergie, ma soprattutto di essere messe al corrente della progettualità culturale della città, ma sostanzialmente vedono eluse le loro richieste. Hanno la porta spalancata nei luoghi storici dove possono svolgere la loro attività, sono ospitate in diverse sedi, alcune molto prestigiose, altre in un anonimo appartamento di proprietà della Cassa di Risparmio che ora dopo le note vicende chiede l’affitto! E come forse si temeva quel sistema di politica culturale crolla per una duplice causa: la crisi economica e il terremoto. Si fa largo quella decisionalità dei tagli orizzontali che al grido del “non ci sono più soldi” compie una serie di ridimensionamenti in cui la cultura (intesa come fatto politico) subisce una pesante sconfitta perché in fondo è considerata l’ambito meno pressante di cui ci si deve occupare. Si abbandona la via della progettualità e si tagliano senza confronto e con scelte spesso univoche le grandi imprese culturali che avevano sollevato la città da quella quieta grandezza che era stato il suo stato e il suo fascino. D’altronde chi può dar torto a un’amministrazione che per salvare i servizi essenziali, scuole, biblioteche, archivi decide di disfarsi di progetti considerati “faraonici” quali Ermitage Italia che aveva stanzialità e rappresentanza a Ferrara o il ridimensionamento dell’Istituto di Studi Rinascimentali che perde la sua autonomia economico-culturale per diventare formalmente ufficio dei Musei d’arte antica o il drastico ridimensionamento degli spettacoli teatrali? Ciò che appare stridente e non accettabile è che le scelte vengono fatte attraverso una politica culturale autoreferenziale e non certo attraverso la politica della cultura che li aveva ispirati. In questo momento la cultura è sconfitta nella sua progettualità e penso a un libro di forte impatto: Quando si pensa in grande una raccolta di interviste di Rossana Rossanda che difende l’idea del “pensare in grande” come utopia vincente. Da qualche tempo, ma non solo nell’attuale amministrazione, il pensare in grande sembra sia un pericolo che deve essere evitato in nome dei conti in ordine, del concreto aiuto a chi non riesce ad arrivare a fine mese o perde il posto di lavoro. Pensiero nobile e degnissimo che, a mio parere, non dovrebbe però cancellare nel futuro ciò che oggi non appare possibile. Lasciarsi aperta una via che rimandi a tempi meno miserandi l’attuazione dei progetti nati come “politica della cultura”. Dialogare, progettare, discutere non costa nulla. E si creano sinergie. Ma un carattere tipico degli italiani è avere la memoria grigia. Sembra quasi che sia meno pericoloso cancellare ciò che un tempo è stato oggetto di adesione e di convinta politica culturale (ciò che ho sentito sulle “spese pazze” degli spettacoli di Ronconi, dei concerti di Abbado, delle pubblicazioni dell’ISR docet). A mio modesto avviso non si demonizza ciò che ha fatto crescere la città, che le ha permesso di porsi al passo con quelle altre città che dal loro passato hanno saputo cogliere i semi di un’autorevolezza conquistata nel libero scambio di idee: Mantova e il festival della letteratura, Modena e il festival della filosofia, Ravenna e il Ravenna festival, per citare alcuni esempi a noi vicini. Ma in questo ripiegamento del pensare in grande non è solo la politica che ci perde ma la città intera divisa e combattuta come ben racconta il memorabile affresco di casa Minerbi dove le lotte interne della città murata simbolicamente rappresenta una “ferraresità” che mi pare pericolosa e fuorviante. Invito perciò a pensare in grande non foss’altro che per dare una speranza a chi ci seguirà come ben ha saputo cogliere nella sua amara constatazione il Michele Serra de Gli sdraiati.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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