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Riguardo con stupore le foto del balcone che scatenano l’applauso della folla sotto raccolta, e mentre Di Maio alza la mano nel gesto di vittoria, ecco che la memoria involontaria scatta non tanto perché, è ovvio, di trionfi annunciati sotto il balcone è assai prodigo il Novecento ma perché scenografia, luci, impostazioni rimandano a certi attori e tecniche del cinema espressionista con impressionante coincidenza. Così il vice-ministro è la copia perfetta di un grande attore cinematografico la cui carriera è indissolubilmente legata alla nascita del filone dei film horror: Bela Lugosi la cui vita scopro ha molti punti di contatto con quella del vice-ministro. Ecco alcune informazioni:

“Bela Lugosi, pseudonimo di Béla Ferenc Dezső Blaskó (Lugoj, 20 ottobre 1882 – Los Angeles, 16 agosto 1956), è stato un attore ungherese, inizialmente attivo anche come sindacalista. È rimasto celebre per le sue interpretazioni nei film horror, prima fra tutte quella del personaggio di Dracula. Ha recitato in piccole parti teatrali in patria prima di prendere parte al suo primo film nel 1917, ma dovette lasciare il suo paese a seguito della fallita rivoluzione sovietica ungherese del 1919”.

Sappiamo, sappiamo: la Storia non si ripete ma crea impressionanti contatti tra il passato e il presente. Vedere dunque il ghigno di Lugosi e l’inquadratura del politico sul balcone fa una certa impressione, così come sapere che la carriera dell’attore comincia come sindacalista. In più, la sua fama venne presto offuscata da Boris Karloff, insuperato attore inglese che gli contese e alla fine vinse il ruolo di Frankenstein (ogni riferimento alla realtà attuale NON è casuale ma voluto).

D’altra parte le preoccupate note del presidente Mattarella sulla tenuta dei conti e sul rapporto con l’UE provocano in Matteo Salvini una vibrata reazione che si esprime in questa frase: “La Carta non impedisce un cambio di rotta. Mattarella stia tranquillo. Dell’Europa me ne frego“. E nel contesto della giornata mondiale del sordo, così il ministro dell’Interno replica al rischio di una bocciatura della manovra: “Abbiamo fatto una manovra che investe soldi per chi di soldi non ne vede da molti anni: giovani, pensionati, le pensioni di invalidità. E se a Bruxelles mi dicono che non lo posso fare me ne frego e lo faccio lo stesso”.

Ma una parola evidentemente imbarazzante (non per lui) le cui origini sono di natura dannunzian-mussoliniana e che Berlusconi che se ne servì nel 2018 per replicare a chi gli domandava se fosse in ambasce per la decisione di Strasburgo sul suo ricorso (poi ritirato), vale una piccola indagine filologica che s’accoppia per me alla lettura di un libro fondamentale che sta avendo, per fortuna, un successo di pubblico impressionante: M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati (Bompiani 2018) che, uscito agli inizi di settembre, sta già esaurendo la seconda edizione. Sappiamo quanto l’innovazione linguistica in età mussoliniana andasse di pari passo con il rifiuto dell’altro, dello straniero, e quindi fosse ineluttabilmente legato all’ignobile giornale che diffuse nel tempo il concetto della difesa della razza (encomiabile da questo punto di vista, specie nel corredo iconografico, il numero dell’Espresso uscito il 30 settembre che ripercorre il terribile tema nella propaganda mussoliniana). Che si sia poco attenti alle traduzioni e quindi nel recepire una fake news è ormai consuetudine; come quella che riguarda la frase del presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker che, in polemica con l’allora premier Matteo Renzi, usò le parole “je m’en fous”: “La traduzione che andò per la maggiore fu “me ne frego”, con inevitabile coda di polemiche, anche se in francese il senso è tra “non m’importa” e il triviale “me ne fotto”.

Nella volontà di “nazionalizzare” il linguaggio voluta dal Duce e di quanti impressionanti neologismi la lingua italiana si appropriò che oggi suscitano ilarità se non perplessità, il me ne frego ha illustri radici. Fu coniato da d’Annunzio che (come riporta la Treccani): “Un motto “crudo” come lo definì lo stesso poeta, […]. Il motto apparve per la prima volta nei manifesti lanciati dagli aviatori del Carnaro su Trieste. Il motto era ricamato in oro al centro del gagliardetto azzurro fiumani (un gagliardetto che riporta “me ne frego” è presente al Vittoriale degli italiani di Gardone, nella dei legionari sezione “schifamondo. […]Trae origine dalla scritta che un soldato ferito si fece apporre sulle bende, come segno di abnegazione totale alla Patria”.

Accertate dunque le origini dannunziane del motto, quest’ultimo si diffuse presto tra gli squadristi e tra gli Arditi che nell’immediato dopo guerra sembravano divenire una mina vagante e che Mussolini usò per crearsi quel seguito di elettori che la defezione dei socialisti gli aveva fatto mancare, come spiega in modo straordinario il libro di Scurati. Il motto dunque si ripete nell’inno che accompagna le imprese dei fascista di cui diamo qui una strofe:

“Questa nostra bella Italia
non sia usbergo al traditore
e soltanto il tricolore
arra sia di civiltà
Per d’Annunzio e Mussolini
eia, eia, eia
alalà! …

Me ne frego,
me ne frego,
me ne frego è il nostro motto,
me ne frego di morire
per la santa libertà!…”

Con questo intendo dire che Salvini è un fascista? No certo ma che non sappia misurare le parole e non ne conosca l’origine è sicuramente accertato.

Per riprendere a proposito di impressionanti contatti il tema affrontato da Bassani e riproposto da Vancini nel film La lunga notte del ’43 leggo il rapporto esibito da Scurati dell’ispettore di pubblica sicurezza Gasti che nel 1919 scrive: “Benito Mussolini è di forte costituzione fisica sebbene sia affetto da sifilide. Questa malattia particolarmente vergognosa secondo il senso comune ma che il Duce riscatta con le sue avventure amorose è quella che affligge il farmacista Barillari nel racconto bassaniano. Una malattia procuratagli dall’imposizione di Sciagura a frequentare le case di tolleranza tra un’impresa squadristica e l’altra e che procurerà l’atteggiamento di Barillari a non più giudicare ma ad osservare. La sifilide per lui non sarà più segno di virilità.

Come concludere? Mi sembra ovvio. L’attenzione della ‘ggente’ alle imprese dei due dioscuri giallo-verdi andrebbe ‘monitorata’ con un poco di Storia ma purtroppo sembra che questa fondamentale capacità dell’uomo di stabilire una connessione tra passato e futuro e leggerla nel presente sia la grande assente nell’impresa politica non solo italiana ma mondiale.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

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Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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