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La roulette non rende a nessuno, se non a chi la possiede. Tuttavia, la passione per il gioco è comune, mentre la passione per il possesso della roulette è ignota. (George Bernard Shaw, ‘Uomo e superuomo’, 1903)

Enormi sale, arredamenti diversi ma un’unica atmosfera palpabile e percepibile che nettamente le accomuna: tensione, frenesia, febbre, smania, attesa spasmodica col fiato sospeso e cedimento improvviso quando il gioco arriva in battuta finale. Per poi ricaricarsi e ricominciare. C’è chi fuma negli spazi riservati, chi concentra ogni singola risorsa personale su quei numeri che vengono chiamati e scanditi velocemente da una voce incolore, metallica; qualcuno mangia un toast, una fetta di dolce, un gelato, senza mai perdere di vista per un solo istante le cartelle acquistate, mentre qualcun altro ordina da bere tra una scansione e l’altra, controllando i soldi che ha preparato sul tavolo, pronti per nuove puntate. I croupier si muovono come silenziosi e felpati felini tra i tavoli, esibendo mazzette di cartelle, pagando i vincitori e raggiungendo fulmineamente le braccia alzate che li reclamano.

Sono le sale bingo, popolate da clienti di ogni estrazione, giovani e meno giovani, donne, uomini, gruppetti di signore inanellate accanto a solitari e scontrosi pensionati, piccole comitive di amici, frequentatori abituali e occasionali, coppie silenziose che di coppia hanno ormai ben poco, ragazzi in attesa di finire la serata in un qualche altro locale. Una moltitudine che popola uno spazio estraniante in cui contano solo ed esclusivamente i numeri allineati rigorosamente sulla stessa linea o nella stessa cartella: tutto il resto è nulla. E a ogni cinquina, ogni bingo, c’è sempre chi esulta carico di adrenalina e chi, svuotato e deluso, aggredisce con lo sguardo allusivo e colpevolizzante i fortunati del momento. Sferzate emotive che si alternano di continuo in esaltazione e depressione, riempiono quei vuoti che si cerca di colmare dando l’illusione di cancellare frustrazioni, infelicità, noia. Gli stessi meccanismi, le stesse razioni che troviamo nelle sale di slot machine e nei casinò, con una differenza percettiva: mentre il casinò viene ancora visto come un luogo più esclusivo per retaggi di natura storica, le altre pratiche di gioco più recenti sono alla portata di chiunque, senza riserve e limiti, in posti e spazi comuni, facilmente raggiungibili e frequentabili, come bar, tabacchini ed esercizi pubblici, più tranquillizzanti, più ‘normali’, più giustificabili nel mettersi in pace con se stessi nei momenti di ripensamento.

In fondo in fondo, il bingo è un po’ come la tombola che ci ricorda i Natali della nostra infanzia o le feste in parrocchia e il bar è un po’ la nostra seconda casa in cui fermarsi a prendere un caffè e fare due chiacchiere… Incredibile come si riesca ad autoassolversi dai sensi di colpa e a calmare ansia e stati depressivi davanti a quei tavoli magnetici e quelle macchine che assomigliano a luminosi totem da adorare, incitare e maledire. Il gioco ha sempre accompagnato l’individuo alla ricerca di emozioni forti, destinato molto, troppo spesso a diventarne schiavo irrecuperabile. “Smetto!”, ma poi l’indomani è sempre là, avvolto da una ragnatela che lo cattura e immobilizza. Una lenta china discendente dove slot, bingo, scommesse, videopocker, baccarat, roulette, black jack, chemin de fer, inducono alla ludopatia: una vera e propria dipendenza comportamentale, che vede un aumento graduale delle giocate, del tempo trascorso a giocare, delle somme di denaro impegnate nel tentativo di recuperare le perdite, oltre che una progressiva trascuratezza dei propri impegni quotidiani e una distorsione della realtà.

In rete il gioco d’azzardo prospera: casinò virtuali, siti con recensioni, community di giocatori e forum dedicati ad appassionati scommettitori hanno contribuito in modo massiccio all’aumento del fenomeno. Il termine ‘azzardo’, deriva dall’arabo ‘az-zahr’, il dado, perché proprio il gioco dei dadi è uno dei più antichi che si conoscano, come ci dimostrano i giocatori di dadi negli affreschi di Pompei. Giocatori d’azzardo nelle taverne, bari e imbroglioni nei bassifondi, liti tra giocatori di carte, scaltri ladri ai tavoli da gioco, ingenui scommettitori e ciarlatani di strada, popolano i dipinti di epoche e autori diversi tra cui di Murillo, Bruegel, Ribera, Cezanne, Dix, de Vega, Caravaggio, Botero e numerosi fiamminghi tra cui van Herp e van Leyden, invitando il nostro sguardo sul vasto, inquietante mondo del gioco con pennellate e ritratti di un’espressività sconcertante.

Nelle pagine di letteratura, ‘ Il giocatore’ (1866) costituisce un piccolo capolavoro di Dostoevskij, scritto dal grande autore russo, ironia della sorte, proprio per necessità di pagare debiti di gioco. Tutta la vicenda, ambientata nella città tedesca dal nome fittizio di Roulettenburg, ruota attorno a una famiglia stravagante, in cui il precettore Aleksej Ivànovic, innamorato di Paolina, diventa un giocatore incallito per guadagnare quelle somme di denaro che potrebbero avvicinarlo alla ragazza e sbarazzare il campo dagli altri pretendenti. Alla fine, davanti alla possibilità di cambiare totalmente vita, l’uomo sceglie e decide di rinviare al futuro la sua definitiva redenzione. Lo scrittore analizza, nel racconto, il gioco d’azzardo in tutte le sue forme, descrivendo le tipologie di giocatore, dal ricco nobile europeo al poveretto che si gioca tutti i suoi averi, non risparmiando il lettore su caratteristiche e peculiarità legate alla provenienza geografica dei protagonisti: l’altezzoso barone tedesco, il ricco gentleman inglese, il francese manipolatore.
E come Dostoevkij, anche Stefan Zweig parla di gioco compulsivo nella novella ‘Vierundzwanzig Stunden aus dem Leben einer Frau’ (24 ore nella vita di una donna) pubblicata nel 1927. Siamo in un rispettabile albergo della Costa Azzurra degli anni Venti dove, in seguito a un evento scandaloso, una riservata nobildonna inglese confessa ciò che le era accaduto trent’anni prima, quando aveva amato intensamente e per una sola volta un giovane russo devastato dalla febbre del gioco che aveva ormai dissipato tutti i suoi averi. Lei gli aveva donato i soldi per tornare a casa, ma il giorno successivo lo avevano trovato morto suicida dopo un’ultima, drammatica notte ai tavoli del casinò di Montecarlo. Una novella di vita e di morte e nel mezzo, una gamma di sentimenti e sensazioni come stupore, gioia, vitalità, sdegno, rancore, angoscia. Come Stafan Zweig sa descrivere. Il gioco fa la sua irruzione anche in ‘Il fu Mattia Pascal’ di Pirandello (1903): Mattia si imbatte in un metodo per vincere alla roulette, attraverso una rivista acquistata a Nizza. Sappiamo che non esiste alcun metodo se non quello di non giocare o smettere di farlo ma l’uomo, travolto dalla frenesia inarrestabile gioca, punta, vince, si inebria e perde a poco a poco il legame con la realtà. “I primi colpi andarono male. Poi cominciai a sentirmi in uno stato di ebbrezza estrosa, curiosissima: agivo quasi automaticamente, per improvvise ispirazioni…ero come elettrizzato, gli orecchi ronzavano, ero tutto in sudore, gelato…la mano mi andò sullo stesso numero di prima, il 35; fui per ritirarla, ma no, lì, lì di nuovo, come se qualcuno l’avesse comandato.” In un’opera del 1986, ‘La Partita’, Alberto Ongaro racconta di una Venezia del XVIII secolo avvolta da un’atmosfera lugubre, sommersa dal ghiaccio di un inverno inclemente. Il protagonista è il giovane Francesco Sacredo, appena tornato dall’esilio a Corfù, che tenta di recuperare il patrimonio familiare perso al gioco dal padre. Gli viene offerta la possibilità di riguadagnare tutto nel corso di una partita ad alta tensione con la contessa Matilde von Wallenstein e la posta in gioco è altissima: in caso di perdita egli stesso diverrà un bene della vincitrice. Sconfitto, fuggirà per sottrarsi alla sorte prestabilita, ma la sua fuga si trasformerà anch’essa in una partita senza fine col proprio destino.

Opere che descrivono con dovizia di particolari una condizione umana pesante, una prigionia devastante, l’impossibilità di disporre di un proprio volere e della libertà di scelta perche si è entrati in un vortice che non lascia margine di uscita. Epoche diverse, ma sempre la stessa delirante situazione legata al tema della dipendenza da gioco. In Italia la cura della ludopatia, riconosciuta solo in tempi recenti condizione patologica, beneficia di sempre più attenzione, anche se rimane ancora molto da fare. I Sert presenti in alcune regioni, equipe di specialisti e associazioni di mutuo aiuto stanno operando in modo mirato per diffondere conoscenza sul problema in incremento; campagne di sensibilizzazione stanno agendo per disincentivare la nascita e la diffusione di ulteriori punti di attrazione al gioco, chiedendo la soppressione e la chiusura degli esistenti, ben consapevoli che il volume d’affari che riguarda questo business è enorme e quando si tratta di incassi e somme vertiginose di denaro che circola, la ‘partita’ diventa difficile.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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Francesco Monini
direttore responsabile


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