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Ho da poco finito di leggere Helgoland di Carlo Rovelli.  Le sue prime pagine mi hanno aperto il cuore. In questi giorni in cui tutti si riempiono la bocca della parola scienza come fosse una fede e una verità assoluta lui scrive: “Ma questo è la scienza: un’esplorazione di nuovi modi di pensare il mondo. È la capacità che abbiamo di rimettere costantemente in discussione i nostri concetti. È la forza visionaria di un pensiero ribelle e critico capace di modificare le sue stesse basi concettuali, capace di ridisegnare il mondo da zero”.
E mi sono detta: iniziamo bene. Potente e coinvolgente l’idea di Rovelli di partire dalla storia del giovane Heisenberg, della sua ricerca della solitudine in un paesaggio nordico, duro, della sua scalata su una roccia per vedere l’alba la notte in cui riesce a far tornare i conti che gli permetteranno di comunicare la sua idea sui quanti. Potente  per introdurre la spinosa e controversa teoria dei quanti.  Affascinante la sua disanima su tanti filosofi, di cui i nomi sono sconosciuti ai più, che hanno animato le discussioni nel 900. Però la teoria resta controversa.
Perché è controversa? Perché da più di 100 anni la teoria dei quanti crea accese discussioni tra gli scienziati e oggi, questo Rovelli lo  sa, anche tra la gente comune come me, proprio sull’uso delle parole che servono a illustrarla. Mentre i numeri tornano, almeno, quelli di Heisenberg continuano a funzionare e sono alla base della meccanica quantistica su cui si fonda la tecnologia odierna, non tornano le parole che danno concretezza alla realtà descritta dalla teoria.
È una teoria aperta a diverse interpretazioni, con il rischio che se ne possa anche fare scempio ‘filosofico’. È come se le parole, in questa teoria, si comportassero come i quanti: corrispondono a significanti molti diversi e costruiscono immaginari diversi in chi prova a leggerla e immaginarla. Rovelli lo ha capito bene e tenta di indirizzare i possibili significati dei significanti, perché ama troppo la sua fisica teorica per vederla strapazzata dalla gente comune.
In un certo senso crea una tabella delle parole possibili, come Heisenberg crea la tabella dei numeri possibili. È onesto Rovelli, nel suo secondo capitolo descrive tre modi diversi di raccontarla, quelli su cui gli scienziati si confrontano e litigano, tre modi che comunque presuppongono a monte un dogma e l’autore si posiziona su quella che gli corrisponde di più, ma non dice il dogma che la caratterizza.

E qui vengo al punto di rottura con  l’autore. Rovelli, a mio modo di vedere fa un errore: fatica a riconoscere che ogni tentativo di descrizione della teoria, anche la mia,  e dunque anche la realtà, è per forza legata a una idea dogmatica interna che abbiamo del mondo. Ed è qui che io sento la mia strada divergere dalla sua. Io non ho alcuna resistenza a riconoscere che le mie teorie partano da un dogma, cioè da una verità che sento dentro  di me, ma che non è spiegabile a parole, da una esperienza mistica, mentre Rovelli si arrovella scusate il gioco di parole, sul modo possibile di eludere il dogma perché se no tutto il castello della scienza illuminista fondata su logos, razionalità e dimostrazione, crollerebbe.
Mi viene da aggiungere che, da buon maschio, vuole disegnare la mappa che porta al tesoro, quella unica possibile, anche se, a me,  la teoria dei quanti  dice proprio che ognuno potrà trovare il tesoro seguendo la sua di mappa. So bene che questa mia definizione farà arrabbiare l’universo maschile, ma da buona femminista interpreto la realtà proprio sotto una lente radicale. La teoria dei quanti a livello filosofico ammette senza se e senza ma che l’osservatore modifica la realtà, e dunque fa rientrare dalla porta quello che la storia ha sempre fatto uscire dalla finestra, e cioè che di un dato fatto storico ci possono essere versioni molto differenti.
Le donne lo sanno bene: troppa storia manca della loro interpretazione. Rovelli  sa che la filosofia,  la scienza e la storia devono dialogare, che le une senza l’altra perdono di senso,  si smaterializzano , diventano solo speculazioni astratte che poi di fatto non cambiano veramente il mondo,  o lo cambiano polarizzando le ideologie al punto da creare scontri violenti, ma resta nel solco della storia lineare. L’uomo (maschio, bianco possibilmente) deve potere trovare l’elemento ultimo per spiegare le leggi che governano la natura così da assicurare il tanto bramato ‘bene comune’.
So bene che la mia accusa di maschilismo a Rovelli suonerà cattiva e ingiusta. In realtà io non credo che lui lo sia in modo consapevole, ma in due frasi del suo libro proprio mi ha fatto arrabbiare: una a pagina 55, quando nella lista  delle cose che vuole indagare e studiare ci mette anche tutte le ragazze: “quando volevo provare tutto, leggere, sapere, vedere, andare: tutti i luoghi, tutti gli ambienti, tutte le ragazze, tutti i libri, tutte le musiche…” e una alla fine del libro quando scrive “sapere che la mia ragazza obbedisce alle leggi di Maxwell non mi aiuta a farla contenta” .
So bene che estrapolare le frasi dal  loro contesto  è operazione discutibile ma  la radice del mio disaccordo con Rovelli sta proprio lì, nello sguardo sul reale, così  differente che caratterizza il mio essere donna e il suo essere uomo.

Gli esseri umani da tempo immemore cercano di trovare il loro modo di stare al mondo in armonia con il cosmo, lo fanno cercando di comunicare le leggi che governano la natura, ma in occidente, da ormai troppo tempo, lo fanno per potere sottrarre alla natura il suo potere. Le leggi cambiano e si fanno rarefatte  nei momenti di grande cambiamento, proprio come in quello che stiamo vivendo,  e la natura, sapiente, le tiene costantemente in movimento vanificando il sogno onnipotente dell’uomo, quello di governare tutto.  Antigone insegna,  tra la legge e lo stare al mondo c’è uno spazio inalienabile, lo spazio della nostra coscienza. E’ ora che la fisica, la scienza e la filosofia   riconosca quello spazio, gli dia un nome, e accetti che è uno spazio concreto e invisibile allo stesso tempo,  con un potere incorruttibile e inaccessibile a livello generale.

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Roberta Trucco

Classe 1966, genovese doc (nel senso di cittadina innamorata della sua città), femminista atipica, felicemente sposata e madre di quattro figli. Laureata in lettere e filosofia con una tesi in teatro e spettacolo. Da sempre ritengo che il lavoro di cura non si limiti all’ambito domestico, ma debba investire il discorso politico sulla città. Per questo sono impegnata in un percorso di ricerca personale e d’impegno civico, in particolare sui contributi delle donne e sui diritti di cittadinanza dei bambini. Amo l’arte, il cinema, il teatro e ogni tipo di lettura. Da alcuni anni dipingo con passione, totalmente autodidatta. Credente, definita dentro la comunità una simpatica eretica, e convinta “che niente succede per caso.” Nel 2015 Ho scritto la prefazione del libro “la teologia femminista nella storia “ di Teresa Forcades.. Ho scritto la prefazione del libro “L’uomo creatore” di Angela Volpini” (2016). Ho e curato e scritto la prefazione al libro “Siamo Tutti diversi “ di Teresa Forcades. (2016). Ho scritto la prefazione del libro “Nel Ventre di un’altra” di Laura Corradi, (2017). Nel 2019 è uscito per Marlin Editore il mio primo romanzo “ Il mio nome è Maria Maddalena”. un romanzo che tratta lo spinoso tema della maternità surrogata e dell’ambiente.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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