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La lunga storia di deportazioni dell’Ucraina: gli spostamenti forzati che sembra stiano avvenendo oggi sono solo l’ultimo capitolo di duecento anni di migrazioni imposte, dall’impero zarista all’Unione Sovietica.

L’Ucraina non è un territorio martoriato soltanto da febbraio 2022: da sempre, una nazione a cui a lungo non è  corrisposta un’entità statale è esposta alle pretese dei poteri più forti, che ne sottopongono la popolazione a deportazioni e migrazioni forzate. Questi sono tra i mezzi usati dal potere, funzionali allo smembramento dei paesi da assoggettare.

Direzione Siberia

Questo sistema di controllo della popolazione – e di volta in volta usato per raggiungere obiettivi politici o economici che spesso includono la colonizzazione dei territori più remoti –  è largamente impiegato dall’impero russo. Nell’Ottocento, epoca di antisemitismo endemico, tra i popoli presi di mira ci sono innanzitutto gli ebrei, che secondo i censimenti a fine secolo sono ancora il 12% della popolazione del territorio occidentale dell’impero, corrispondente alle attuali Bielorussia, Ucraina, Lituania e Polonia orientale; qui sono costretti a rimanere, perché è loro vietato spostarsi, fino a quando il potere non ne decide la deportazione. Ma a essere vittime dei trasferimenti forzati sono anche 200.000 tedeschi del Volga, i germanofoni discendenti dei contadini immigrati in Russia nella seconda metà del XVIII secolo su invito della zarina Caterina per stabilirsi lungo il medio Volga, ma anche in Ucraina e in Crimea.  Oltre un secolo dopo, i loro nipoti sono costretti a spostarsi di nuovo, ancora una volta verso est: la loro destinazione è la Siberia e le loro terre vengono distribuite a popolazioni di sicura fede zarista.

Queste popolazioni sono anche inviate a est per colonizzare più o meno volontariamente i territori nei quali l’impero si sta espandendo, dando vita a entità amministrative su base ucraina nell’estremo oriente russo.

Il cambio di regime

Con lo scoppio del Primo conflitto mondiale le deportazioni si sommano alla fuga delle popolazioni delle regioni frontaliere dell’impero, per allontanarsi dai pericoli del fronte di guerra, con il risultato che all’alba della rivoluzione bolscevica sono ormai 7,4 milioni i profughi nei territori sotto il controllo russo.

Con il cambio di regime, però, non cambia troppo la strategia di controllo: anche l’Unione Sovietica usa le deportazioni per allontanare dalle aree strategiche i popoli ritenuti meno fedeli, per status socio-economico o appartenenza politica, con il pretesto della loro presunta pericolosità. Stalin, per silenziare i sentimenti indipendentisti e nazionalisti ucraini si spinge oltre, sfruttando l’ancor più radicale mezzo dello sterminio per fame, come fatto proprio in  Ucraina attraverso l’Holodomor.

E prima ancora della Seconda guerra mondiale in migliaia sono fatti trasferire dai territori occidentali dell’Unione alla Siberia e all’Asia Centrale, in direzione di “villaggi speciali” e gulag. Ancora una volta l’Ucraina è particolarmente colpita, finendo per veder cambiare nel giro di pochi anni la propria composizione etnica, con quasi 900.000 persone trasferite complessivamente verso le lande più remote dell’URSS, dai tedeschi ai ceceni, dagli ingusci ai tatari di Crimea, e ancora esponenti delle minoranze ebraica, balcara, calmucca, armena, curda, turca e greca, nei primi anni Quaranta.

I gattini nella stalla

Paradossalmente, per molti ebrei questa deportazione sarà la salvezza, evitando loro di finire nelle mani dei nazisti che fanno strage nei territori occidentali dell’URSS; grazie all’aiuto dei militari Alleati di origine ebraica, molti riusciranno a passare in Palestina e a farlo clandestinamente, dato che, in base agli accordi tra gli Alleati, in quanto cittadini sovietici non potrebbero ottenere lo status di rifugiati e dovrebbero, invece, essere rimpatriati.

Ma anche per chi riesce a ottenere assistenza nei campi profughi alla fine della guerra, il ricollocamento è difficile, perché gli ucraini non compaiono nelle liste di nazionalità che sono la base su cui si innesta l’accoglienza e la gestione dei profughi nelle strutture allestite dagli Alleati nei territori sotto il loro controllo; perplesso di fronte alle difficoltà e preoccupato all’idea di essere considerato sovietico, un profugo sintetizza efficacemente: “Se un gatto va in una stalla dei cavalli a partorire i gattini, li considerate cuccioli di gatto o di cavallo?”.

La difficoltà delle autorità alleate nell’orientarsi nel mosaico etnico-nazionale dell’Europa orientale è imbarazzante – nelle linee guida si afferma che “è impossibile provvedere a una definizione precisa di chi sono gli ucraini. Si può solo dire che essi sono quelle persone che parlano ucraino e che desiderano essere considerati ucraini” – e solo nell’estate del 1947, quando ormai i rapporti tra angloamericani e sovietici sono guastati, gli ucraini compaiono stabilmente nell’elenco delle nazionalità dei campi profughi.

Oggi

Ancora oggi, l’invasione russa dell’Ucraina avviata a febbraio 2022 con l’obiettivo di smembrare il territorio e assoggettare la popolazione, secondo alcune fonti giornalistiche, parrebbe recuperare anche lo strumento delle deportazioni per facilitare il compito. Dopo le polemiche sui corridoi umanitari da Mariupol concessi solo in direzione di Russia e Bielorussia, anziché verso i confini occidentali, la direzione dell’intelligence del ministero della Difesa ucraino ha parlato di 40.000 ucraini portati con la forza in Russia dall’inizio dell’invasione, 15.000 solo da Mariupol in un mese. Secondo il Cremlino, che nega deportazioni, si tratterebbe di migrazioni volontarie. Se i dati saranno confermati, sarà chiaro una volta di più che la lunga storia di deportazioni dell’Ucraina non è ancora finita.

Fonti
– Antonio Ferrara, Niccolò Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa 1853-1953, Il Mulino, Bologna, 2012Guido Crainz, – Raoul Pupo, Silvia Salvatici (a cura di), Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d’Europa, Roma, Donzelli Editore, 2008Silvia –  – Salvatici, Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2008

Silvia Granziero
Nata tra le nebbie della Pianura Padana, ma con il cuore a est. Laureata in Giornalismo e cultura editoriale, vive a Trieste, dove lavora come autrice freelance e non smette mai di studiare. Volontaria al Trieste Film Festival, è in East Journal da gennaio 2022.

East Journal è una testata registrata presso il Tribunale di Torino, n° 4351/11, del 27 giugno 2011, fondata il 15 marzo 2010, totalmente no-profit, che unisce ricercatori a giornalisti, offrendo un modello di informazione che associa la chiarezza del linguaggio giornalistico alla profondità e competenza del mondo accademico.

Cover:  Deportazione forzata della popolazione di un villaggio dell’Ucraina dell’est da parte di soldati del battaglione Poznan, 1947 (foto Wikimedia Commons)

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Redazione di Periscopio


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di Piermaria Romani

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