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(Pubblicato il 19 marzo 2015)

“Finanza etica? La si può fare in due modi. Operando con Onlus e associazioni che non hanno scopo di lucro, come fa ad esempio Banca Etica, oppure pronunciando ogni tanto qualche bel no”. Ad affermarlo è Demetrio Pedace, direttore della filiale ferrarese di Cassa padana. E perché non si pronunciano quei no?, domandiamo. “Perché per farlo bisogna essere obiettivi nei giudizi, e invece ad un certo punto nelle banche  sono arrivati i manager e con loro i ‘budget’, e da allora tutto si è snaturato. Da lì in avanti tutti quanti, dal direttore agli impiegati, hanno smesso di ragionare con la loro testa ed hanno piegato tutti i loro comportamenti al raggiungimento del budget ad ogni costo. L’unica logica ammessa è diventata quella commerciale, e nelle valutazioni e nelle conseguenti scelte questo ha pesato eccome. L’obiettivo commerciale raggiunto (calato spesso dall’alto) è diventato l’unico metro per valutare un dipendente e le sue prospettive di carriera. Da una parte la lusinga della gratifica economica se si realizza l’obiettivo, dall’altra la penalizzazione nel caso opposto. Ed è chiaro allora da che parte ci si butterà. Peccato che così facendo, di etico resta ben poco. Si perde l’obiettività di giudizio, la possibilità di valutare i progetti senza condizionamenti, di soppesarli per quel che sono allo scopo di capire quando reggono e quando invece non stanno in piedi; e in quei casi rifiutare il finanziamento. Ora, invece, se mi viene posto l’obiettivo di stipulare cento mutui e sono a novantasette, è chiaro che per fare i tre che mi mancano e intascare ‘il premio’ farò di tutto, fino a ripescare quelli inizialmente scartati perché considerati a rischio”. Per non parlare di come gestirò i risparmi delle persone (e la loro fiducia), mentre sono pressato dai report sui risultati “dell’ultima campagna commerciale in corso…”

Ma se è così perché nessuno pone il problema?
Premesso che stiamo chiacchiarando e quindi inevitabilmente generalizzando, mentre invece ogni caso e ogni banca andrebbero analizzati singolarmente perché ognuno fa storia a sé (una delle cose che mi fa arrabbiare di più è la frase: “tanto le banche sono tutte uguali”…), io ho un mio empirico e molto personale modo per valutare l’approccio di una banca al mercato: guardo da quanto tempo il suo direttore generale è in carica. Mi spiego meglio: se io sono un manager che si è dato “obiettivi sfidanti” e al raggiungimento di tali obiettivi ho strappato nel mio contratto importanti benefit economici, farò di tutto – lo ripeto: di tutto…- per raggiungere l’obiettivo. Spremerò il limone fino all’ultima goccia, e chissenefrega delle conseguenze. Se ne occuperà quello che arriverà dopo di me, perché io nel frattempo sarò altrove, con i miei bonus in tasca, pronto per altri ambiziosi traguardi… Se invece il mio obiettivo è di far durare la banca nel tempo, tenerla al riparo dalle intemperie dei mercati, tutelando al contempo i soci della banca e la clientela affinché entrambi trovino in banca risposte serie e coerenti, ignorando scorciatoie per accelerare (meglio: drogare) i risultati economici di breve periodo preferendo un’ottica di medio lungo periodo, allora non sarò costretto a promettere  nulla di “mirabilante” per farmi pagare e potrò concentrarmi su una sana  e prudente gestione. Piccolo problema: sarò un manager che guadagnerà decisamente meno.

Anche lei fa questo mestiere, come si comporta?
Cerco di essere coerente con la mie convinzioni, per questo mi è già capitato di cambiare più volte istituto. Ho lavorato in passato, purtroppo, sotto pressioni commerciali al limite del sopportabile e me ne sono andato, non perché scappassi dai crolli imminenti, ma al contrario perché non condividevo il modo di agire dei vertici. Qui in Cassa padana ho trovato finalmente un ambiente di lavoro che rispetta la funzione autentica della banca così come io la intendo.

In cosa sta la diversità?
Siamo una banca legata ai territori in cui opera e che con i suoi territori condivide il destino. Usiamo spesso un immagine: se il territorio in cui opera la banca fosse un acquario, noi non saremmo fuori a guardare ma dentro a nuotare, nella stessa acqua con le famiglie e le piccole e medie aziende. Per questo motivo facciamo di tutto perché il territorio sia sostenibile, perché se manca l’acqua nell’acquario, o se non è sana, muoiono tutti i pesci che stanno dentro, noi inclusi.
E’ un modo di intendere l’etica nella finanza, perché poi alla fine – stringi stringi – l’etica è nei comportamenti ripetuti giorno dopo giorno, ed è un concetto che in banca va a braccetto con quello della sostenibilità. Anche noi facciamo i conti e abbiamo un bilancio (non siamo un ente no-profit) ma tutte le scelte vanno nel senso della sostenibilità nel tempo delle relazioni e nel cercare di sviluppare il territorio in cui operiamo. Questo però mi porta a fare un’ulteriore riflessione in tema di etica.

Cioè?
Il tema della finanza etica non va rivolto solo alle banche. La finanza la fanno insieme la banca, l’azienda, le associazioni di categoria, i professionisti (commercialisti e consulenti vari). Tutti questi attori insieme, con i loro comportamenti, fanno (o non fanno) un sistema etico.
Spesso noi banche finiamo accusati sulla stampa perché non aiutiamo le aziende. Ma cosa significa esattamente? che non diamo loro tutti i soldi che ci chiedono ogni volta che ce li chiedono? Vorrei dire: e meno male… Oppure che non c’è dialogo tra banca e azienda? Altro covo di luoghi comuni. Cosa vuol dire dialogo? Chi fa impresa ha in mente i suoi obiettivi e cerca tendenzialmente una banca che gli dia i soldi che gli servono e un consulente che gli dica cosa fare per realizzarli. Ma sia nella fase di definizione degli obiettivi, sia quando occorre affrontare i problemi delle aziende io come banca ben raramente vengo interpellato, salvo che a scelte già prese o a frittata già fatta. Scommetto che lo stesso capita anche con i professionisti, per esempio con i commercialisti. Loro dovrebbero ascoltare i clienti, consigliarli, indirizzarli, orientarli nelle scelte gestionali. Ma se si comportano così risultano dei rompiscatole che fanno perdere tempo, che si mettono di traverso. E siccome di tempo ne dovrebbero perdere davvero tanto per seguire seriamente ogni impresa, col rischio magari di essere liquidati perché si impicciano troppo e anziché trovare le soluzioni muovono obiezioni, ecco allora che spesso finisce che rinunciano al ruolo che competerebbe loro e attaccano il carro dove vuole il padrone, limitandosi a valutare gli aspetti fiscali e contributivi. Non vale ovviamente per tutti, ma la maggior parte ormai si regola così. Insomma: l’imprenditore che dice di non ricevere aiuto, intende dire che non trova abbastanza persone in giro che gli danno sempre ragione? E’ davvero disponibile a sentirsi dire dal suo professionista di fiducia o dalla sua banca di sempre: “la tua idea è sbagliata, siediti qua che ti spiego perché”?

Guardandoci intorno, lei che è uomo di banca come spiega le difficoltà della Carife?
Come uomo di banca non voglio dire nulla semplicemente perché non lavoro per loro e direi quindi delle cavolate. Come cittadino ferrarese però io faccio sinceramente il tifo affinché la banca della città riesca ad uscire dalle sue difficoltà e ritorni ad essere un motore dell’economia ferrarese. Perché se è vero che nel quotidiano io sono e sarò un loro “competitor”, è altrettanto vero che come cittadino ho goduto di quanto sul territorio la Carife ha sempre fatto per la città. L’unica cosa che dico è che la mia sensazione è che nessuno contesti loro le vicende cittadine – penso al crac Coopcostruttori e ad altre crisi di altri grossi gruppi ferraresi – perchè erano imprese del territorio ed era nella logica delle cose sostenerne lo sviluppo. Ovviamente con il senno di poi sono bravi tutti, e quindi si sono sprecate le analisi da cui risulta che si potevano fare scelte diverse, ma di fatto la loro operatività andava a beneficio del territorio, creava ricchezza e difendeva posti di lavoro. Quello che alla gente non va giù sono invece le scelte aziendali fatte “lontano da casa”, le operazioni andate male fatte su altri territori. Ma ripeto: parlo da cittadino, senza nessuna conoscenza dei numeri e delle reali situazioni della banca. Penso solo che alla fine si ritorna sempre al concetto di territorio: la gente pensa che le banche (non solo le banche di credito cooperativo come quella in cui lavoro io che ce l’hanno scritto perfino nello statuto, ma anche le altre, e in primis le Casse di risparmio e le Banche popolari) devono essenzialmente propiziare lo sviluppo delle comunità di cui sono espressione, delle aree di appartenenza. Tornando a Carife, per anni ha alimentato la sua Fondazione che a sua volta riportava la ricchezza prodotta sul territorio, sostenendo la cultura, le associazioni, lo sport e alimentando così un sistema virtuoso. Con la crisi della banca il meccanismo è andato in corto circuito e oggi la città è oggettivamente più povera. Per questo, da cittadino, faccio il “tifo” per loro.

Ma il modello di banca che tutti rimpiangono, quello in cui il direttore si sedeva davanti a te, ti ascoltava e ti guardava negli occhi e sulla base dell’esperienza e della validità del progetto esposto decideva se sostenere l’impegno, è ancora proponibile o destinato ad alimentare la nostalgia del tempo che fu?
Ma guardi che è quello che faccio dalla mattina alla sera! E di sicuro non sono l’unico. E aggiungo anche che è un sistema che paga. Il sistema delle pressioni commerciali e dei budget alla lunga lascia sul campo “morti e feriti”: direttori “bolliti” che vanno riciclati in altri ruoli ma di fatto diventano un peso aziendale, clienti e aziende che chiudono i conti, cause giudiziarie… Il sistema “sano” è quello in cui mentre sto seduto ascolto davvero, non sto lì a pensare mentre l’altro parla: “e adesso a questo qua cosa gli vendo?”

Quindi qual è il suo auspicio?
Ha presente il Monopoli? Se uno vuole vincere a Monopoli, cerca di comprare Parco della Vittoria” e di metterci le case e gli alberghi sopra, oppure compra le “stazioni”. Chi invece a monopoli tiene “la banca” non vince e non perde; è un pezzo delle regole del gioco, non un giocatore come gli altri. Si diverte se il gioco fila liscio e tutti giocano con profitto. Ecco, spero che le banche tornino a fare le banche tenendo presente che, come dicevo prima, siamo tutti pesci nello stesso acquario: le risorse devono essere tutelate e durare nel tempo per tutti. Perché se l’acqua diminuisce o non è limpida nuotiamo peggio tutti, o magari finisce che non nuota più nessuno.

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Sergio Gessi

Sergio Gessi (direttore responsabile), tentato dalla carriera in magistratura, ha optato per giornalismo e insegnamento (ora Etica della comunicazione a Unife): spara comunque giudizi, ma non sentenzia… A 7 anni già si industriava con la sua Olivetti, da allora non ha più smesso. Professionista dal ’93, ha scritto e diretto troppo: forse ha stancato, ma non è stanco! Ha fondato Ferraraitalia e Siti, quotidiano online dell’Associazione beni italiani patrimonio mondiale Unesco. Con incipiente senile nostalgia ricorda, fra gli altri, Ferrara & Ferrara, lo Spallino, Cambiare, l’Unità, il manifesto, Avvenimenti, la Nuova Venezia, la Cronaca di Verona, Portici, Econerre, Italia 7, Gambero Rosso, Luci della città e tutti i compagni di strada

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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